Dossier
Il non essere non è la differenza, ma l’apparenza
Non-being is not the Difference, but Appearance
Il non essere non è la differenza, ma l’apparenza
Tópicos, núm. 46, e0081, 2024
Universidad Nacional del Litoral
Recepción: 01 Noviembre 2023
Aprobación: 01 Abril 2024
Sommario: In questo saggio vorrei mostrare che Platone scrisse il Sofista per tematizzare una questione cruciale, che in tale dialogo è problematizzata per la prima volta: l’essere, la realtà delle cose, non si presenta a noi direttamente e chiaramente. Per comprendere la realtà delle cose, che sembra evidente e invece è sfuggente, è necessario inseguirla come una preda che si nasconde. Se è necessario cercare l’essere per catturarlo è perché spesso quel che cogliamo non è l’essere ma l’apparire. Il cuore del dialogo – la sezione sull’immagine – è la definizione dello statuto dell’apparenza. Il mio punto è che non è possibile spiegare la natura del non essere senza legare il discorso sul non essere al discorso sull’immagine. Nella sezione sull’immagine è presentata la natura contraddittoria dell’eidolon. Lo Straniero, che in questa sezione è il portavoce del sofista, gioca il ruolo dell’interrogante e conduce Teeteto ad ammettere che l’immagine non soltanto non è un ente, ma è il contrario dell’ente (Sph. 240b5-6). Quando, in Sph. 257b3-4, lo Straniero dice che “quando diciamo ‘non essere’ non diciamo qualcosa di contrario all’essere, ma soltanto di diverso da esso”, egli si riferisce – correggendolo – a ciò che il sofista ha detto nella sezione sull’immagine. Io credo che “ciò che è diverso dall’essere” sia precisamente l’apparire, il cui statuto aporetico è stato sottolineato nella sezione sull’immagine. La mia tesi è che il non essere è il phantasma, il darsi dell’essere alla percezione degli umani non direttamente, non chiaramente, non veramente, ma sotto una falsa sembianza.
Parole: Non essere, Apparenza, Phantasma, Sofista.
Abstract: : In this paper I would like to show that Plato wrote the Sophist in order to thematise a crucial issue, which in such a dialogue is problematised for the first time: being, the reality of things, does not present itself to us directly and clearly. In order to understand the reality of things, which seems evident, and instead escapes, it is necessary to chase it as one chases a prey that hides. If it is necessary to search for the being in order to catch it, it is because most of the time what we catch is not being, but appearance. The core of the Sophist - the section on the image - is devoted to the definition of the status of appearance. My point is that one cannot explain the nature of non-being without linking the discourse on non-being to the discourse on image. In the section on image the contradictory nature of the eidolon is presented. Here the Visitor acts as a spokesman for the sophist, who plays the role of questioner. In this section the sophist leads Theaetetus to admit that the image is not only not an entity but is the opposite of an entity (Sph. 240B5-6). When, in Sph. 257b3-4, the Stranger says that "when we say 'not being', we do not call something contrary to what is, but only different from being", he refers - by correcting him - to what the Sophist said in the aporetic section on the image. I believe that 'what is different from being' is precisely that appearance whose aporetic status was outlined in the section on the image. My thesis is that non-being is the phantasma, the fact that being gives itself to human perception not directly, not clearly, not truthfully, but in false guise.
Keywords: Not-being, Appearance, Phantasma, Sophist.
1. Introduzione
Scopo di questo mio contributo, dedicato all’amica Graciela Marcos de Pinotti, che ha tanto illuminato gli studi sul Sofista platonico, è dimostrare che la problematica nozione di non essere (to me on), tematizzata in questo dialogo, non si identifichi tout court con heteron, la differenza, bensì con phantasma, l’apparenza,[1] che della differenza è soltanto una parte.[2]
A tal fine procederò con il sottolineare tutto ciò che, nel testo, a partire dalla prima pagina, prepara questa identificazione del non essere con la dimensione ingannevole dell’apparire (Marcos de Pinotti, 2009:125), fino ad arrivare alla definizione dell’eidos tou me ontos.
Nella prima pagina del dialogo, infatti, Socrate - il quale funziona nei testi platonici come un indicatore dello skopos della discussione che seguirà - problematizza immediatamente l’identità nascosta dello Straniero condotto da Teodoro (Ambuel, 2011:282) ed erigendo la struttura teorica del phantasma (Dixsaut, 2022:300)[3] ipotizza che lo Straniero sia un dio: un theos elegktikos (Jenks, 2011:18-19, 208-209).
Con tale mossa teorica lo Straniero mette in dubbio che ciò che appare si identifichi con ciò che è.
Egli ipotizza che tra ciò che è e ciò che appare esista uno scarto e che in questo scarto si annidino tutte le possibilità dell’inganno: lo Straniero appare uno straniero, ma può essere un dio. Teodoro dice che è un filosofo, ma anche i filosofi possono apparire ciò che non sono; possono apparire sofisti o pazzi. Quel che conta sottolineare è che ciò che appare non coincide sempre con ciò che è. Problematizzare l’identità nascosta dello Straniero ha il senso di sottolineare questa non coincidenza. Solo dalla riflessione su tale non coincidenza - tra ciò che ci mostrano i sensi e ciò che veramente è - nasce la conoscenza del phantasmae dunque, come vedremo, del non essere.
Nel contesto della prima presentazione dell’identità nascosta dello Straniero, Socrate fa riferimento a tutte le caratteristiche che contribuiranno a definire la nozione aporetica di apparenza.[4] Come spesso accade nei dialoghi, infatti, nella prima pagina c’è, racchiuso come in un seme, l’intero sviluppo successivo del testo.[5] Quel che ancora manca, e che sarà individuato grazie allo sviluppo dell’argomentazione, è l’identificazione dell’apparenza con il non essere.
Il mio punto qui è mostrare che Platone scrisse il Sofista per tematizzare questa questione cruciale, la quale nel dialogo viene problematizzata per la prima volta: l’essere, la realtà delle cose, non si presenta a noi direttamente e chiaramente. Per comprendere la realtà delle cose, che sembra evidente (τὰ δοκοῦντα ἐναργῶς, Sph. 242b10) e invece sfugge (ἐκφεύξεται, Sph. 235b3), è necessario inseguirla come si insegue una preda che si nasconde. Se bisogna andarea caccia dell’essere al fine di catturarlo e se la filosofia si configura come una caccia all’essere (Phd. 66c) è perché il più delle volte quel che cogliamo non è l’essere, ma l’apparire (τὸ γὰρ φαίνεσθαι τοῦτο καὶ τὸ δοκεῖν, εἶναι δὲ μή, Sph. 2361-2). È dunque cruciale comprendere cosa sia questo apparire e ritrovarne la spiegazione nella definizione del non essere, come differenza dall’essere, definizione che scioglie le aporie del dialogo (Pimenta Marques, 2006:457-458).
2. L’inizio dell’indagine: le diaireseis
Scelti l’oggetto (il sofista) e il metodo (domanda e risposta) della ricerca, gli interlocutori del dialogo focalizzano il campo dell’indagine come quello che riguarda la relazione tra il linguaggio e le cose.[6]
Essendo l’essere del sofista un genere difficile da catturare, lo Straniero consiglia di esercitare il metodo (μέθοδον προμελετᾶν, 218d5) su un genere più facile.[7]
Nell’indagare sul genere più facile, lo Straniero distingue due tipi di tecniche,[8] tra le quali compare qui per la prima volta la μιμητική (219b1), che avrà un’importanza enorme nel seguito del dialogo. La μιμητική è l’arte dell’allestimento della finzione, l’arte della manipolazione delle apparenze.
Le diaireseis che seguono costituiscono una riflessione sullo statuto degli onomata[9] che, accompagnati da una riflessione sul loro oggetto, possono tracciare i sentieri della comprensione del mondo. A un certo punto delle diaireseis lo Straniero invita Teeteto a notare come l’oggetto della ricerca sfugga continuamente, come ciò che è stato detto abbia l’apparenza (φάντασμα) di riferirsi a un altro genere. (ἕτερον εἶναί τι γένος, 223c1-4).
Ed ecco che ricompare qui, con la nozione di phantasma, ciò di cui si parla fin dalla prima pagina; e ricompare a creare un dubbio nell’idea che abbiamo delle cose: esse ci possono apparire diverse da quelle che sono, e possono essere diverse da quelle che sembrano.
Le diaireseis evidenziano l’esistenza di alcune arti dai nomi ridicoli (224b4), esse sono interessanti per il nostro tema, perché riguardano le capacità - che saranno ravvisate come specificamente sofistiche (Marcos de Pinotti, 2006a, 2006b), e che sono state legate ai sofisti già in Prt. 312a-314a - di eleggere, come specifico interlocutore dell’arte mercantile, l’anima dei clienti.[10] Platone è il primo ad avere pensato all’anima come ciò a cui possa rivolgersi un mercante. La sorpresa di Teeteto (223e) ci informa che si tratta di una novità. Platone sta presentando della sofistica un’immagine inedita e tale immagine inedita è tutta fondata sulla nozione di apparenza. Il sofista –verrà mostrato– possiede l’arte di manipolare le apparenze e, poiché le apparenze sono il modo umano di vedere le cose,[11] il sofista sa manipolare il modo umano di vedere le cose (Palumbo, 2019). [12]
Nel contesto della ricerca diairetica ci si imbatte nella questione delle somiglianze (231a4),[13] sulle quali –si dice– è necessario stare in guardia, perché sono il genere più scivoloso (ὀλισθηρότατον γὰρ τὸ γένος, 231a8, Ambuel, 2011:278-310): il sofista, infatti, somiglia al filosofo,[14] come il lupo al cane.[15]
3. Le aporie della ricerca come anomalie della relazione tra essere e linguaggio
Qui, nella prima parte del dialogo, il testo non fa che sottolineare le difficoltà della ricerca. Teeteto afferma di trovarsi in difficoltà (ἀπορῶ) a causa del molteplice apparire (διὰ τὸ πολλὰ πεφάνθαι)[16] del sofista (Greenstine, 2019:22): non è chiaro che cosa si possa dire su di esso per dire la verità e poterla sostenere con forza (231b9-c2).
Il molteplice apparire del sofista viene considerato un problema nella misura in cui assegna al sofista una competenza molteplice,[17] alla quale corrisponde il nome di una sola arte (232a2).
Questa anomalia nella corrispondenza tra il nome e la cosa, tra il linguaggio e la realtà, è precisamente il φάντασμα οὐκ ὑγιές (232a), l’apparenza insana che denuncia il problema. Chi conduce la ricerca – dice lo Straniero - non è capace di trovare ciò che accomuna tutte le apparenze molteplici del sofista (Casertano, 1996: 121). Se sapesse vedere (κατιδεῖν, 232a4) ciò che unifica le apparenze molteplici del sofista, non sarebbe costretto a usare molti nomi invece di un solo nome (πολλοῖς ὀνόμασιν ἀνθ' ἑνὸς, 232a5-6) per designare colui cui esse si riferiscono (τὸν ἔχοντα αὐτὰ προσαγορεύει, 232a6).
Teeteto concorda e i ricercatori si ripromettono di non restare vittime delle apparenze insane. Uno dei modi per difendersi dalle apparenze insane è indagare sulle anomalie che insorgono nella corrispondenza tra il linguaggio e le cose. Tali anomalie, infatti, sono sintomi di quella “malattia del discorso” (Casertano, 1991), che impedisce al linguaggio di mostrare l’essere.[18]
Per difendersi dalle anomalie, che sono tali – giova ricordarlo – in quell’ottica squisitamente eleatica in cui l’analisi viene condotta, bisogna sempre re-interrogare la natura delle cose, e cercare, tra le risposte della ricerca, quella che appaia chiara o addirittura rivelatrice (κατεφάνη, 232b3). Un termine che viene ritenuto rivelatore (Notomi, 1999:81-84) è quello che riconosce al sofista l’abilità di condurre la confutazione, ἀντιλογικόν (225b13, 232b6). E allora – dice lo Straniero – «la nostra indagine abbia inizio proprio da qui» (ἡ δὲ σκέψις ἡμῖν ἐξ ἀρχῆς ἔστω τῇδέ πῃ, 232b12-c1).
Gli interlocutori convengono sul fatto che i sofisti sembrano essere, su ogni argomento, maestri della confutazione. Ma soprattutto convengono sul fatto cheè impossibile (233c9) che lo siano davvero. Per poter confutare tutti su ogni argomento sarebbe necesssario avere scienza su tutto. La constatazione che è impossibile (ἀδύνατον, 233c9) avere scienza su tutto (πάντα ἐπίστασθαί, 233a3) conduce allora a comprendere che il miracolo della potenza sofistica (233a8-9) è proprio il fatto che i sofisti sono capaci di formare nei giovani la credenza di essere loro i più sapienti di tutti in ogni campo (πάντα πάντων αὐτοὶ σοφώτατοι, 233b1-2). Essi sembrano avere scienza (δοκοῦσι ἐπιστημόνως ἔχειν, 233c1), sono ritenuti sapienti (σοφοὶ φαίνονται, 233c6), ma senza esserlo (οὐκ ὄντες, 233c8). La loro è una scienza opinata, non una scienza vera.[19] E questa è probabilmente la cosa più corretta (ὀρθότατα, 233d2) detta a proposito dei sofisti.
4. L’arte mimetica e la nozione di finzione
A questo punto compare nel testo la nozione di gioco (παιδιά, 234a7): così come per gioco si può fingere di creare tutto, allo stesso modo si può fingere di sapere tutto e poter tutto insegnare. Il gioco più piacevole è τὸ μιμητικόν, termine che tornerà anche nell’ultima diairesis (268c), e che potremmo tradurre proprio come “l’arte di fingere”. Teeteto dice che si tratta di una specie molto ampia e variopinta. Grazie a un’analogia con i simulatori di immagini visive, lo Straniero introduce l’immagine dei sofisti come simulatori di immagini verbali (234b-c).
La mossa importante è stata compiuta: grazie all’introduzione nella discussione dell’idea di finzione (τὸ μιμητικόν), è possibile accomunare le apparenze le più diverse riducendole a unità. È impossibile sapere tutto, ma non è impossibile fingere di sapere tutto. La finzione qui trova, forse per la prima volta nella storia della filosofia occidentale, una sua definizione: fingere significa creare l’opinione di essere, senza veramente essere (216c4-5). Era questa l’idea base da isolare per definire il sofista come uno che finge, che finge di essere ciò che non è, che lavora proprio nello scarto che talvolta si crea - che egli stesso crea - tra le cose e i loro nomi, tra le cose e la comprensione di esse, tra la realtà e il pensiero che prova a catturarla.
Questo tipo di scarto, di distanza delle cose dalla lettura che il pensiero dà di esse – questo che eleaticamente si configura come un monstrum – è il phantasma.
I phantasmata - si dice - sono i ferri del mestiere del μιμητής (235a1), che è il sofista ammaliatore (235a8), l’illusionista (235b5), la belva da avviluppare nella rete di cui si servono i discorsi per catturare prede siffatte (235b).[20]
Il sofista, a riprova delle sue abilità mimetiche, da cacciatore che era, rischiando di diventare una preda, prova a sfuggire alla presa inabissandosi nei meandri delle suddivisioni dell’arte mimetica (κατὰ μέρη τῆς μιμητικῆς, 235c2-3). La sua vera linea di difesa, però, sarà un’altra, e ben più insidiosa: egli arriverà a negare l’esistenza della mimetike e dei suoi prodotti (Palumbo 2008).
L’arte mimetica viene distinta in due specie (δύο εἴδη τῆς μιμητικῆς, 235d1-2) la prima (εἰκαστική, 235d6) è quella che riproduce fedelmente il modello creandone una copia somigliante; la seconda, invece, (φανταστική, 236c4, 7), è la tecnica di produzione del φάντασμα (236b7). Il phantasma non somiglia al suo modello (Greenstine, 2019:20), ma, poiché a esso, senza esserlo, appare simile (Notomi, 1999:149-155), lo chiamiamo apparenza (ἐπείπερ φαίνεται μέν, ἔοικε δὲ οὔ, φάντασμα, 236b7).[21]
Ciò che impedisce a questa distinzione di essere risolutiva e di portare chiarezza nell’indagine è il fatto che il sofista non l’accetta: il sofista nega che esistano immagini, né simili, né dissimili. Secondo il sofista, che ha parlato per bocca di Protagora il giorno prima (nella discussione raccontata nel Teeteto), e che ribadisce la sua posizione per bocca dello Straniero in Sofista 240, non c’è alcuna possibilità di distinguere la realtà dall’apparenza perché tutto ciò che appare è.
Per avvicinarsi alla scottante questione della falsità delle apparenze, lo Straniero comincia a parlare di pittori che dipingono immagini non somiglianti e Teeteto appare sorpreso. Egli ipotizza che tutti i creatori di immagini producano copie somiglianti, ma lo Straniero dice che alcuni artisti abbandonano la verosimiglianza per salvare la bellezza. Tali artisti riconoscono che le vere proporzioni dell’originale non sempre apparirebbero somiglianti, specie quando c’è una differenza di scala.[22] In questi casi gli artisti possono tenere conto della prospettiva dell’osservatore e creare un’immagineche sembra più simile all’originale della vera copia stessa (Marcos de Pinotti, 2006a:74-88).
5. Il colmo dell’aporia e l’ eidos tou me ontos
Quando parla dell’immagine, nozione estremamente problematica, lo Straniero dice esplicitamente che il sofista si è rifugiato «in una specie la cui indagine non presenta vie di uscita» (236d2-3). È qui che l’aporia della ricerca viene ravvisata proprio in quello scarto tra il sembrare e l’essere, tra il dire e il dire il vero (236e1-2), che dalla prima pagina del dialogo identifica precisamente il phantasma, e che ora costringerà ad ammettere l’esistenza del non essere.
Non c’è altro modo infatti – afferma lo Straniero – in cui il falso verrebbe a essere qualcosa che è (237a3-4). Ma l’esistenza del non essere è negata da Parmenide (237a8-9)[23]: le aporie del non essere sono aporie, perché accendono un riflettore su quello scarto tra essere, sembrare e dire, che eleaticamente configura la contraddizione (Marcos de Pinotti 2005: 237-268). Qui, lo Straniero dice che il nascondiglio del sofista resterà inaccessibile fin quando non si troverà un’ὀρθολογία περὶ τὸ μὴ ὄν (239b).
Per trovare tale ὀρθολογία (Cordero, 1993: 285-290; Vasiliu, 2014: 95-136), sarà necessario esaminare ciò che sembra essere evidente. Ciò ci impedirà di credere di capire, mentre accade tutto il contrario (δοξάζωμεν μανθάνειν μὲν τὰ λεγόμενα παρ' ὑμῶν, τὸ δὲ τούτου γίγνηται πᾶν τοὐναντίον, (244a-b). Sarà necessario interrogare i filosofi antichi (che siamo un po’ noi nel passato) come se fossero presenti, e chiedere loro quale sia il significato del termine essere (243e-244b). Il discorso di Parmenide, in questa interrogazione, si configura come un mito, proprio perché ha negletto il significato dell’essere (Dixsaut, 2022:489).
Per comprendere il significato dell’essere è necessaria un’indagine eidetica sulle relazioni tra i generi. In quest’indagine, lungamente preparata dalle parole degli interlocutori, si chiarirà la natura del non essere. Essa compare quando si analizza la relazione di differenza di un genere rispetto all’essere. La natura del diverso - dice lo Straniero - rendendo ciascuno dei generi diverso dall’essere, crea il non essere (οὐκ ὂν ποιεῖ, 256e). È qui che la differenza dall’essere - lo scarto dal reale su cui opera la finzione, che ha già identificato il phantasma - identifica il me on.
A questo punto si colloca the contested question della semantica della negazione: il “non” non significa “contrario di”, ma “diverso da”. Nel Sofista lo Straniero tematizza la maniera di significare dell’espressione negativa, che è incapace di mostrare qualcosa di positivo. Essa ha un significato, ma non un referente, ha un’intensione, una significazione, ma non un’estensione (Dixsaut, 2022:636).
Quando il testo parla delle parti del diverso, presenta una parte che si oppone al bello (τῷ καλῷ τι θατέρου μόριον ἀντιτιθέμενον, 257d) e dice che questa parte è il non bello. Questo ci servirà a comprendere il non essere. Il non essere, infatti, è la parte del diverso che si oppone all’essere.[24] Ed è così che la nozione di apparenza (phantasma), presentata fin dalla prima pagina come ciò che si oppone all’essere (lo Straniero che appare un filosofo ma potrebbe essere un dio, il sofista che appare un sapiente ma potrebbe essere un impostore), incontra la nozione di non essere, intesa - allo stesso modo - come ciò che, all’interno dell’essere, a esso si oppone, differenziandosene.[25]
L’ultima specificazione riguarda dunque la nozione di ἀντίθεσις (258b1). Il non essere non è il diverso, né l’insieme delle parti del diverso, ma è quella parte del diverso che si oppone (ἀντιτιθέμενον) all’essere di ogni ente (τὸ πρὸς τὸ ὂν ἐκάστου, 258e2-3; Owen, 1971: 223-267; Cordero, 1993: 270; O’Brien 1995).[26]
Il non essere si oppone all’essere come l’apparenza alla realtà. L’unica cosa cui l’essere può opporsi è l’apparenza: non esiste altro, infatti, oltre l’essere (che comprende tutti gli esseri) e l’apparenza (che comprende tutte le immagini). Anche l’apparenza, infatti, è essere, ma non è l’essere che sembra.[27]
È questa la ragione per la quale, nell’ultima diairesis (266a), là dove il testo lega per sempre il sofista all’apparenza, prende forma l’opposizione fondamentale: quella tra la produzione di cose (αὐτοποιητικόν) e la produzione di immagini (εἰδωλοποιικώ).
Ed è questa anche la ragione per la quale la falsità viene intesa come differenza che sembra identità: il falso è una questione di finzione e consiste nel far credere che un’apparenza sia l’essere stesso di cui è apparenza (che il sofista sia sapiente, che il filosofo sia pazzo, che le cose siano quelle che ci consegna lo sguardo; e che il sapere coincida con l’opinione).
Quando, in 257b3-4, lo Straniero distingue la contrarietà dalla differenza, egli si riferisce - correggendolo - proprio a quanto detto dal sofista nella sezione aporetica sull’immagine. Inteso come contrario dell’essere - ed è così che lo pensavano Parmenide e il sofista (Marcos de Pinotti, 2005: 237-268) - il non essere era inteso come nulla, e dunque come impensabile e indicibile (239a5-6). Ora, invece, inteso come differenza dall’essere,[28] esso si configura come il darsi dell’essere alla percezione degli umani non direttamente, non chiaramente, non veritieramente, ma sotto falsa sembianza.
Lo Straniero dice (259b) che, partecipando del diverso in relazione agli altri generi, anche l’essere può configurarsi come non essere, la qual cosa trova una sua risonanza nella prima pagina del dialogo (216c-d), ove si diceva che i filosofi, quelli che sono realmente tali, possono assumere le apparenze di sofisti, proprio come i sofisti possono assumere quelle di filosofi;[29] e dunque non soltanto il non essere può apparire essere, ma vale anche l’inverso[30]: che l’essere possa apparire non essere. Ma qual è il luogo in cui avvengono queste confusioni di nature?
Nell’analisi dedicata alla koinonia ton genon (Marcos de Pinotti. 1995:173-194) si rende ragione, con un riferimento eidetico, di questi possibili scambi di identità tra le nature, e il luogo di questi scambi viene identificato nell’opinione degli umani,[31]condizionata dall’ignoranza e dalla prospettiva.
Se non esistesse il non essere inteso come qualcosa che si oppone all’essere dell’essere, allora tutte le percezioni sarebbero percezioni dell’essere, e dunque sarebbero vere e non esisterebbe la falsità. Ora che invece è stata dimostrata l’esistenza dell’eidos tou me ontos (258d) . inteso come qualcosa che intesse con l’essere una relazione di opposizione - comprendiamo come possano esistere le apparenze, cioè gli errori della percezione dovuti all’ignoranza.[32]
All’inizio del dialogo si faceva riferimento all’esistenza di un’arte capace di allestire queste apparenze, le quali, quando vengono create col proposito preciso di ingannare (i phantasmata di 234e), possono anche essere chiamate finzioni: apparenze che modificano le opinioni di coloro a danno dei quali vengono allestite.
Nella parte conclusiva della loro lunga ricerca, nella quale sono ravvisabili i legami con la parte introduttiva del dialogo, i nostri interlocutori sottolineano l’importanza del μείγνυσθαι ἕτερον ἑτέρῳ, la mescolanza di una cosa con l’altra (260a2-3). Se l’opinione e il discorso non potessero mescolarsi con il non essere, infatti, tutta la nostra indagine sarebbe stata vana e il sofista non potrebbe essere tacciato di falsità. Potendo invece esso mescolarsi con l’opinione e con il discorso, si originano l’opinione e il discorso falsi: opinare, infatti, o dire le cose che non sono, questo è il falso (260c).
Il fatto che il falso non esisterebbe se il non essere non si mescolasse con l’opinione e con il discorso significa che il falso abita solo l’opinione e il discorso, che questi sono gli uniciluoghi in cui può annidarsi l’apparenza.
Questo punto ritorna in 264a, ove si definiscono il pensiero, come il dialogo dell’anima con sé stessa (264a), l’opinione, come il compimento di un pensiero (264b), e il phainetai, come una mescolanza di sensazione e opinione.
6. Conclusioni
Alla luce di queste acquisizioni, viene ripresa la diairesis lasciata in sospeso: ora che il sofista è risultato essere un produttore di immagini, è l’arte produttiva che deve essere divisa.
La mimesis è infatti una poiesis, “ma di immagini, e non di ciascuna delle cose stesse” (265b).
Questa definizione della mimesis è forse la frase più importante dell’intero dialogo, perché distingue le cose stesse (l’essere) dalle loro immagini false (il non essere).
Esistono due tipi di produzione: la produzione di immagini e la produzione di cose, e ciascun tipo di produzione può essere umano o divino.
Ciascuna produzione, divina e umana, delle cose stesse è seguita da immagini, che sono derivate dalle cose, ma non sono altrettanto reali (266b7). Ognuna delle immagini segue (παρέπεται, 266b; παρακολουθοῦν, 266c) ciò di cui è immagine (Palumbo, 1994; Vasiliu, 2014:44-95). Al sofista, riconosciuto come un’immagine del sapiente, spetterà un nome derivato da quello del sapiente (268c2). Nella definizione del sofista, alla fine del dialogo, brillano i riferimenti al mondo delle immagini illusorie, che mostrano la natura degli impedimenti alla comprensione, la quale si configura proprio come superamento delle immagini illusorie e coglimento di ciò che è.[33]
Per dimostrarlo, è stato necessario ripensare la metafisica della falsità non come semplice differenza, ma come apparenza: come scarto tra l’essere e la sua immagine, che all’essere assomiglia (Porter, 2010:75).
Alla luce di queste considerazioni è possibile comprendere il sottotitolo del dialogo (Perì tou ontos) trasmesso dalle fonti antiche[34], sottotitolo che riguarda la natura dell’essere intesa come una natura strutturata e stratificata, che presenta al suo interno varie differenze, che vanno dall’ “essere che veramente è” (248e7), fino alla natura del phantasma, che confina con l’evanescenza del nulla e rappresenta il limite di ciò che è.
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Nota