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TEOLOGIA E NEUROSCIENZE: L’ESSERE UMANO AI TEMPI DEL NATURALISMO SCIENTIFICO
TEOLOGÍA Y NEUROCIENCIAS: EL SER HUMANO EN TIEMPOS DE NATURALISMO CIENTÍFICO
THEOLOGY AND NEUROSCIENCE: THE HUMAN BEING IN TIMES OF SCIENTIFIC NATURALISM
TEOLOGIA E NEUROSCIENZE: L’ESSERE UMANO AI TEMPI DEL NATURALISMO SCIENTIFICO
Revista Iberoamericana de Teología, vol. XX, núm. 38, pp. 11-33, 2024
Universidad Iberoamericana, Ciudad de México
Recepción: 31 Enero 2023
Aprobación: 06 Junio 2023
Resumen: La diversificación de las habilidades cognitivas, seleccionadas desde el pasado evolutivo del homo sapiens, significa que los humanos no presentan un cerebro predeterminado para una única función. Por el contrario, la extraordinaria naturaleza de la cognición humana consiste precisamente en ser no-especializada. A partir de tal indeterminación biológica fluye la incalculable variedad de las culturas humanas. En el intento de explicar el “fenómeno humano”, ¿cuál es el valor que conservan las antropologías teológicas y filosóficas en comparación con la narrativa sobre el ser humano propuesta por las llamadas “ciencias exactas”? Hoy las neurociencias parecen replantear la instancia metodológica que, en los albores de la Modernidad, movía el conocimiento empírico-científico en búsqueda de un lenguaje general y formal capaz de explicar cada aspecto de la realidad y del hombre. El peligro planteado por su manera de “decir el hombre” es que propone un reduccionismo materialista basado en lo neural. Sin embargo, las investigaciones neurocientíficas pueden aportar una nueva luz sobre la dimensión de la subjetividad y de la experiencia humana, profundizando la reflexión teológica en el ámbito antropológico.
Palabras clave: imaginación, lenguaje, epistemología, cognición encarnada, neuronas espejo..
Sommario: La diversificazione delle abilità cognitive, selezionate dal passato evolutivo di Homo Sapiens, fa sì che l’uomo non presenti un cervello preordinato ad una sola funzione. Al contrario, la straordinarietà della cognizione umana consiste proprio nell’essere non-specializzata. Da tale indeterminatezza biologica scaturisce l’incalcolabile varietà di culture umane. Nel tentativo di spiegare il “fenomeno umano”, che valore conservano le antropologie teologiche e filosofiche rispetto alla narrazione sull’uomo proposta dalle cosiddette “scienze esatte” (hard science)? Le neuroscienze sembrano oggi riproporre l’istanza
Parole: immaginazione, linguaggio, epistemologia, cognizione incarnata, neuroni specchio.
Abstract: The diversification of cognitive abilities, selected from Homo Sapiens’ evolutionary past, means that humans do not present a brain preordained to a single function. On the contrary, the extraordinary nature of human cognition consists precisely in being non-specialized. From such biological indeterminacy flows the incalculable variety of human cultures. In the attempt to explain the “human phenomenon,” what value do theological and philosophical anthropologies retain compared to the narrative about man proposed by the so-called “exact sciences”? Neurosciences today seem to repropose the methodological instance that, at the dawn of Modernity, moved scientific-empirical knowledge in search of a general and formal language capable of explaining every aspect of reality and man. The danger posed by their way of “saying man” is that of proposing a neural-based reductionist materialism. However, neuroscientific research can shed new light on the dimension of subjectivity and human experience, deepening theological reflection in the anthropological field.
Keywords: imagination, language, epistemology, embodied cognition, mirror neurons..
1. Le neuroscienze, tra immaginazione e linguaggio
Il fisico Albert Einstein, in un’intervista rilasciata nel 1929, ebbe a dichiarare che «l’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata. L’immaginazione comprende il mondo1».
Un’affermazione che, probabilmente, molti scienziati oggigiorno troverebbero condivisibile, ma che in passato ha certamente suscitato non poche perplessità. Per più di due secoli, una certa “educazione scientifica” ha alacremente lavorato alla costruzione di una rassicurante narrazione del “metodo empirico”. L’insistenza sulla raccolta di dati, sulla ripetibilità dei protocolli sperimentali, poneva enfasi più sui risultati raggiunti che non sui processi avviati, omettendo il fatto che all’origine di molte rivoluzionarie scoperte scientifiche spesso si pongano intuizioni improvvise e illuminazioni casuali.
Che sia visiva, linguistica o astratta, che sia applicata all’ambito dell’espressività artistica o della ricerca scientifica, l’immaginazione si pone come uno strumento imprescindibile della razionalità umana nel suo tentativo di scoprire il nuovo (euristica), di interpretare il reale (ermeneutica), di orientare l’agire (etica).
Basti pensare a come l’analisi fenomenologica, da Martin Heidegger a Maurice Merleau-Ponty, nel tratteggiare le coordinate essenziali della relazione tra umano e non-umano, abbia riconosciuto tanto l’arte quanto la scienza quali modelli ugualmente efficaci nell’operare una descrizione del mondo come orizzonte di senso. Ciò a motivo del fatto che, sia alla base dei processi creativi che di quelli analitici, la capacità d’immaginazione costituisce un potente vettore di connettività, in grado di combinare elementi preesistenti, risolvere problemi e inventare soluzioni, disvelare aspetti della realtà rimasti fino a quel momento celati.
Per usare il lessico del beato J. H. Newman, immaginare consente un “allargamento della mente” (enlargement of mind)2, facilitando non soltanto l’indagine di ciò che è visibile, ma aiutando anche a cogliere la realtà di ciò che si colloca oltre le apparenze. Anche nella vita spirituale, come insegna sant’Ignazio di Loyola, l’immaginazione -se debitamente usata- può amplificare la percezione della presenza di Dio in tutte le cose, aprendo ai sensi la via della scoperta e dell’esplorazione mistica3.
Se l’immaginazione gioca un ruolo così decisivo nella cognizione umana, è interessante chiedersi cosa accada nel nostro cervello quando visualizziamo un’immagine, un volto, un paesaggio. Quali aree cerebrali vengono attivate e coinvolte quando richiamiamo alla mente un ricordo o fantastichiamo su qualcosa? Che vantaggio ha comportato dal punto di vista evolutivo per la specie Homo sapiens? L’immaginazione può essere considerata come un’attività esclusiva dell’uomo, oppure è presente anche in altre specie animali?
Grazie alle procedure sperimentali per la visualizzazione del cervello “in vivo” (Neuroimaging4), cioè alle tecniche di diagnostica che permettono una mappatura diretta o indiretta della struttura, della funzione o della farmacologia del sistema nervoso, gli studiosi hanno scoperto che quando sogniamo ad occhi aperti vengono attivate le aree cerebrali che presiedono ai processi mnestici, come ad esempio l’ippocampo, una struttura situata all’interno del lobo temporale che ha principalmente il compito di immagazzinare ricordi e di registrare informazioni5.
L’immaginazione può anche determinare il coinvolgimento dei circuiti nervosi che governano le capacità di percezione. Ad esempio, è stato dimostrato che se si visualizza mentalmente un oggetto, si registra un’attivazione delle medesime aree della corteccia cerebrale visiva che sarebbero coinvolte se effettivamente ci trovassimo quell’oggetto dinanzi agli occhi6. Anche immaginare di correre o di saltare, di compiere un qualsivoglia movimento, comporta l’attivazione della corteccia motoria, normalmente coinvolta nella pianificazione, nel controllo e nell’esecuzione dei movimenti volontari del corpo7.
Se poi ci è possibile rendere qualcun altro partecipe di una nostra fantasia, facendo in modo che ciò che abbiamo pensato possa uscire dalla nostra testa e fecondare l’altrui immaginario, è grazie all’uso del linguaggio. Le parole ci consentono di esprimere il nostro universo interiore, di raccontare e di “oggettivare” quanto di più onirico e surreale la nostra mente riesca a partorire.
Anche in merito al linguaggio possiamo porre le stesse domande che abbiamo poc’anzi formulato per l’immaginazione: cosa accade nel nostro cervello quando parliamo? Quali aree cerebrali vengono attivate? Da un punto di vista evolutivo “quando” e “come” il linguaggio è insorto nella storia di Homo sapiens? Che vantaggi ha comportato per la nostra specie? Gli animali sono provvisti di linguaggio oppure è un’attività attribuibile esclusivamente all’uomo?
Se sull’origine del linguaggio ci sono varie teorie8, non si hanno dubbi sulla sua localizzazione nel cervello: nell’emisfero prefrontale sinistro, dove l’area di Broca è collegata all’area di Wernicke da un percorso neurale detto fascicolo arcuato.
L’area di Broca è principalmente legata all’elaborazione del linguaggio, mentre l’area di Wernicke presiede alle funzioni di comprensione. Accanto ad esse, occorre menzionare anche l’area di Geschwind che è specializzata nell’articolazione motoria oro-facciale, indispensabile nella pronuncia delle parole in attività come la lettura di un testo ad alta voce9.
Ma il linguaggio attiva anche la corteccia uditiva, quella visiva e quella motoria; le strutture mnestiche e quelle che intervengono negli stati emozionali, quelle del pensiero che si occupano della categorizzazione e della significazione della realtà, in modo da creare continue connessioni sinaptiche che coinvolgono tutto il cervello, con diversi circuiti e su differenti livelli, a seconda delle esigenze del momento e delle situazioni contestuali.
Il linguaggio interviene anche nella già citata attività dell’immaginazione: quando ci focalizziamo su qualcosa di totalmente astratto, la corteccia prefrontale responsabile del linguaggio si attiva in concomitanza con le zone corticali del lobo occipitale, in cui vengono immagazzinate informazioni visive, memorie tattili, olfattive, sonore, emozionali, così da sovrapporre più informazioni e creare immagini nuove, inesistenti10.
2. Vecchi interrogativi, nuove risposte? Le neurozcienze come sapere antropologico
Nel mondo esistono attualmente 7000 lingue con diverse strutture, parole, fonemi. Ogni bambino alla nascita è in grado di apprendere una qualsiasi tra di esse, ma dopo il quarto anno di vita diventa sempre di difficile imparare una nuova lingua.
Pare che l’imperatore Carlo Magno abbia detto che “Conoscere una seconda lingua significa possedere una seconda anima”11, mentre lo scrittore e drammaturgo inglese William Shakespeare in Romeo e Giulietta fa dire alla sventurata protagonista: «Cosa c’è in un nome? Ciò che chiamiamo rosa anche con un altro nome conserva sempre il suo profumo»12.
Già in epoca medievale la disputa sugli universali aveva contrapposto il realismo scolastico al nominalismo di Roscellino e Abelardo, ponendo in fondo un quesito legittimo: il linguaggio plasma la realtà o è ad essa contingente?
Vecchi interrogativi filosofici che adesso vengono affrontati anche delle neuroscienze in modo nuovo, avanzando la pretesa di dare soluzione a quanto finora rimasto insoluto, quanto meno sospeso nel dubbio.
Infatti, studi condotti nell’ambito delle scienze cognitive del linguaggio ci mostrano come il ruolo della lingua materna sia di fondamentale importanza nel modo in cui vengono plasmate le abilità cognitive di un essere umano. Anzi, la lingua materna, quella appresa per prima, diviene il riferimento a partire da cui si codifica il nostro essere collocati nel mondo: in definitiva, il linguaggio modella il nostro modo di pensare e di essere13.
Essere madrelingua spagnolo, cinese, o russo ha effetti diversi sull’architettura del pensiero, perché ogni lingua pone l’accento su elementi differenti dell’esperienza, forgiando così un modo specifico non solo di decifrare la realtà a noi circostante, ma anche di agire in essa e di relazionarci nei confronti degli altri14.
Basti fare un esempio che riguarda il mondo visivo, cioè la percezione e la descrizione dei colori. In lingua inglese la parola per indicare il colore blu (blue) copre tutta un’ampia gamma di tonalità che va da più a meno saturo. Nella lingua russa, invece, si distingue tra blu chiaro (goluboy) e blu scuro (siniy), ma il range di questi due insiemi include diverse sfumature e si applica agli oggetti in modo diverso. Nell’esame dell’attività cerebrale si può notare che i russi sono più veloci degli inglesi nel riconoscere la differenza di tonalità: l’emisfero sinistro di chi usa parole differenti per indicare le diverse sfumature di blu mostrerà una reazione (attivazione sinaptica) mentre gli verranno mostrate immagini con diversi toni di blu. Invece, le stesse immagini mostrate ad un nativo inglese non susciteranno la stessa reazione, perché non coglierà nella distinzione tra azzurro e blu un passaggio categoriale rilevante15. Inoltre, è stato notato che l’effetto del linguaggio sulla categorizzazione è maggiore nel caso di discriminazioni difficili rispetto a quelle semplici.
Ma i colori possono anche essere associati alle emozioni e questo tipo di accostamento varia a seconda della cultura e della lingua. Ad esempio, il blu per gli inglesi è il colore della tristezza (to feel blue, Blue Monday), mentre per gli italiani è il colore associato alla paura (avere una fifa blu!)16.
Un ulteriore esempio può essere quello di una remota comunità di aborigeni che vive in Australia: i Kuuk Thaayorre17. Questa tribù non distingue tra “destra e sinistra” nella propria lingua nativa, ma traduce tutto in punti cardinali: nord, sud, est, ovest. Crescere in un simile contesto culturale e linguistico, consente a questi nativi aborigeni di sviluppare sin da bambini un raffinato senso dell’orientamento e una percezione del proprio corpo nello spazio che ha ripercussioni dirette sul modo di integrarsi nell’ambientale. Un’abilità che si rivela molto utile in attività come la caccia, la pesca, o l’individuazione di una possibile fonte di pericolo da cui porre in guardia i propri consimili.
Dunque, il linguaggio può svolgere un ruolo significativo nello strutturare un dominio fondamentale come la cognizione spaziale18. Influisce a tal punto sulla propriocezione da conferire all’individuo un radicamento alla realtà spazio-temporale che incide in maniera preponderante sulla consapevolezza di sé e sulla definizione dell’identità personale. Quest’ultima, nel caso dei Kuuk Thaayorre si struttura come non isolata, non individuale, ma diffusa, olistica, correlata all’ambiente e al senso di comunità.
Esistono in natura animali che hanno sviluppato uno spiccato senso dell’orientamento, fondamentalmente perché un simile tratto genetico si presentava come evolutivamente vantaggioso per la loro specie. Ad esempio, le formiche del deserto sahariano del genere Cataglyphis hanno un cervello altamente funzionalizzato a tale scopo: anche se si trovano in un luogo a loro sconosciuto, possono stabilire in qualsiasi momento la posizione del loro nido e ritornarvi sfruttando un percorso lineare, diretto e del tutto nuovo. Per farlo non usano tracce o scie chimiche, come fanno molte altre formiche, ma una vasta gamma di informazioni, sia interne al loro corpo sia provenienti dal mondo circostante, che vengono integrate nella navigazione stimata (path integration o dead reckoning), quasi una sorta di sofisticatissimo GPS animale20. Anche le api hanno sufficienti risorse cognitive per costruirsi, in forma elementare, una mappa mentale dell’ambiente che esplorano in volo. Catturando delle “istantanee” visive del territorio in cui si muovono, sono in grado di non perdere la direzione dell’obiettivo, ossia dell’alveare a cui fare ritorno al termine delle loro quotidiane perlustrazioni, usando la posizione del sole come punto di riferimento21.
L’uomo non ha un cervello preordinato ad una sola funzione, ma al contrario la sua straordinarietà consiste proprio nell’essere specializzato nella non-specializzazione.
Ciò che non lo determina per biologia, lo caratterizza per cultura. La varietà di manifestazioni culturali, sostenuta dalla diversificazione delle abilità cognitive favorite dal linguaggio, può consentire all’uomo di raggiungere risultati incredibili. Nel caso della tribù aborigena dei Kuuk Thaayorre, come già accennato, un raffinato senso spaziale e dell’orientamento.
3. Spiegare l’uomo, misurandone il cervello: l’orizzonte epistemologico
Nella prima parte di questo breve scritto, senza alcuna pretesa di esaustività, si è provato a gettare uno sguardo panoramico sul modo in cui si interrogano le neuroscienze e su come le ricerche neuroscientifiche, applicate ad esempio al linguaggio, possano combinarsi alle teorie elaborate in ambito antropologico, così da aprire a nuove e interessanti insight sull’uomo, sulla sua natura ed evoluzione.
Adesso, però, è opportuno accostare un altro aspetto della questione, forse a prima vista meno interessante, ma certamente necessario. Mi riferisco all’orizzonte epistemologico, in quanto dobbiamo interrogarci sul rapporto tra neuroscienze e teologia, così da porre alcuni quesiti: è possibile interpretare il “fenomeno umano” adottando e combinando approcci diversi? Che valore conservano le antropologie teologiche e filosofiche rispetto alla narrazione sull’uomo proposta dalle cosiddette “scienze esatte”? Occorre riconoscere loro una qualche forma di plausibilità o vanno ascritte nel novero delle “mitologie” cui non bisogna accreditare alcuno statuto di scientificità?
È consuetudine collocare nel secolo XVII la svolta epistemologica che ha portato il mondo occidentale a teorizzare quel paradigma di pensiero che ha segnato la ricerca scientifica, determinandone il modo di percepire il mondo, la natura, l’uomo. Si è soliti attribuire a Newton, Galileo e Cartesio la paternità di questa formidabile operazione intellettuale22.
Dall’incontro tra l’esperimento e la matetica ebbe luogo quel modello meccanicistico che è alla base dei successi della scienza moderna23: il mondo è osservato non più come un organismo vivente, ma come macchina guidata da leggi precise, traducibili in linguaggio matematico. La reazione della Chiesa nel caso Galilei testimonia di come la potenza di tale paradigma e la sua pericolosità nei confronti della comprensione integrale dell’uomo maturata dall’Occidentale -sentimenti, fede, opinioni- fu tale da convincere tutti della necessità di introdurre degli appositi strumenti ermeneutici che fungessero da correttivi.
La soluzione che venne trovata a questo problema consistette nell’erigere barriere, nell’alzare mura di divisione, che permettessero di smembrare la realtà in ambiti distinti, il sapere in discipline autonome, in modo tale da permettere al “metodo scientifico” di non dover dare conto di sé di fronte a ciò che non era in grado di spiegare. Allo stesso tempo, ciò consentiva agli scienziati di tenere alla larga dai loro oggetti di analisi teologi e moralisti.
L’epoca moderna si è edificata sulla divisione delle discipline e questa pluralità di domini semantici, ognuno chiuso nella propria specificità, è durato sino ai nostri giorni. Ma questa comprensione del sapere per compartimenti stagni è stata infranta dalle neuroscienze, il cui approccio è invece trasversale, plurale, interdisciplinare, perché sconfina nel linguaggio della filosofia, riducendo quest’ultimo al proprio. Le neuroscienze si configurano sempre più come neurofilosofie e pretendono di produrre senso.
Avendo come oggetto di studio la natura del cervello e il funzionamento della mente in qualunque sistema pensante, naturale o artificiale, esse mirano a spiegare i processi mentali in maniera tale da poter essere riprodotti anche da una macchina, simulando le procedure delle nostre attività: inferire (cioè giungere a una conclusione), dedurre, argomentare, ma anche immaginare, desiderare, persino credere. Si propongono, quindi, di fornire una spiegazione causale delle funzioni superiori, attraverso la ricerca delle aree specifiche, nonché dei meccanismi funzionali e dei processi mentali come la memoria, l’apprendimento, il linguaggio, le scelte intenzionali e morali.
Le neuroscienze ripropongono con forza l’istanza metodologica che agli albori della Modernità, da Cartesio in poi, mosse il sapere scientifico-empirico alla ricerca di una possibile matematizzazione della fisica, cioè di un linguaggio generale e formale, qualificato da segni univoci, che sia in grado di spiegare ogni aspetto della realtà24.
Più precisamente, le neuroscienze avrebbero trovato nello studio dei neuroni e delle strutture cerebrali questo linguaggio fisico-chimico-biologico in grado di spiegare tutti i fenomeni conosciuti nell’universo, dal moto dei corpi celesti, alle particelle quantiche elementari (le trasmissioni sinaptiche sono fenomeni di trasduzione di tipo elettrochimico), passando dal disvelamento del mistero del naturale, attraverso la codifica del genoma umano, alla disamina dei comportamenti sociali.
Qual è il rischio, l’insidia, che si nasconde dietro al loro approccio “totalizzante” alla realtà e al fenomeno umano?
Il pericolo è quello di un naturalismo riduzionista, di un materialismo elaborato su base neurale, che ha la presunzione di fornire una conoscenza certa su tutto il funzionamento del cervello e del corpo umano con il convincimento che perfino gli stati d’animo, le sensazioni mentali e le manifestazioni spirituali siano esclusivo effetto di processi biochimici.
Quando le scienze, e le neuroscienze in particolare, non si offrono semplicemente di chiarire come funziona l’organismo umano, ma intendono presentare un’interpretazione complessiva dell’uomo, allora esse lanciano una vera e propria sfida all’antropologia, poiché finiscono per togliere spazio alla dimensione spirituale dell’uomo e alla prospettiva di significato della sua vita.
Parafrasando B. Lonergan potremmo dire che il naturalismo non si pone esclusivamente come una forma di conoscenza, ma si candida ad essere un progetto complessivo di trasformazione del mondo25. La sfida che si pone alla teologia da parte di questa nuova manifestazione di naturalismo è radicale poiché anche quando la teologia dichiara la consapevolezza del proprio limite, viene comunque additata come una forma di non sapere, non lontana dall’essere equiparata ad una qualche forma di mitologia. Lo si comprende molto chiaramente dall’affondo di R. Dawkins quando scrive che: «non c’è motivo di considerare la teologia (diversamente dalla storia biblica, dalla letteratura, ecc.) una disciplina»26.
Ciò che non possiamo ignorare è che oggi il sapere scientifico sia percepito come più affidabile e credibile rispetto alla conoscenza di fede. Eppure, spesso si ignora che proprio dietro alla ricerca di una data disciplina empirica si nascondano modelli filosofici che orientano alla comprensione del tutto e che, proprio a motivo di ciò, rendono le scienze meno “oggettive” di quanto esse stesse vorrebbero sostenere di sé nella loro dichiarazione di intenti.
Basti pensare a come la genetica sia diventata per alcuni una sorta di “integralismo religioso”, capace di avanzare la pretesa di dire tutto sulla condizione umana, in particolare estendendo la sua giurisdizione ai comportamenti. La “feticizzazione” del DNA pretende ideologicamente di esemplificare la complessità del mondo, presentando un modello unico che pone sullo stesso piano realtà diverse, liquidandone lo statuto ontologico. Il mondo e le sue componenti tendono ad essere concepiti come il risultato di un processo infinito evolutivo di cui basta decodificare il messaggio, a costo di svuotare le cose del loro valore e del loro senso.
La biologia si mescola all’informatica e diventa, a sua volta, una scienza dell’informazione: dissolve il libero arbitrio dell’individuo che, suo malgrado, è una “macchina che fabbrica senso”, del tutto inconsapevole di essere soggetto ad un’auto-organizzazione della materia che segue il proprio andamento e sviluppo materiale al di là di ogni controllo e comprensione da parte dell’uomo. L’uomo neuronale di J.-P. Changeux ne è un esempio: assimilato ad un computer che processa e gestisce informazioni27.
Ridurre l’uomo all’informazione equivale a liquidare ogni responsabilità nei confronti dei propri atti, poiché la sua essenza è dissolta. L’equivoco sta nel fatto di credere che la biologia analizzando l’uomo come organismo, o come un insieme di informazioni, possa ridurne l’essenza ad un grumo di messaggi.
Edgard Morin, ha criticato proprio questo modo di procedere tipico del modello meccanicista che, sebbene posto in crisi nel secolo XX, continua ad essere utilizzato per contrapporre la vera conoscenza che proviene dalle scienze alle altre forme di sapere28. In altre parole, se si ritiene che la conoscenza degli aspetti elementari del mondo fisico e biologico costituiscano il solo principio in grado di spiegare (e semplificare) la realtà di un fenomeno, si finisce per limitare il conoscibile al misurabile. È così che si arriva a dissolvere la mente nel cervello, il cervello nel neurone, il neurone nel processo elettrochimico o nell’espressione del “gene egoista”29.
Il naturalismo riduzionista non si avvede che il limite -cioè l’incongruenza- del suo modo di analizzare le cause sta nell’escludere in partenza la “causa incausata”, considerandola come innecessaria alla spiegazione della realtà che le scienze sono in grado di offrire: poiché la causa incausata non può metodologicamente entrare nella successione delle cause, allora l’ovvia conclusione è che non esiste. La pretesa delle scienze di negare un principio trascendente di azione nel mondo nasce dalla misurazione di detta azione con i parametri che le scienze stesse si sono date. Ciò che è in gioco è la questione del reale e della sua ermeneutica: l’interpretazione dei fenomeni non riguarda solo la filosofia e la teologia, ma anche le scienze che non si limitano ad essere descrittive, ma che sono anche interpretative (e predittive).
La teologia non può ignorare la sfida, ma anche il compito di “servizio responsabile” alla Chiesa che le viene dal confronto con queste nuove frontiere del sapere scientifico. Si pone l’urgenza di maturare una prospettiva filosofico-teologica che proponga un’antropologia etico-personalistica in grado di confrontarsi -e si auspica anche di superare- con questo monismo riduzionista che propende per una marginalizzazione delle questioni riguardanti l’anima, l’essere dell’uomo, il posto nella natura e nel mondo, il suo destino ultimo.
4. Superare la provocazione: per una teologia “aperta” al dialogo
Nessuna teologia è di per sé obbligata a passare per il sentiero delle neuroscienze, ma certamente quella che vuole porsi come una riflessione sulla fede attenta ai movimenti del presente non può sottrarsi al confronto e chiudersi nel proprio confine, poiché è in questione il soggetto e la narrazione dell’uomo stesso in un più ampio orizzonte che è quello dell’antropologia.
Le neuroscienze si caratterizzano, infatti, per una forte aderenza a ciò che del singolo si manifesta, consentendo di chiarire -come già accennato- i meccanismi fisiologici connessi a percezioni, decisioni, emozioni, azioni, e invitando a integrarli nel discorso antropologico come elementi non secondari.
Il soggetto ne esce riscritto in termini di un sistema complesso che si auto-organizza e coordina in modo unitario, ma non lineare, il versante biologico, sociale e simbolico. Un soggetto che non può esaurirsi nelle dialettiche tradizionali di mente/corpo, ragione/affettività, io/mondo, ego/alter ego.
Il problema della coscienza, ad esempio, nel confronto con l’etologia cognitiva -cioè con l’osservazione delle qualità cognitive delle altre specie animali- mette fortemente in discussione la soggettività umana nei termini di sovranità, trasparenza, efficienza, autosufficienza, con cui la si era pensata precedentemente. Così, nell’orizzonte postmoderno contemporaneo, in cui il post-umanesimo ha sfumato i confini rispetto al mondo delle macchine, additando nella tecnica il luogo di una “salvezza senza fede”, ciò che del soggetto sopravvive è quello che il sociologo statunitense Christopher Lasch definisce “io minimo”30.
Le neuroscienze raccolgono queste perplessità riguardo al soggetto, ma le risolvono in traiettorie non omogenee: autori come Thomas Metzinger o Daniel Dennett, seguendo il filosofo Hume, ammettono il soggetto solo nel senso di un costrutto linguistico che è effetto di rappresentazioni mentali; mentre altri, come Damasio e Ledoux, ne danno una definizione più dinamica, in cui il soggetto coincide con l’essere materiale e corporeo che accade in uno spazio di singolarizzazione temporale.
In questa seconda accezione, ben più che un io minimo, il Sé personale piuttosto è una processualità esperienziale, che prevede una strutturale dimensione di apertura al mondo, mediata da affetti ed emozioni, in cui la memoria è ciò che permette di raccogliere tutto in unità, e in cui l’intelligenza è la capacità di accogliere continue modificazioni. Come individui siamo la nostra memoria, anche se questa consiste in una continua rielaborazione, in un riordinamento di ciò che accade nello scambio con il mondo31.
Siamo uno strano intreccio tra ciò che di noi passa e ciò che resta, di ciò che permane nel divenire, sebbene la filosofia nella sua riflessione sulla soggettività abbia attributo troppa importanza a questa dimensione di continuità, a discapito di quelle che sono le trasformazioni volute, accolte o subite che poi di fatto si pongono storicamente come i termini di realizzazione del sé. La singolarità è dunque il risultato di un processo di ri-significazione del dato esperienziale, in cui il senso che attribuiamo alle cose entra proprio nel processo della memoria.
La fede è uno sguardo retrospettivo, in cui il fare memoria è risignificare il sé a partire dal vissuto di Gesù. Le neuroscienze, allora, possono aiutarci a comprendere l’inadeguatezza per l’oggi di un’antropologia filosofica e teologica che ponga l’accento sulla soggettività esclusivamente come “continuità nel tempo”, che sia data dagli stati psicologici o somatici, per assumere invece l’esperienza della crisi che modifica e trasforma il sentire e dunque il mondo affettivo, come il vero luogo identitario del soggetto.
Le neuroscienze possono essere alleate del pensare teologico, poiché la nuova prospettiva sulla soggettività a cui immettono porta a focalizzare l’attenzione sull’esperienza. Possiamo cogliere la Rivelazione come una modalità dell’esperienza e cogliere l’esperienza come un luogo della rivelazione. Tuttavia, per fare questo bisogna evitare ogni paradigma epistemologico rigidamente predeterminato, meramente deduttivo.
È lecito domandarsi: è sufficiente ricorrere ad un modello unico, evolutivo o creativo, per spiegare la complessità di quest’animale simbolico che è l’essere umano? È sufficiente evocare un principio-criterio di tipo biologico o divino per configurare l’ambito etico? È possibile ricondurre ad un qualche principio unitario le manifestazioni plurali di fedi, culti e religioni, o almeno mantenere la diversità senza ridursi al conflitto, alla violenza, alla reciproca sopraffazione?
Come sosteneva già Karl Rahner occorre rinunciare alle visioni armonizzate, sforzandoci piuttosto di lavorare con un’epistemologia della complessità32.
La scoperta dei cosiddetti “neuroni specchio” (1996), ad esempio, mostra come la capacità di comprendere le aspettative, le intenzioni, le motivazioni altrui dipenda dal nostro patrimonio genetico-motorio. I neuroni specchio rappresentano la base biologica della nostra immediata comprensione dell’agire umano. Infatti, secondo gli studi di Rizzolatti e collaboratori, i neuroni specchio consentono al nostro cervello di osservare negli altri, correlare alla nostra esperienza e quindi decodificare il significato di un gesto, l’esecuzione di un movimento, di un’attività, in pratica di ciò che gli altri stanno facendo.
Ma la scoperta più sensazionale è che il nostro cervello è in grado di comprendere gli atti compiuti dagli altri non per inferenza o deduzione di quanto percepito, grazie al coinvolgimento delle nostre capacità cognitive superiori, ma in modo preriflessivo, cioè senza avvalersi di alcun tipo di ragionamento.
Il ricorso a questo capitale di competenze di tipo genetico-motorie non soltanto è decisivo per lo strutturarsi della soggettività individuale, ma è anche alla base della capacità di stabilire relazioni sociali. L’attivazione di specifici circuiti in cui sono coinvolti i neuroni specchio sono all’origine di forme più o meno complicate di abilità indispensabili alla socializzazione, come l’imitazione, l’apprendimento, la comunicazione gestuale e verbale.
Anche la stessa possibilità di afferrare i vissuti emotivi, i sentimenti e le reazioni istintive degli altri sarebbe da ricondurre ad un insieme di aree caratterizzate da proprietà specchio. Quando qualcuno prova dolore o disgusto di fronte a noi, anche le nostre emozioni ne risultano immediatamente condizionate, attivando le medesime aree della corteccia cerebrale che sono coinvolte quando siamo noi a provare dolore o disgusto in prima persona.
Come fa notare Damasio, sono le emozioni a unire mente e corpo e anche i processi mentali superiori si radicano nelle mappe corporee presenti nel cervello33. Queste ultime vanno intese come insiemi di configurazioni neurali in cui sono rappresentate le risposte agli eventi che causano emozioni e sentimenti34.
È evidente l’importanza di questa scoperta: conoscere ciò che l’altro fa non necessita di un processo cognitivo, poiché i neuroni specchio si attivano passivamente ogni qualvolta ci troviamo di fronte ad un comportamento o azione altrui. È un tipo di comprensione che non segue la via regia del processo cognitivo e dell’intenzionalità, quanto piuttosto un sapere immediato che porta al riconoscimento della presenza altrui.
Dunque, se il legame che ci unisce agli altri si situa ad un livello più profondo di quello della consapevolezza, della volontà e della scelta, allora possiamo affermare che la risonanza corporea dell’altro in noi precede ogni differenza linguista, culturale o educativa, sia essa appresa, introiettata o implicita.
L’intersoggettività, o forse dovremmo meglio dire l’interpersonalità, ha così una valenza esperienziale originaria, non derivata, non solo sotto il profilo fenomenologico, ma anche sotto il profilo neuro-scientifico.
L’esperienza interpersonale che i neuroni specchio veicolano mostra che l’esperienza in prima persona non può prescindere dalla seconda persona; che l’esperienza che faccio di me e delle cose ha sempre a che fare con l’esperienza dell’altro e che la relazione intersoggettiva è sempre legata al corpo sia fenomenologicamente che neurobiologicamente35. Non c’è “Io” senza “Tu”, non c’è identità senza relazione36: tra me e l’altro emerge uno spazio d’azione e d’esperienza condiviso che è legato alla capacità empatica dell’essere umano.
In fondo, ciò che scopriamo dell’uomo è in risonanza con il messaggio della Rivelazione. Come scriveva J. Ratzinger in Introduzione al Cristianesimo «Non esiste persona come entità singola a sé stante, assolutamente isolata»37, aggiungendo in un denso passaggio a proposito della relazionalità come nozione pregnante non solo per la teologia trinitaria, la cristologia, ma anche per l’antropologia teologica che «la relazione, l’esser riferimento, non è qualcosa di aggiuntivo alla persona, ma è la persona stessa; la persona esiste qui, per sua essenza, soltanto come riferimento»38.
Dire che la persona è relazionalità riferita e che questa relazionalità è iscritta nella sua matericità corporea, nella sua fattualità incarnata, ci porta ad aggiungere qualcosa in più, a spingerci verso dichiarazioni da sviluppare secondo un’etica della prossimità. Il principio che individua l’identità personale, benché si mostri attraverso la coscienza, non è da essa prodotto, poiché è comunque presente anche quando non si giunge ad esplicitarla negli atti e nelle cognizioni, come accade nel caso del bambino, del portatore di handicap o di chi è affetto in modo grade da malattie neurodegenerative. Persino nelle più estreme condizioni di vulnerabilità, le persone possiedono e conservano la capacità di risonanza corporea, anche nel caso limite in cui questa fosse espressa solo dal con-tatto. La qualità relazionale della corporeità di questi soggetti li accredita come persone. Il concetto di comunità dovrebbe costituire l’ideale etico al quale fare riferimento per istituire relazioni umane interpersonali valide. La comunità è tale se non soffoca la personalità dei suoi membri, anzi favorisce il loro sviluppo armonico. Lo è altrettanto se si prende cura dei vulnerabili, se li considera persona anche se non sono in grado di significare il mondo in maniera proattiva.
In conclusione, possiamo affermare che le neuroscienze hanno qualcosa da dire sull’uomo, sulla sua costituzione intrinseca, e sta a noi riuscire a tradurne la grammatica in parole di senso per la fede, partendo da una ricomprensione della natura umana che non sia debitrice di ingenui dualismi ereditati dal passato. È un compito arduo, ma non dobbiamo sottrarci ad esso. Ciò che auspichiamo è proprio che la teologia possa guadagnare un’apertura sapienziale e un approccio più olistico che riesca a dialogare con i risultati delle scienze, offrendo loro un quadro ermeneutico e una cornice interpretativa mediante cui dire l’uomo.
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Nota
La filosofia meccanicista scinde il mondo del reale che pur essendo accessibile ai sensi è intellegibile solo dalla ragione. Tale separazione tra i sensi e la realtà -nonostante i tentativi del Romanticismo, della psicoanalisi e della fenomenologia- rimane la struttura fondatrice dell’epistemologia occidentale.
Notas de autor