Sunto: Le orazioni funerarie per Valentiniano II e Teodosio I, così come due lettere che il vescovo Ambrogio mandò a Teodosio I, subito dopo aver ricevuto da lui la notizia della vittoria al fiume Frigidus, mostrano che il vescovo parlò degli imperatori e agli imperatori senza dimenticare la sua nascita e il suo rango senatorio nel nuovo ruolo vescovile. Dal momento che egli conosceva i principali motivi, che utilizzavano i senatori per suscitare l’opposizione alla politica teodosiana (vittoria in una guerra civile, falso trionfo, principi elevati al trono da fanciulli), egli fu abile a cambiarli in altrettanti motivi di sostegno per Teodosio e la sua dinastia. Lo fece utilizzando il tema classico della vittoria dovuta all’intervenento divino, che egli trasformò cristianamente in quello della vittoria incruenta garantita dalla pietas imperiale. Dopo il Frigido, l’idea che gli usurpatori erano empii, indipendentemente dalla religione professata, per il semplice fatto di essersi opposti al pius imperator, divenne un corollario essenziale del tema della vittoria incruenta. Il vescovo legittimò il potere dei principes pueri invocando la loro pietas, e valorizzò la clementia verso gli oppositori trasformando in virtù tipicamente cristiana una tradizionale virtù politica. L’adesione di Ambrogio alla politica di Valentiniano I e di Teodosio produsse alcune innovazioni: egli inserì i membri di due domus augustae tra i nomi dei defunti da ricordare durante l’offerta sacrificale e offrì sull’altare la lettera imperiale, che annunciava la vittoria, durante la celebrazione eucaristica. Teodosio, assicurando la sua indulgentia non solo a coloro che avevano parteggiato per Eugenio ma pure a quanti si erano rifugiati nella chiesa di Milano ed erano protetti dal vescovo, fece un’importante concessione in tema di asilo ecclesiastico. Varie testimonianze, però mostrano che il diritto all’asilo nelle chiese ebbe conferma legislativa solo dopo alcuni anni.
Palavras-chaves: Encomi funebri, Ambrogio di Milano, Imperatore Valentiniano I, Imperatore Teodosio I.
Abstract: The funeral orations for Valentinian II and Theodosius I, as well as two letters that Bishop Ambrose sent to Theodosius I (Epp. Extra coll. 2 e 3), immediately after receiving from him the news of the victory at the Frigidus river, show that the bishop spoke emperors, and about the emperors without forgetting his senatorial birth and rank. Some subjects, which he developed between the death of Valentinian II and that of Theodosius I, were the same that a group of Roman senators put in circulation - victories only in civil wars, false triumph, two children raised to the throne as augusti- to arouse opposition to Theodosian policy. Ambrose turned them into Christian themes to support emperor Gratian first, then Theodosius I and his dynasty. The classic theme of victory due to divine intervention became the bloodless victory guaranteed by imperial pietas. After Frigidus’ battle, it was completed by the idea that the usurpers were wicked (impii), regardless of the religion professed, because they opposed a pius imperator. The bishop legitimized also the power of Honorius and Arcadius - principes pueri - by invoking their pietas, and valued the clementia towards opponents by making a traditional political virtue into a typically Christian virtue. This attitude of Bishop Ambrose is clarified by some liturgical innovations: he inserted the members of two domus augustae on the list of the deceased, who were remembered during mass, and offered on the altar the imperial letter, which announced the victory of Theodosius I, during the Eucharistic celebration. Theodosius I, following the bishop’s request, granted indulgence not only for those who had sided with Eugene but also for those who, after his defeat, had taken refuge in the church of Milan and were protected by Ambrose. Getting this right (ecclesiastical asylum) was also an innovation, although it was not preserved after the death of Theodosius I.
Keywords: Funeral laudations, Ambrose of Milan, Emperor Valentinian I, Emperor Theodosius I.
Dossiê: Memórias e Mortes de Imperadores Romanos (I a.C. – VI d.C.)
Memorie d’imperatori vivi, orazioni funebri e preghiere in suffragio per i principi defunti: Ambrogio di Milano e le sue innovazioni
Memories of Living Emperors, Funeral Orations and Prayers in Suffrage for the Deceased Princes: Ambrose of Milan and his Innovations
Received: 03 July 2020
Accepted: 14 July 2020
Nel 374 il governatore di una provincia della penisola italica, che si estendeva dalla regione a nord di Firenze fino al Lago Maggiore e a Como, fu acclamato vescovo di Mediolanum (Milano), allora una tra le più importanti residenze imperiali dell’impero tardoantico.1 L’elezione di Ambrogio fu un evento eccezionale, non tanto perché un funzionario imperiale era stato scelto come vescovo ma perché aveva assunto tale funzione un uomo, che proveniva dall’aristocrazia senatoria di Roma, non dalle élites provinciali. Egli dunque fu il primo vescovo aristocratico nella storia della Chiesa e dell’impero.2 Nell’esercizio vescovile, Ambrogio mantenne la cultura, i modi, il comportamento dei grandi senatori tardoantichi e li trasmise non solo ai sacerdoti dell’Italia settentrionale ma a quanti lo assunsero come modello anche nei secoli successivi.
Quasi nessuna azione del vescovo di Milano può comprendersi del tutto, trascurando il peso che ebbero l’estrazione sociale, la sensibilità politica acquisita nel corso della propria carriera pubblica, nonché la grande autorità che il rango di vir clarissimus gli conferiva anche nel nuovo ufficio vescovile.3 In riferimento soprattutto a temi legati alla figura del principe, anche la sua pastorale fu ampiamente condizionata da tali fattori, dipendendo ovviamente dal vescovo la scelta di quali brani e figure delle Sacre Scritture utilizzare e commentare nel rivolgersi a chi era al vertice dell’impero romano4. In quanto esemplari della complessa personalità di questo vescovo eccezionale ci proponiamo, dunque, di esaminare le innovazioni liturgiche e letterarie che egli introdusse in relazione ad alcuni degli imperatori romani con cui si confrontò nel corso dell’episcopato.
La lettura dei nomi di defunti durante la messa, già raccomandata da Cipriano soprattutto in riferimento a quanti morivano per la fede (Cypr. Epp. XII.2; I.2), era pratica diffusa nel corso del IV, nella convinzione che la preghiera giovasse alle anime per le quali si elevava (Cyr. Cath. myst. V.8). Agostino vi allude, ricordando che oltre ai nomi dei martiri anche quelli delle vergini defunte venivano recitati presso l’altare (August.Virg.46) e augurandosi che i lettori delle Confessiones menzionassero i nomi di sua madre e di suo padre durante la messa (August. Conf. IX.37). In nessun autore, tuttavia, si rintracciano riferimenti a eventuali preghiere in suffragio di principi defunti.
Ambrogio, dunque, fu il primo a menzionare i nomi di alcuni imperatori nel corso della messa. Pronunciando l’orazione funebre per Valentiniano II, durante una solenne cerimonia a Milano prima del 22 agosto 392,5 Ambrogio non pregò solo per il giovane da poco scomparso ma per tutti i membri defunti della domus imperiale. Graziano è introdotto per primo nella commemorazione, rappresentato con le braccia rivolte a dio come orante e poi strette intorno al fratello perché non gli fosse di nuovo strappato (De obitu Valent. 54). È sempre Graziano, in seguito, a invitare il giovane a seguirlo in paradiso, utilizzando le parole del Cantico dei Cantici (De obitu Valent. 72). Accanto a lui, anche il padre Valentiniano I è fugacemente descritto nell’atto di accogliere il figlio in paradiso, in una sorta di vero e proprio concilium principum riunito in cielo (De obitu Valent. 55 e 71). A Graziano e a Valentiniano II, citando i versi che Virgilio aveva dedicato a Eurialo e Niso nel IX libro dell’Eneide, il vescovo inoltre promette non solo che li ricorderà nella sua preghiera, bensì che li sentirà vicini “ogni volta che offrirò il sacrificio”.6 Quest’ultima frase, in particolare, farebbe pensare che durante la celebrazione eucaristica Ambrogio riservasse alla domus divina di Valentiniano I una sezione della lista dei defunti da commemorare a messa. L’affollata serie d’interrogative retoriche, che segue alla sua promessa di farsi mediatore presso Dio a favore dei due defunti imperatori (De obitu Valent. 78), è indizio che quella pratica liturgica non era affatto consueta. Fu, infatti, innovazione ambrosiana, almeno nella forma pubblica cui fa riferimento il de obitu Valentiniani.
Essa potrebbe essere stata anticipata in onore di Graziano, data l’importanza che questo principe riveste nell’orazione. Nulla si sa della sorte che ebbe il corpo del disgraziato giovane, ucciso il 25 agosto 383 in un’imboscata a Lione, ma è certo che il principale scopo della seconda ambasceria di Ambrogio presso Massimo fosse la consegna della salma del principe (Ambr. Ep. 30. 9-10), fino allora trattenuta a Treviri per il suo valore diplomatico7. Alla fine del colloquio, Magno Massimo non si espresse al riguardo della richiesta avanzata dal vescovo (Ep. 30.11)8, ma è probabile che per fare pressione su Teodosio, affinché lo riconoscesse come legittimo imperatore, egli si sia deciso pure a restituire il corpo di Graziano.9 In tal caso, il vescovo potrebbe averne fatta una rapida commemorazione in forma privata, inserendo il suo nome nella lista dei defunti per i quali pregare. Da quell’orazione funebre potrebbero derivare i numerosi riferimenti a Graziano che compaiono nel de obitu Valentiniani. In due opere contemporanee, egli descrive Graziano come miseramente abbandonato da tutti e solo, compiangendolo quale simbolo d’innocenza tradìta, come Cristo10. Un passo del de obitu Valentiniani, inoltre, farebbe credere che il sarcofago di porfido in cui fu deposto Valentiniano II fosse accanto a quello di Graziano e che Ambrogio recitasse la sua commemorazione funebre di fronte ad entrambi:
Oh! a me carissimi e degni di ammirazione, Graziano e Valentiniano, con quale angusto termine avete concluso la vostra vita, quanto furono prossimi per voi i limiti della morte, quanto vicini i sepolcri. Graziano e Valentiniano, ripeto, è bello indugiare sui vostri nomi ed è una gioia trovare riposo nel vostro ricordo11.
Non sappiamo se le altre chiese dell’Italia Annonaria abbiano nell’immediato fatto proprio il costume ambrosiano di celebrare tra i defunti anche i principi figli di Valentiniano I. Non sappiamo se lo abbia seguito il successore di Damaso a Roma. È incerto se Ambrogio stesso abbia mantenuto la promessa fatta a Valentiniano II di non dimenticarlo “ogniqualvolta offrirò il sacrificio”. Quando alcuni anni dopo celebrò i funerali di Teodosio I nel 395, di Valentiniano II tacque addirittura il nome. Nei sanctorum consortia ivi evocati, accanto a Graziano che era di nuovo al centro della santa assemblea12, egli pose Teodosio I e tutti i membri della nuova domus Augusta - il padre Teodosio Seniore, la moglie Flaccilla e i figli Graziano e Pulcheria -, mentre a completare il quadro erano chiamati Costantino, il quale aveva reso l’impero una ‘eredità di fede’, e sua madre Elena13.
È molto probabile che Ambrogio per primo abbia inserito nella liturgia eucaristica i nomi dei principi di ben due domus augustae, avendo tentato di mostrare che essi erano stati assunti in cielo perché buoni e devoti principi, con qualche difficoltà nei riguardi di Valentiniano II (dato il complesso profilo religioso del giovane), con maggior agio per Graziano e Teodosio I. Esplicita, viceversa, fu la condanna di Massimo ed Eugenio, che nel de obitu Valentiniani sono scaraventati all’inferno (Ambr. De obitu Theod.39).
Un’altra importante innovazione liturgica, infatti, fu compiuta dopo la battaglia del Frigido. Nel modo in cui Ambrogio la presentò, doveva chiarire ai suoi fedeli, all’imperatore ma pure ai senatori di Roma con i quali il dialogo non fu mai intermesso, quale idea egli avesse degli usurpatori. Ambrogio inviò due lettere a Teodosio I, quando l’imperatore gli annunciò la vittoria conseguita al Fiume Frigido (oggi Vipacco, un tributario dell’Isonzo in Slovenia).14 Esse furono scritte a breve distanza di tempo, dopo la sconfitta di Eugenio, Arbogaste e Nicomaco Flaviano Seniore (5-6 settembre 394).15 È centrale in entrambe - accanto alla professione di assoluta lealtà del vescovo verso l’imperatore -16 l’idea che ad assicurare la vittoria era stato Dio, in virtù della fides e della pietas manifestate da Teodosio, “per liberare l’Impero romano dalla ferocia di un brigante barbaro e il trono da un indegno usurpatore”.17 Stabilità dell’Impero e integra fede dell’imperatore erano strettamente connesse.
Questo concetto era alla base di quella teologia della vittoria, con cui il vescovo contrappose la sua originale formulazione cristiana al motivo tradizionale delle battaglie romane dovute all’aiuto divino (DEMANDT, 1996). Egli l’aveva imbastita, nel rivolgere all’imperatore Graziano il De Fide verso il 380, intorno all’idea che ogni trionfo terreno era una ricompensa divina della fides, cosicché la vittoria risultava svincolata dall’umana virtù militare.18 Ambrogio la riprese tra il 382/383, sviluppando il tema dell’otium negotiosum mediato dalla figura dello Scipione ciceroniano19. Nella lettera a vescovi, clero e popolo di Tessalonica, Acolio era paragonato al biblico Eliseo, perché aveva liberato la sua città dai Goti che l’assediavano, rimanendo inerme ma vibrante di preghiera nel suo otium (Ambr. Ep. 51 (15M).5-7). La missiva, rivolta ai cristiani della città per elogiare il vescovo scomparso e indirettamente suggerire la scelta del niceno Anisio, allievo di Acolio (Ep. 52 (16M).1), in una regione ancora a dominanza semiariana, alludeva alla sconfitta subita ad Adrianopoli da Valente, imperatore dalla lubrica mens, e celebrava la fixa fides di Teodosio, che con i Goti aveva stipulato una durevole pace, dopo essere stato battezzato dal vescovo appena defunto.20
Dopo il Frigido, giunse ad Ambrogio la richiesta di Teodosio di rendere grazie a Dio per la vittoria ottenuta.21 Ciò permise al vescovo di riproporre con enfasi la sua dottrina della vittoria. Ambrogio organizzò una solenne celebrazione in chiesa, per compiere un’offerta e un rendimento di grazia in onore dell’imperatore:22
Portai con me all’altare la lettera della tua pietà e la collocai sull’altare, poi la tenni in mano mentre offrivo il sacrificio, perché per mezzo della mia voce parlasse la tua fede, e l’augusto scritto fungesse da offerta sacerdotale.23
Sollevare sull’altare insieme all’ostia, corpo di Cristo, una lettera imperiale che annunciava la vittoria su Eugenio, Arbogaste e Flaviano, era un gesto simbolico di rilevanza enorme, un’innovazione liturgica di una spregiudicatezza impensabile in altro vescovo: infatti, non aveva precedenti (MCKORMICK, 1986, p. 107-109; MCLYNN, 1994, p. 353-354, PFEILSCHIFTER). Teodosio fu grato ad Ambrogio. Organizzando quel solenne rito di ringraziamento, il vescovo aveva fatto di una vittoria riportata in seguito a una guerra civile una vittoria tout court.
Nelle parole di Ambrogio, infatti, essa era stata conseguita non spargendo sangue romano ma “per liberare l’Impero dalla ferocia di un brigante barbaro e il trono da un indegno usurpatore” (Ambr. Ep. extra coll. 2.1: […] quo Romanum imperium a barbari latronis immanitate et ab usurpatoris indigni solio vindicares.). Arbogaste, che come subordinato di Bautone aveva assistito Teodosio nel riportare ordine in Oriente dopo la grave sconfitta di Adrianopoli24, era stato il vero autore della cattura di Magno Massimo e aveva egli stesso eseguito l’ordine di eliminarne il figlio Vittore (Pacatus, Paneg. 44.2; Zos. IV.47.1.). Nel corso di un banchetto con i capi franchi vinti in battaglia, egli aveva vantato una profonda familiarità con Ambrogio (Paul. Med. VA 30.1-2.). La conversazione riportata da Paolino di Milano avvenne probabilmente dopo la morte di Valentiniano II e l’incoronazione di Eugenio, cosicché Arbogaste può aver millantato grande amicizia col vescovo affinché almeno i cattolici milanesi non condividessero il sospetto che egli avesse assassinato Valentiniano II25 e appoggiassero Eugenio, da lui proclamato imperatore.26 Franco di origine, Arbogaste non era certo un barbaro nel senso tradizionale del termine, essendo altamente romanizzato. Anche sulla sua fede è difficile pronunciarsi27. Quanto al paganesimo di Eugenio, esso è stato variamente messo in discussione28, essendo ormai chiaro che Ambrogio - per primo e influenzando alcuni autori successivi - favorì un’interpretazione dello scontro politico che condusse al Frigido quale frutto di un serrato conflitto religioso tra i cristiani e gli ultimi pagani.29
Al vescovo, tuttavia, le puntigliose precisazioni degli studiosi moderni sarebbero parse inutili speculazioni. Insieme a Magno Massimo, che pur essendo uomo d’impeccabile ortodossia fu assimilato a Giuda e Pilato,30 Eugenio è immaginato all’inferno nel de obitu Theodosii. Per Ambrogio l’usurpatore era empio (infidelis) per il semplice motivo di aver preso le armi contro un imperatore pio. La sorte ultraterrena degli usurpatori “era un miserabile esempio di quanto fosse duro impugnare le armi contro i propri sovrani” (Ambr. De obitu Theod. 39: Contra autem Maximus et Eugenius in inferno […] docentes exemplo miserabili, quam durum sit arma suis principibus inrogare).
Nella prima lettera inviata in risposta a Teodosio dopo il Frigido, in sostanza, il vescovo troncava ogni eventuale polemica i tradizionalisti del senato volessero sollevare sulla natura di quella vittoria, prevedendo che l’imperatore di Costantinopoli tornasse nell’Urbe a celebrarla con un trionfo.31 Dalla sua chiesa il vescovo non si rivolgeva solo ai propri fedeli di Milano, tra cui senza dubbio i membri della Corte invitati a partecipare a quel rendimento di grazie.32 Erano suoi interlocutori ideali pure i senatori di Roma, colleghi di un tempo, di cui Ambrogio conosceva pratiche, aspirazioni e soprattutto i motivi di critica per manifestazioni di potere autocratiche come i falsi trionfi. Lo rivela la frase della lettera in cui Ambrogio metteva in confronto il desiderio di Teodosio, di far celebrare la sua vittoria in chiesa con un rendimento di grazie, e l’attitudine degli “altri imperatori che, quando cominciano a vincere, fanno costruire archi di trionfo e altri trofei delle loro vittorie” (Ambr. Ep. extra coll. 2.4: […] Alii imperatores in exordio victoriae arcus triumphales parari iubentaut alia insignia triumphorum clementia tua hostiam domino parat […]). A me pare che la frase contenga un’allusione, ancorché discreta, all’adventus a Roma nel 357 di Costanzo II, che per il suo trionfo volle elevare un obelisco nel Circo Massimo.33 Altre fonti coeve, la cui reciproca dipendenza non è decifrabile, indicano infatti che l’arrivo di Teodosio nell’Urbe il 13 giugno 389 aveva riacceso nella pubblicistica temi cari alla tradizione senatoria alto imperiale ostile ai “fasi trionfi”.34 Pacato, un panegirista del sud della Gallia, rievocò l’ingresso di Teodosio in un discorso recitato davanti al senato e all’imperatore, dedicandogli (tutto sommato) poche righe, che ne richiamavano i momenti salienti (Pacatus, Pan. XII [2]. 47.3-4). Sebbene linguaggio e forme del cerimoniale fossero convenzionali, la condotta di Teodosio durante la processione trionfale, le visite ai grandi monumenti di Roma e alle residenze private dei senatori hanno similitudini forti con la celebre descrizione di Ammiano Marcellino dell’ingresso trionfale di Costanzo II trent’anni prima.35
Lo storico antiocheno aveva già probabilmente terminato di scrivere quel brano prima del 389 (MATTHEWS, 1989, p. 11-12 e 449-450), ma l’autore della Historia Augusta potrebbe riflettere proprio le polemiche di quei giorni nel riprendere più volte il tema: Settimio Severo rifiutò il trionfo decretatogli dal senato dopo l’eliminazione di Nigro, onde non apparire di voler celebrarne uno per una vittoria riportata in una guerra civile.36 Quello di Gallieno, dopo la campagna contro Postumo ed altri usurpatori, è invece descritto come una carnevalata (SHA Gall. 8-9: RATTI, 2002, p. 125-142.). Il trionfo di Aureliano, peraltro, è speciosissimus proprio al confronto con il precedente,37 essendo condotto su Zenobia e Tetrico (la qual cosa rendeva un po' triste il senato38), ma pure su tutto l’Oriente e l’Occidente39. La cerimonia, inoltre, era presentata come un rendimento di grazie a Giove Ottimo Massimo, al cui tempio sul Campidoglio egli era salito su un carro aggiogato a quattro cervi, appartenuto al re dei Goti e promesso in voto al dio (SHA Aur. 33.3: PASCHOUD, 2002, p. 160-169). Immaginare che Ambrogio fosse venuto a conoscenza del testo di Vopisco da chi magari l’aveva ascoltato in anteprima in ristretta audizione è forse eccessivo, ma lo è meno pensare che il vescovo ben conoscesse certa mentalità aristocratica, per la quale l’esibizionismo degli pseudo trionfi, ormai gli unici celebrati a Roma da Costantino in poi, era semplicemente offensivo dei canoni antichi. La sua dottrina della vittoria incruenta interloquiva con polemiche recenti, che non solo l’arrivo a Roma nel 389 ma pure altre decisioni di Teodosio avevano acceso.
Subito dopo la descrizione del rendimento di grazie officiato in chiesa, offrendo sull’altare la lettera imperiale, il vescovo richiama i due augusti principi, entrambi ormai designati alla successione:
Il Signore è veramente propizio all’Impero romano, poiché ha scelto un tale principe e padre di principi, il cui valore e il cui potere, pur collocati in così sublime vertice del trionfale dominio, sono sottomessi ad una sì grande umiltà, che hanno superato in valore gli imperatori, in umiltà i vescovi (Ambr. Ep. extra coll. 2.5).
Il passo va annoverato accanto a quelli delle orazioni funebri per Valentiniano II e per Teodosio, perché mostra come in quegli anni Ambrogio fosse particolarmente attento ad attribuire agli imperatori virtù tipicamente vescovili. Come è stato detto, ciò favorì un’osmosi tra attribuiti del vescovo e doti imperiali, avviando una “clericalizzazione dell’uomo di governo” e nel contempo fornendo ai sacerdoti alcuni tratti tipici del funzionario imperiale.40 I due nuovi augusti, tuttavia, non erano solo pii, erano anche principes pueri. Arcadio, nato nel 377, era stato proclamato augusto a Costantinopoli il 19 gennaio 383 all’età di 6 anni; Onorio, essendo nato nel settembre 384, era stato fatto augusto a 9 anni il 23 gennaio 393. Gli argomenti affrontati (vittoria sull’usurpatore; novelli principi) erano dettati dalla contemporaneità, ma la stretta concomitanza di tali temi fa pensare che l’uditorio ideale del vescovo fosse più ampio che non i soli fedeli riuniti in chiesa a Milano.
La feroce critica ai Römische Kindekaiser, infatti, occupa uno dei passi più celebri della Vita Taciti nella Historia Augusta, il famoso discorso in senato di Mecio Faltonio Nicomaco. Dopo aver rievocato esempi celebri del passato - Nerone, Eliogabalo, Commodo -, le cui mostruosità erano in gran parte dipese dalla loro età, Nicomaco richiamava l’attenzione sui rischi che principi fanciulli facevano correre all’Impero e all’ordine senatorio, essendo inclini a concedere consolati in cambio di gustosi dolcetti e a nominare consoli, generali e giudici senza conoscerne né l’età, né i meriti, né la famiglia, né le azioni compiute in passato. Il senatore, infine, chiudeva il suo discorso con una solenne supplica all’anziano imperatore Tacito, affinché non nominasse eredi i suoi figli ancora fanciulli, come se l’impero romano fosse una villetta, con un po' di coloni e di servi, da trasmettere ai discendenti.41
Individuare il preciso contesto storico in cui la polemica contro i principes pueri divenne centrale nei dibattiti senatori ha costituito uno dei filoni principali della Historia Augusta-Forschung, essendo il problema legato alla data di composizione della collezione. L’avversione al principio dinastico, non meno della critica ai falsi trionfi, costituì uno dei cavalli di battaglia ideologici di quella parte del senato che di volta in volta sostenne (e probabilmente cooperò ad ideare) alcune delle più celebri usurpazioni che si susseguirono in età tardoantica. Anche quella di Attalo, durante il secondo assedio di Roma nel tardo 409, seguì di poco la designazione di Teodosio II (già nominato augusto a 8 mesi) dopo la morte del padre Arcadio (1maggio 408), quando il piccolo aveva solo 7 anni (Zos. 5.32.1-34.7). La proclamazione di Onorio, tuttavia, a poca distanza da quella di Arcadio, ovvero la morte di Teodosio nel gennaio 395, che rendeva i due fanciulli eredi dell’impero d’Occidente e d’Oriente a tutti gli effetti, costituivano lo scenario perfetto per l’esplodere della polemica.42 Non è mancato infatti chi ha creduto di ravvisare nel discorso di Mecio Faltonio Nicomaco l’orazione che Nicomaco Flaviano Seniore avrebbe tenuto in senato quando Teodosio I, anziché riconoscere Eugenio, elevò suo figlio Onorio alla dignità di Augusto nel 393.43 Reale o meno fosse stata l’orazione di Flaviano, certo la scelta di Teodosio di nominare augusto anche suo figlio Onorio, dopo aver rifiutato di ricoprire il consolato del 393 con Eugenio, se non l’usurpazione, aveva provocato la discesa in Italia del neo eletto, il quale fu subito riconosciuto a Roma (MATTHEWS, 1975 (1990), p. 240, n. 1).
Ambrogio, dunque, non poteva trovare modo migliore per dissociare la chiesa di Milano e se stesso - un vescovo ma di rango clarissimus, che aveva aspettato di ricevere la comunicazione della vittoria per esprimere la propria adesione a Teodosio e alla neo dinastia - da quella fronda senatoria che aveva sostenuto l’usurpatore. Egli riprendeva i principali motivi, che avevano provocato l’ostilità senatoria verso la politica di Teodosio I, e li mutava in altrettanti, efficaci presupposti per assecondarla e accettarla. Lo scontro politico era trasformato in una questione di natura religiosa. L’innovazione liturgica introdotta rappresentava plasticamente la sua opzione politica, perché i fedeli la condividessero con religioso trasporto.
La prima lettera a Teodosio si chiudeva probabilmente con il riferimento ai pii figli del pio principe. Ambrogio può aver aggiunto l’augurio finale all’imperatore di accrescere la propria pietas, affinché per opera della sua clementia la Chiesa potesse “non solo compiacersi della pace e della tranquillità di chi è senza colpa, ma altresì rallegrarsi del perdono concesso ai colpevoli” (Ambr. Ep. extra coll. 3.3), quando rielaborò quella prima missiva prima della pubblicazione. Il tal modo, egli avrebbe creato un piccolo dossier sull’argomento. Anche nel far leva sulla clementia dell’imperatore, varie volte ricordata nel primo testo ma al centro soprattutto del secondo (Ambr. Ep. extra coll. 2.2; 4; 6; 7; Ep. extra coll. 3.1; 2; 3; 4.), il vescovo attingeva a una radicata tradizione senatoria che risaliva alle origini del principato. Come si legge tra le righe del celebre de clementia che Seneca aveva rivolto a Nerone, essa si era formata per la necessità di moderare l’assolutismo di un principe, di cui nessuno ormai voleva fare a meno, ma rispetto al quale si voleva indirettamente mantenere il diritto di esprimere il proprio dissenso (persino creando un sovrano alternativo al vigente) con la speranza di essere graziati.44 Anche in questo caso, tuttavia, Ambrogio non si limitò a riproporre un tema caro al suo ceto. Non chiese solo clementia per quanti si erano resi colpevoli di collusione con l’usurpatore, bensì domandò la grazia per coloro che si erano rifugiati nella sua chiesa. La richiesta, che sollevava la questione della legittimità del diritto di asilo ecclesiastico, merita qualche approfondimento, attingendo alle informazioni della seconda lettera mandata a Teodosio.
Il linguaggio adottato nel proemio, che ricorre a topoi codificati nello scambio di missive tra i membri colti dell’élite, è oggi meglio noto grazie allo studio della corrispondenza di Quinto Aurelio Simmaco.45 L’andamento del pensiero, nonostante una consequenzialità non sempre perspicua delle subordinate, si può dunque facilmente sintetizzare. Il vescovo ricordava subito di aver già inviato una lettera di risposta a Teodosio.46 Tale reciprocità nella corrispondenza (reddidere officium sermonis) sarebbe stata sufficiente in un rapporto tra pari (velut pari vice), ma egli difficilmente avrebbe potuto controbilanciare con altrettante manifestazioni d’affetto (nullis beneficiis possim conpensare quod debeo) i numerosi beneficii della clemenza imperiale. Essendosi dunque presentata una nuova importante occasione, egli si accingeva a inviare una seconda lettera, con cui esprimere l’ossequio dovuto (qua pietati tuae deferrem debitum salutationis obsequium). Nella parte proemiale della lettera sono dati anche alcuni particolari interessanti sul modo in cui il primo scambio epistolare era avvenuto. Ne era stato tramite il cubicularius dell’imperatore, ormai un importante funzionario di Corte, che era stato inviato da Aquileia, e a cui Ambrogio si era affrettato a consegnare la sua risposta. Quest’ultima è indicata con termine tecnico (officium alloquii mei) - che non può essere frainteso pensando a risposta semplicemente orale (come intende, invece, Palanque 1933, p. 289, n. 125), - tanto più che il suo contenuto è richiamato sottolineando che non per pigrizia ma per uno stato di necessità egli non era stato il primo a scrivere (Ambr. Ep. extra coll. 3.2: et alloquii mei officium repraesentarem, maxime ne desidiae putaretur fuisse potius quam necessitatis quod tempore non scripserim superiore). La seconda lettera, invece, era stata inviata dal vescovo ad Aquileia per mezzo del diacono Felice (Ambr. Ep. extra coll. 3.2).
È quanto ricorda anche Paolino di Milano. Il suo racconto concorda solo parzialmente con le notizie date da Ambrogio, il quale afferma che la missiva recata da Felice chiedeva clemenza non solo per quanti erano rei di aver parteggiato per Eugenio ma pure per coloro che, tra quelli, avevano cercato rifugio presso la chiesa.47 Per Paolino, invece, il perdono per questi ultimi fu richiesto personalmente dal vescovo recandosi fino ad Aquileia, solo dopo l’intervento del tribuno e notario Giovanni:
poi, in verità, dopo che Giovanni, che a quel tempo era tribuno e notaio e ora è prefetto, fu inviato a proteggere coloro che si erano rifugiati presso la chiesa, anche Ambrogio di persona si recò ad Aquileia per supplicare a loro favore. Per costoro il perdono fu ottenuto facilmente, perché l’’imperatore cristiano, gettandosi ai piedi del vescovo, attestava di essere salvato dai suoi meriti e dalle sue preghiere. 48
Tralasciamo la conclusione del racconto, che per fini edificanti non rende merito all’impegno (come vedremo assai gravoso) del vescovo nel piegare Teodosio alla clemenza per quanti si erano rifugiati nella chiesa di Milano. Richiamerei l’attenzione, invece, sulla missione del tribunus et notarius Giovanni. Sebbene Paolino non dica chiaramente dove quegli fosse diretto, l’andamento del periodo mi parrebbe escludere che egli fosse stato mandato da Teodosio a Milano ‘per ispezionare’ i rifugiati in chiesa.49 La sua missione era di tutelare, non d’ispezionare i richiedenti asilo. Che si fosse recato da Milano ad Aquileia, invece, parrebbe desumibile da quanto Paolino aggiunge: “dopo che Giovanni era stato inviato … anche egli stesso si recò ad Aquileia”, implicando che Ambrogio aveva seguito lo stesso itinerario di Giovanni (da Milano verso Aquileia). Non è detto neppure chi avesse inviato Giovanni, perché Paolino sintetizza con un directus est. Il verbo, anziché senso passivo, potrebbe essere inteso come riflessivo, sì da tradurre “dopo che Giovanni ‘si diresse (o andò)’ a tutelare …”. Ciò indicherebbe che il funzionario lo avesse fatto sua sponte. La Corte imperiale, o comunque molti suoi uffici erano ormai stabilmente accolti nel Palatium o nei suoi dintorni, visto che a Milano (e non a Roma) si stanziò Teodosio il 10 ottobre 388 dopo aver sconfitto Magno Massimo;50 in quella città Valentiniano II scelse di celebrare il suo consolato nel 390,51 senza recarsi nell’Urbe dove Teodosio I aveva presentato al senato suo figlio Onorio (Socr. HE V.14.3; Claud. De VI cons. Hon. 53); e a Milano, infine, si diresse Eugenio per risiedervi. Dopo la sua esecuzione, la Corte milanese dipendeva da Teodosio. Questi, tuttavia, a dire di Paolino, doveva ancora essere persuaso a usare clemenza verso quelli che avevano parteggiato per l’usurpatore, pertanto non è inverosimile che un alto funzionario della Corte residente a Milano decidesse d’intervenire presso l’imperatore per parlare in favore di quei colleghi e forse suoi superiori i quali, sospettati di maiestas, si erano rifugiati nella chiesa di Ambrogio.
Il tribunus et notarius era probabilmente un devoto cristiano della chiesa milanese. Paolino non dimentica di far cenno alla sua straordinaria carriera, dichiarando che ricopriva la carica di prefetto al pretorio quando egli scriveva la Vita Ambrosii in Africa. Ciò indica una prolungata familiarità con quell’ uomo. Della sua devozione cristiana potrebbe essere testimonianza una capsella ellittica conservata nel tesoro di sant’Eufemia a Grado.52 Il reliquiario d’argento, adorno delle figure di Cristo con a fianco Pietro e Paolo, i santi Canzio, Canziano e Canzianilla (martiri di Aquileia), i santi Quirino, martire di Sciscia, e san Latino, fu dedicato da tre spectabiles viri: Ioannes, Laurentius e Niceforus. È infatti un esemplare caratteristico dell’evergetismo di ufficiali di alto rango nell’Aquileia di IV-V secolo. Ioannes potrebbe dunque essere il nostro funzionario, grato ai suoi santi romani e locali per il buon esito dell’operazione condotta dopo il Frigido (LIZZI, 1989, p. 165-166, n. 96).
La decisione di Giovanni di recarsi ad Aquileia per tutelare quelli che si erano rifugiati nella chiesa di Milano, seppure riconducibile a un’iniziativa personale del tribunus et notarius, non avrebbe potuto essere presa senza un preventivo accordo col vescovo che ospitava i presunti rei. Sia Giovanni, sia il vescovo erano consapevoli dei rischi che la missione avrebbe comportato. Di vescovi e sacerdoti cristiani, proprio tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, sono ricordate varie azioni in difesa di schiavi perseguitati, criminali, ma pure di notabili debitori e vedove in crisi col fisco.53 Un canone del concilio di Serdica del 343, che Ambrogio e Damaso probabilmente ritenevano emanato a Nicea nel 325, aveva sollecitato i vescovi ad esercitare l’asilo, avendo il fine di evitare o ritardare l’applicazione della pena (talvolta di morte) e lasciare ai colpevoli il tempo di far penitenza. Tecnicamente la pratica poteva configurarsi come applicazione della procedura romana d’intercessio.54 In Oriente e in Occidente, tuttavia, l’asilo provocò tensioni e conflitti tra vescovi e funzionari imperiali, mentre le disposizioni legislative al riguardo ne limitarono l’ambito di applicazione.55 Subito dopo il Frigido, dunque, esercitare l’asilo in aiuto di possibili rei di maiestas (in quanto collusi con un usurpatore) poteva creare un conflitto con l’autorità imperiale.
Questo potrebbe spiegare perché, dopo Giovanni, Ambrogio stesso si sia recato ad Aquileia. I canoni di Serdica vietavano ai vescovi di adire alla Corte se non invitati,56 cosicché è probabile che il vescovo vi sia andato perché Teodosio lo aveva invitato a reddere rationem di ciò che egli aveva compiuto in sostegno di presunti rei e in accordo con un funzionario della Corte di Milano. Quanto serio e prolungato, infatti, sia stato il disaccordo tra imperatori e vescovi sul diritto di quest’ultimi di esercitare l’asilo nei loro luoghi sacri lo racconta un altro episodio della Vita Ambrosii. Secondo Paolino, i soldati che avevano catturato un certo Cresconio, trascinandolo fuori dalla chiesa dove si era rifugiato e nonostante fosse strenuamente difeso da Ambrogio e dai suoi chierici, furono fatti a pezzi dai leopardi, non appena entrarono nell’anfiteatro per riferire a Stilicone il successo della loro missione. Il fatto dovrebbe essersi verificato subito dopo la crisi provocata dall’usurpazione di Eugenio, perché lo spettacolo era stato allestito per il consolato di Onorio, evidentemente il terzo, rivestito nel 396 (LIZZI, 1989, 165-166, n. 96). Eventi miracolosi siffatti intervengono anche altrove nel testo, ogni volta per dimostrare che le azioni del vescovo, contrastate da un imperatore che vacillava nella vera fede, o da funzionari e soldati ariani (come in quest’ultimo caso), avevano il sostegno di Dio, che lo manifestava immediatamente.57 L’episodio, infatti, esaltava la forza del vescovo e la pietas dell’imperatore ma sottolineava pure che l’asilo ecclesiastico non era un diritto acquisito per sempre.
Ambrogio ne era consapevole. Nel de obitu Theodosii, il discorso funebre pronunciato quaranta giorni dopo la scomparsa dell’imperatore (17 gennaio 395), appena quattro mesi dopo il Frigido, egli infatti non ricorda affatto la concessione del perdono a quanti si erano rifugiati nella sua chiesa, che secondo Paolino era stato ottenuto in modo davvero facile (Paul. Med. VA 31.5: quibus facile venia inpetrata est). La clementia di Teodosio - vittorioso sull’empietà dei tiranni e sugli idoli dei gentili - è certo la prima virtù citata nell’orazione. Essa, tuttavia, è menzionata per l’indulgentia concessa e il rammarico imperiale per chi aveva respinto il suo perdono (De obitu Theod.4). Il pensiero del vescovo, in perenne dialogo con la Corte e il senato, andava dunque a Nicomaco Flaviano, ad Arbogaste e a quanti altri avevano preferito il suicidio alla riappacificazione. Infatti, nella prima sezione del discorso, che si apre classicamente ricordando la natura in subbuglio per la morte dell’imperatore e la biblica pietà di Onorio, il quale come Giuseppe aveva tributo onori funebri per quaranta giorni a suo padre, il vescovo parlava in primo luogo da esperto politico, per dare un contributo essenziale alla situazione politica. Si appellava, dunque, alla lealtà dei soldati verso i giovani principi (De obitu Theod.6); riferiva della sospensione della tassa sul frumento e dell’abolizione dei legati, che sarebbero stati sostituiti da fidecommessi (De obitu Theod.5); provvedeva la prima autorevole legittimazione alla posizione di Stilicone come “guardiano” di entrambi i principi (De obitu Theod.5: nisi ut eos praesenti commendaret parenti), ma soprattutto ribadiva che la legge sull’indulgentia aspettava di essere ratificata da Onorio (De obitu Theod.5: Praecepit dari legem indulgentiae, quam scriptam reliquit. Quid dignius, quam ut testamentum imperatoris lex sit?).
La clementia imperiale, virtù legata alla pietas, era un atto politico essenziale per un principe contro cui era stato sollevato un usurpatore. Poiché rendeva ‘grati collaboratori’ coloro che avevano osato opporsi, il perdono sanzionava la vera pace sociale, ripristinando la concordia entro l’ordine senatorio, spaccato tra sostenitori e contrari del regime vigente, e tra l’imperatore e un’élite, da cui non si poteva prescindere nel governo dell’impero. Da clarissimus, dunque, Ambrogio la raccomandava ai figli di Teodosio e a Stilicone. I suoi consigli, infatti, perché in ciò riflettevano perfettamente l’opinione di tutta l’assemblea senatoria, furono subito seguiti.58
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