Riassunto: Melchior Cesarotti è stato uno dei protagonisti illustri che si sono occupati della Questione della Lingua nel tempo dell’Illuminismo Italiano. Facendo una lettura attenta di tipo close reading utilizzando il metodo dell’analisi del discorso, questo articolo ricalca le tesi centrali e le motivazioni di Cesarotti e dimostra la loro importanza nel processo dello sviluppo di una lingua nazionale italiana. Il merito del Cesarotti non è di avere superato il linguaggio delle tre corone fiorentine come modello di lingua scritta, ma di avere introdotto la libertà di arricchirlo con termini nuovi, derivanti dalla parte nobile di tutti gli idiomi italiani e stranieri.
Parole chiave: CesarottiCesarotti,Saggio Sulla Filosofia Delle LingueSaggio Sulla Filosofia Delle Lingue,Questione Della LinguaQuestione Della Lingua,Storia Della Lingua ItalianaStoria Della Lingua Italiana,Lingua NazionaleLingua Nazionale.
Resumo: Melchior Cesarotti foi um dos protagonistas ilustres que trataram da chamada Questione della Lingua no tempo do Iluminismo Italiano. Realizando uma leitura atenta do tipo close reading e utilizando o método da análise do discurso, este artigo resume as teses centrais e as motivações de Cesarotti e demonstra a sua importância no processo do desenvolvimento de uma língua nacional italiana. O mérito de Cesarotti não é de ter superado a linguagem das tre corone fiorentine como modelo da língua escrita, mas sim de ter introduzido a liberdade de enriquecê-la com novos termos que derivassem das partes nobres de todos os idiomas italianos e estrangeiros.
Palavras-chave: Cesarotti, Saggio Sulla Filosofia Delle Lingue, Questione Della Lingua, História Da Língua Italiana, Língua Nacional.
Abstract: Melchior Cesarotti was among the most famous protagonists who contributed to the Questione della Lingua during the Italian Enlightenment. Through a close reading process, using the method of discourse analysis, this paper aims to retrace the central theses and the motivations of Cesarotti, and to show their importance within the process of the development of a national italian language. The merit of Cesarotti was not to have excelled the language of the tre corone fiorentine as model of written language, but to have come up with the freedom to enrich the italian language with new terms, deriving from the noble part of all idioms spoken in the Italian territory.
Keywords: Cesarotti, Saggio Sulla Filosofia Delle Lingue, Questione Della Lingua, History Of The Italian Language, National Language.
Artigos
Sul saggio sulla filosofia delle lingue di Melchior Cesarotti1
On Melchior Cesarotti’s saggio sulla filosofia delle lingue
Received: 01 May 2018
Accepted: 20 September 2018
Studiando la linguistica italiana, e soprattutto la storia della lingua italiana con la sua assai discussa questione della lingua, si vede apparire qua e là il nome di uno studioso del Settecento, che è introdotto nelle diverse “storie della lingua italiana” molto spesso in modo superficiale2, tanto che si sa su di lui quasi soltanto il fatto che ha contribuito alla questione della lingua.3 L’accesso alle sue opere è scarso e difficile, ragione per cui abbiamo scelto di citare per esteso, come si vede nelle note a piè di pagina.
Stiamo parlando del padovano Melchior (o Melchiorre) Cesarotti, che, nato nel 1730 e morto nel 1808, fu professore di retorica e di lingua greca ed ebraica. Scrisse il suo Saggio sulla filosofia delle lingue, di cui vuole trattare questo articolo, nel 1785. La versione più vecchia che abbiamo trovato è quella del 1800, anno in cui il Saggio fu pubblicato nella sua stesura rivista e definitiva. L’edizione di Sansoni del 1943, da noi usata, è coincidente con quella del 1800, salvo qualche variazione grafica. A causa del Saggio sulla filosofia delle lingue, il Cesarotti merita senz’altro di essere considerato un lucido proto-sociolinguista.
Con il Cesarotti ci troviamo in un periodo in cui la letteratura italiana, già da quasi 200 anni, non poteva più vantare di avere un letterato di grande prestigio.4 Lo spazio della lingua italiana nella letteratura internazionale del Settecento era quasi limitata ai libretti delle opere e alle commedie dialettali. Soprattutto nell’ambito della scienza, dopo Galilei, non si trovavano pubblicazioni degli italiani in italiano, e la situazione nelle lettere - soprattutto nel rapporto con la feconda Francia -, a parte Vico, non fu molto migliore: “La prosa italiana non è […] giunta all’apica di gloria conseguito dalla poesia.” (SCHIAFFINI, 1937, p. 289).
Nell’opinione del Cesarotti tutto questo ebbe in gran parte a che fare con la lingua letteraria antiquata, dovuta a una politica linguistica molto rigida. Che la lingua volgare, usata quasi esclusivamente dagli scrittori di certe regioni dell’Italia di oggi, ebbe una patina di parole obsolete, che la rese inadeguata per servire a tutti i bisogni degli scrittori, fu una convinzione di tanti intellettuali del Settecento.5 Confrontato con il fatto che pure gli scrittori avvertissero di scrivere in una lingua morta, che impediva di esprimere le proprie idee, formulate in un’età moderna che non aveva molto in comune con il Trecento medievale, quasi unica fonte della lingua volgare, Cesarotti presentò le sue proposte con lo scopo di combattere le opinioni che “impediscono costantemente il miglioramento della lingua“ (CESAROTTI, 1943, p. 7), la qual cosa credette necessaria per il progresso illuminista e la modernizzazione della società italiana. “La diffusione della mentalità e della cultura illuministica, con le loro esigenze di razionalità, di chiarezza, di efficacia, di divulgabilità, aveva fatto avvertire in maniera sensibile la inadeguatezza della prosa letteraria tradizionale” (PUPPO, 1969, p. 13).
Il Saggio sulla filosofia delle lingue consiste in quattro parti, di cui saranno prese in considerazione la prima e la quarta per dare un’idea concreta delle riflessioni di partenza e per presentare le proposte e conclusioni definitive di Cesarotti riguardo alla questione della lingua. La prima parte, intitolata “Si confutano alcuni pregiudizj (sic) che regnano intorno le lingue”, nomina sei errori, ossia false opinioni, che circolavano e circolerebbero ancora fra i dotti italiani dal Trecento, e soprattutto nel Cinquecento, fino al Settecento. Seguono poi queste opinioni e le rettificazioni del Cesarotti.
In primo luogo si suddividono le lingue in due campi: le lingue di alto prestigio, che si parlano nelle nazioni di alta cultura; e il resto delle lingue, che sono considerate “barbare”.6 Qui, il Cesarotti ancora non parla dei dialetti o delle zone privilegiate dell’Italia stessa. La risposta del Cesarotti è che “[n]iuna lingua originariamente non è né elegante né barbara, niuna non è pienamente e assolutamente superiore ad un’altra: poiché tutte nascono allo stesso modo“ (CESAROTTI, 1943, p. 8). Le lingue, dice il Cesarotti, sono sempre formate dal popolo.7 Sembra che il Cesarotti abbia applicato i principi della rivoluzione francese - si pensi che la prima edizione del suo Saggio fu pubblicata nel 1785, e l’edizione definitiva nel 1800 - alla natura delle lingue: tutte sono uguali e come fratelli abili ad una socializzazione e mescolanza. Per questo il Cesarotti postula che
[...] tutte [le lingue; R.G.] servono ugualmente agli usi comuni della nazion (sic) che parla, tutte sono piacevoli agli orecchi del popolo per cui son fatte, tutte sono suscettibili di coltura e di aggiustatezza […] tutte si vincono e si cedono reciprocamente in qualche pregio particolare, tutte infine hanno difetti che danno luogo a qualche bellezza (CESAROTTI, 1943, p. 9).
Siccome tutte le lingue hanno, per il Cesarotti, in fondo lo stesso valore o almeno la potenzialità di averlo, non ha senso di litigare se l’una o l’altra, se le antiche o le moderne, o se la propria o la lingua straniera8 siano le migliori. (CESAROTTI, 1943, p. 8)
In secondo luogo “si confonde colla lingua il dialetto dominante nella nazione“ (CESAROTTI, 1943, p. 17). Il Cesarotti chiarifica che “[l]a lingua appartiene alla nazione, il dialetto alla provincia. La lingua si forma di ciò ch’ella ha di comune, il dialetto di ciò che v’è di particolare. La lingua scritta è sempre più colta e più nobile di qualunque dialetto.” (CESAROTTI, 1943, p. 17). I fattori distintivi del dialetto da un lato e della lingua dall’altro sono quindi: a) lo spazio regionalmente limitato dell’uso del dialetto; b) che il dialetto è particolare, ossia sui generis, mentre la lingua (nazionale) dovrebbe consistere dalle parti più nobili di dialetti vari; c) che stilisticamente la lingua (nazionale) dovrebbe essere più ricercata in confronto a ogni dialetto.
In terzo luogo “si credono tutti gli altri [idiomi; R.G.] indegni di confluire all’incremento ed abbellimento“ di una certa lingua perché “si suppone che tutte le lingue siano reciprocamente insociabili” (CESAROTTI, 1943, p. 8) e in quarto luogo si crede “che il […] massimo pregio [delle lingue; R.G.] sia la purità” (CESAROTTI, 1943, p. 8), da dove viene il quinto errore, cioè che “si fissa la perfezione d’ogni lingua ad un’epoca particolare per lo più remota, dalla quale quanto più si scosta, tanto più si degrada” (CESAROTTI, 1943, p. 8). Il Cesarotti quindi attacca le sentenze centrali dei classicisti e dei puristi e dichiara come contropostulato: “La lingua scritta dee considerarsi come il compimento e la perfezione della parlata, dovendo essa aggiungere alla regolarità ed alla scelta che le sono proprie, la franchezza e la fecondità che caratterizzano l’altra.” (1943, p. 18) La lingua scritta deriva dalla parlata, cioè originariamente dai dialetti che spesso erano mal visti dai classicisti e dai puristi: perfezionandola, è necessario servirsi della franchezza e fecondità della parlata.9 Contro la pretesa della purezza da parte dei classicisti e dei puristi, il Cesarotti constata che:
[...] [n]iuna lingua è pura […] poiché una lingua nella sua primitiva origine non si forma che dall’accozzamento di varj idiomi […] Questa originaria mescolanza d’idiomi nelle lingue si prova ad evidenza dai sinonimi delle sostanze, dalla diversità delle declinazioni e conjugazioni, dall’irregolarità dei verbi, dei nomi, della sintassi, di cui abbondano le lingue più colte. Quindi la supposta purità delle lingue, oltre che è affatto falsa, è inoltre un pregio chimerico, poiché una lingua del tutto pura sarebbe la più meschina e barbara di quante esistono, e dovrebbe dirsi piuttosto un gergo che una lingua (CESAROTTI, 1943, p. 10).
Da ciò risulta che le lingue non possono essere “insociabili” tra di loro10 e dunque possono d’altra parte anche servire per l’abbellimento e l’incremento reciproco. L’interscambio delle lingue è visto come un tipo di promiscuità produttiva e come mezzo di integrare democraticamente un crescente numero di parlanti dentro un’unione nazionale.
Per capire meglio come il Cesarotti si figura l’origine delle lingue serve una sua nota a piè di pagina, dove spiega:
Finché una famiglia, o una tribù vive isolata, non ha che un idioma povero, e pressoché un gergo. Pochi nomi, e molto linguaggio d’azione bastano a‘ suoi scarsi bisogni […] Convien che molte tribù s’accostino insieme e formino un popolo, perché ne risulti una vera lingua. Quindi ella fin dal suo nascere è una mescolanza d’idiomi talora dissonanti e discordi. (CESAROTTI, 1943, p. 10, nota a piè di pagina 1)
La purezza quindi non si può trovare nel Trecento11 ma, semmai, in un periodo non documentato con mezzi di registrazione, quindi molto prima dell’invenzione della scrittura. Il Cesarotti enfatizza che il volgare, che presso i puristi è creduto l’essenza della purezza della lingua volgare d’Italia, non sia che un mero risultato della storia delle lingue, una confusione di tanti idiomi.12 L’illusione della purezza e l’adorazione della lingua letteraria del Trecento non darebbero fastidio al Cesarotti se non ne risultasse che “s’immagina che [la lingua; R.G.] giunta a quell’epoca [cioè al Trecento; R.G.] […] sia ricca abbastanza per supplire a tutti i bisogni dello spirito”, con l’effetto che “si declama contro qualunque innovazione, e si pretende che la lingua possa e debba rendersi in ogni sua parte inalterabile” (CESAROTTI, 1943, p. 8). È questo il grande danno che i puristi causano: sbagliando nella convinzione che la lingua classica già basti per soddisfare tutti i bisogni degli scrittori - perfino quelli degli scrittori moderni e innovatori -, non consentono delle novità linguistiche necessarie per le innovazioni in tanti campi della vita, come vedremo più tardi.
In sesto luogo, molti studiosi, e soprattutto l’Accademia della Crusca, errano - secondo il Cesarotti - quando dichiarano che “i termini […] non hanno veruna bellezza intrinseca, ma tutto il loro pregio dipende dal trovarsi registrati in un qualche libro canonico” (1943, p. 8). Secondo il Cesarotti esiste una bellezza intrinseca delle parole che le persone e particolarmente gli scrittori con “orecchio, sentimento, e giudizio proprio” (1943, p. 12) sono capaci di trovare.13
Il problema che il Cesarotti ha con i grammatici è quello dei loro principi14 e dell’illegittima autoreferenzialità nel loro processo di stabilire le parole e la sintassi accettabili per fare parte del Vocabolario della Crusca o delle grammatiche. Verso la fine della prima parte il Cesarotti riassume il processo della codificazione della lingua volgare nel Cinquecento e le sue conseguenze. Tutto comincia quando le opere di alcuni scrittori di genio “diventano soggetto, non di esame, ma di adorazione. Non basta che le loro parole, i loro tornj siano felici e convenienti; devono essere gli ottimi fra tutti i possibili, anzi gli unici assolutamente […] quindi se ne formano canoni” (CESAROTTI, 1943, p. 17). Gli adepti di questi scritti e scrittori quindi creano un meccanismo letterario regolativo assoluto. Il problema è che nonostante si riferiscano agli scritti spesso creativissimi e ai capolavori, bloccano quasi ogni innovazione linguistica quando trattano quelle opere letterarie non soltanto come esemplari ma come ideali assoluti e danno come regola incontestabile il fatto che non si deve differire dalle espressioni da loro usate. Come se fosse impossibile che anche un’altra epoca, e non solo il Trecento, fosse capace di offrire un proprio stile. Purtroppo, i grammatici praticamente si vantarono della loro mancanza di creatività. Ciò vuol dire che praticavano un conservatorismo linguistico assoluto, ponendo in pratica le loro regole rigorosamente, quasi senza eccezione.15 “Quindi negli scritti predomina l’aria imitativa, la lingua non ha che un colore ed un tuono, e ad onta della sua facoltà vitale e generativa, diventa sterile e morta.” (CESAROTTI, 1943, p. 17).
Il Cesarotti polemizza contro i grammatici che mantengono una lingua artificialmente in vita, impedendo così ogni necessaria modernizzazione della lingua italiana per quasi 300 anni. Tenta soprattutto di confutare filosoficamente la ragionevolezza della prassi dei grammatici di fare derivare tutta la lingua attuale da un uso del passato, cioè dall’uso dei grandi scrittori del Trecento.
La lingua scritta, nella scelta delle parole e delle espressioni non dee nemmeno aderir ciecamente all’uso degli scrittori approvati, né farsi una legge di non dipartirsi dal loro esempio: perché non tutti gli scrittori furono ugualmente colti, riflessivi, diligenti in fatto di lingua (CESAROTTI, 1943, p. 18-19).
Partendo da questo fatto, il Cesarotti non soltanto sostiene che non tutti gli scrittori approvati dall’Accademia della Crusca possedevano l’arte di scrivere bene, ma, implicitamente, mette in dubbio il gusto dell’Accademia della Crusca per quanto riguarda la scelta di alcuni scrittori. Il Cesarotti enfatizza come anche gli scrittori canonici non avrebbero voluto che le loro opere avessero menomato la libertà della lingua: “gli scrittori originali non intesero né di ricever la legge né di darla agli altri, ma di far uso della comun libertà e del loro proprio giudizio, senza pretender di togliere lo stesso diritto a quelli che verrebbero dopo” (CESAROTTI, 1943, p. 19).
La lingua deve avere la libertà di adattarsi “ai bisogni dello spirito e della lingua.” (CESAROTTI, 1943, p. 19) Invece, che cosa fanno i grammatici? “[N]iegano la cittadinanza ad una folla di vocaboli moderni […] per la sola ragione che sono stranieri, o non prima usati.” (CESAROTTI, 1943, p. 19) Per questo l’uso (letterario) non deve essere mai l’unico e decisivo criterio di una lingua scritta, perché altrimenti non ci sarebbero delle innovazioni, perché l’uso deriva la sua autorità soltanto dal passato e perché ogni nuova parola (oppure ogni nuovo significato di una parola già esistente) quando appare o si presenta per la prima volta non avrebbe come fondo di legittimazione la sua storia e quella del suo uso. Paradossalmente, dunque, non soltanto i classicisti e puristi impediscono le innovazioni linguistiche, ma altrettanto lo fanno quelli che giudicano una lingua soltanto dalla prospettiva dell’uso - come fece per esempio il Manzoni che non prese abbastanza in considerazione il fatto che “[l]a lingua scritta non dee ricever la legge assolutamente dall’uso volgare del popolo.” (CESAROTTI, 1943, p. 18) L’uso, secondo il Cesarotti, “deve dominar nella lingua parlata, non nella scritta”, perché “[s]e l’uso dovesse prendersi per norma verrebbero ad autorizzarsi tutte le sconcordanze, le irregolarità, e le storpiature della pronunzia” (CESAROTTI, 1943, p. 18), da ciò risulterebbe anche un conflitto dei vari usi. - Il Cesarotti critica anche il fatto che mentre i grammatici venerano gli scrittori classici che hanno coniato termini nuovi, fanno “per qualche strana metamorfosi ciò ch’era un merito negli antichi […] un delitto nei nostri” (CESAROTTI, 1943, p. 20), giustificando questo paradossale comportamento con il richiamo all’epoca e alla provincia a cui appartenevano.16
Nella terza parte del Saggio Cesarotti spiega che gli scrittori moderni possono coniare termini nuovi sotto le seguenti promesse:
Quando un termine è conveniente all’idea, quando rappresenta vivamente l’oggetto o colla struttura de’ suoi elementi, o con qualche somiglianza o rapporto; quando inoltre è ben derivato, analogo nella formazione, non disacconcio nel suono, di qualunque autore egli siasi, a qualunque data appartenga, sia esso parlato, o scritto, o immaginato, sarà sempre ottimo, e da preferirsi ad altri insignificanti, strani, disadatti, che non abbiano altra raccomandazione che quella del Vocabolario. (CESAROTTI, 1969, p. 68)
Inoltre il Cesarotti sottolinea che non fu la lingua nazionale che gli scrittori classici usarono ma soltanto il dialetto dominante. Per quanto riguarda il predominio di un dialetto, il Cesarotti ci presenta un inventario dei suoi benefici e svantaggi:
Esso giova 1.° perché fissa in qualche modo l’anarchia della pronunzia; 2.° perché accerta un sistema di costruzione, essendo meglio finalmente una sintassi, qualunque siasi, che cento; 3.° perché comincia a render la lingua più polita, invitando i più colti ad esercitarvisi; 4.° perché ne facilita l’intelligenza agli stranieri, a cui basta d’apprender un solo dialetto per profittar di ciò che in esso si scrive, e per intendere, ed esser inteso dalla classe più ragguardevole (CESAROTTI, 1943, p. 13)17.
Ciò che cominciava come una raccomandazione ossia una giustificazione dell’uso di un dialetto dominante come lingua nazionale (scritta), finisce in rifiutare la prassi di imporre un dialetto a una nazione, perché esso
pregiudica per molti capi alla lingua. 1.° Perché abbandona al volgo, e condanna all’incoltura e al dispregio altri dialetti non punto inferiori ad esso, e forse talor più pregevoli; 2.° impoversice l’erario della lingua nazionale, defraudandola d’una quantità di termini e di espressioni necessarie, opportune, felici, energiche, che si trovano negli altri dialetti; 3.° […] introduce le simpatie e le antipatie grammaticali; 4.° autorizza le irregolarità e i difetti già preesistenti in quel dialetto […] e produce false nozioni d’urbanità e di barbarismo, deducendo le une e le altre non dalla ragione, ma dall’uso (CESAROTTI, 1943, p. 13-14).
Primariamente dunque il dialetto predominante sarebbe un’ingiustizia nei confronti degli altri dialetti, secondariamente non offre al popolo di una nazione tutte le possibilità di esprimersi, terzo si fa un modello di lingua autoritaria senza prendere come base dei giudizi razionali. È interessante ragionare, partendo da queste osservazioni del Cesarotti, sulla natura delle grammatiche e dei loro effetti su noi stessi. Perché rivela che gran parte dei nostri giudizi di correttezza e incorrettezza di un’espressione, ossia la capacità di esprimerci in una certa lingua - particolarmente anche nella propria madrelingua - non sono basati su altro che su una simpatia e antipatia estratte dall’uso, cioè su come abbiamo imparato la lingua, ma anche soprattutto sulle simpatie e antipatie dei grammatici di cui ci serviamo come padroni di una lingua corretta.
La quarta e ultima parte del Saggio sulla filosofia delle lingue è intitolata “Della lingua italiana, e dei modi d’ampliarla, e perfezionarla”. Come già suggerisce il titolo, è qui che Cesarotti si occupa della lingua italiana e non più delle lingue in generale. Vi formula il postulato di una lingua comune a tutta l’Italia ricorrendo a un comune destino passato, condiviso dall’Italia intera.18
Sebbene la lingua nazionale sia più nobile dei dialetti, sono questi ultimi la condizione sine qua non e la base di ogni lingua.19 Linguisticamente interessante è che, sebbene il Cesarotti ormai conosca bene la linea linguistica “Massa-Senigallia” (nota, meno correttamente, come “Linea La Spezia-Rimini, che divide le “lingue romanze dell’est” da quelle “dell’ovest”), sostiene che i vari dialetti d’Italia hanno non soltanto una medesima base, ma anche che i cittadini si potrebbero capire parlando ognuno nel proprio dialetto20 - un’affermazione complicata, visto che ancora oggi, nei tempi dei mass media, con la loro tendenza accomunante, un italiano del nord ha bisogno dei sottotitoli per capire quello che viene detto in un dialetto meridionale. Poi, a che cosa servirebbe una lingua comune normativa se gli italiani in ogni caso si capissero utilizzando ciascuno il proprio dialetto? Sarebbe dunque la lingua nazionale soltanto un desiderio degli stranieri per poter comunicare con un qualsiasi italiano? Certamente no. Come mai allora il Cesarotti può parlare di una base comune di tutti i dialetti italiani e di soltanto poche e piccole cose che li distinguono?21 I dialetti siciliani, per esempio, sintatticamente e lessicalmente, non sono più vicini all’italiano scolastico o a quello in cui hanno scritto le tre corone fiorentine che lo spagnolo o il portoghese. Sarebbe da investigare se il Cesarotti abbia conosciuto la maggior parte dei dialetti soltanto nella loro forma scritta, e se, perciò, abbia verificato la tesi che in un qualsiasi dialetto d’Italia si nasconda una specie di italiano standard e comune. Altrimenti rimarrebbe la possibilità - se pensiamo che, per il Cesarotti, lingua nazionale sia quella che è parlata all’interno d’una certa unità politica ossia in una nazione (CESAROTTI, 1943, p. 11) - che anche tutti gli altri dialetti dei paesi romanzi siano potenzialmente italiani, soltanto che non lo diventarono perché non fecero parte della nazione italiana. È probabile che il tipo di dialetto da cui il Cesarotti parte non sia un dialetto qualsiasi, ma soltanto quella parte di dialetto che lui ritiene colto e che per essere colto è inteso da tutte le persone colte di tutta l’Italia. Ed è soltanto questa parte del dialetto che può contribuire a una lingua nazionale. Quando dice che tutti i dialetti hanno potenzialmente la possibilità di contribuire a una lingua comune usata nella scrittura, sono menzionati soltanto i dialetti purgati - non come li si parlano nei ceti non colti.
[N]iun dialetto popolare, come precisamente si parla, può prendersi come modello di lingua scritta; niuno ve n’ha che possa essere correntemente inteso da un capo all’altro d’Italia; niuno finalmente che purgato dagl’idiotismi plebei, emendato colle regole d’una giudiziosa grammatica, e maneggiato da scrittori illustri non possa contribuire alla ricchezza e all’ornamento della lingua scelta d’Italia, che sola deve dominare nelle scritture [rilievo R.G.] più nobili (CESAROTTI, 1943, p. 125).
Per non guastare quella potenzialità di cui ho parlato sopra, il Cesarotti è contro il predominio assoluto di un dialetto, anche se riconosce in campo letterario le superiori qualità dell’idioma toscano, e soprattutto del fiorentino.22
La ragione per cui i volgari scritti sono più nobili e più degni dei volgari parlati è che “i più svegliati spiriti” li civilizzano “scegliendo come meglio potevano l’ottimo da tutti gl’idiomi, formarono il primo fondo della lingua italiana più nobile, che doveva esser quella degli scrittori.” (CESAROTTI, 1943, p. 126) La lingua nazionale quindi, come concentrato degli ormai purgati idiomi parlati, è la forma più colta di tutte. Questa lingua nazionale, nel nostro caso l’italiano, è, secondo Cesarotti, la medesima che già Dante descrisse chiamandola:
[...] aulica e cortigiana, perché nelle corti [la; R.G.] usa la parte meglio educata, e più colta delle nazioni, la quale si fa uno studio di distinguersi nel favellare e nello scrivere con politezza. Con ciò Dante venne a rispondere anticipatamente all’obiezione del Bembo, che questa specie di lingua non si parla in veruna città, poiché la lingua scritta servendo, come abbiamo osservato altrove, ad usi diversi, non è necessario che sia precisamente la stessa colla parlata, come non lo fu forse mai presso verun popolo, né lo è nemmeno tra i Fiorentini medesimi, bastando che sia intesa comunemente dalla nazione (CESAROTTI, 1943, p. 130).
Il Cesarotti riprendendo l’idea di Dante della lingua cortigiana, che è la lingua che usano gli scrittori e gli uomini più colti, indebolisce le obiezioni del Bembo e spiega l’esigenza di una lingua scritta (ma non soltanto letteraria23) che venga intesa dalla nazione intera.
Accettando il primato relativo dell’idioma delle tre corone fiorentine, il Cesarotti finisce nell’antinomia che nonostante si tratti di un colto idioma italiano, non è inteso comunemente da tutti gli italiani - come ha sostenuto prima - ma che il linguaggio dei grandi scrittori soltanto “s’apprende collo studio” (CESAROTTI, 1943, p. 131). Se, però, tutti gli italiani hanno bisogno dello studio per capire quel linguaggio, è confermato non soltanto che la lingua italiana non fu mai il dialetto fiorentino - perché derivava sempre da un fondo comune ai colti scrittori d’Italia -, ma anche che questo italiano ha la caratteristica principale di una lingua morta. Diciamo “antinomia” perché in realtà il sistema e le tesi del Cesarotti non avrebbero dovuto fallire: questo “fallimento” è dovuto al fatto che egli prende come base un linguaggio passato, che non è più parlato o non è mai stato parlato pienamente in questa forma, mentre le sue osservazioni e tesi valgono soltanto sul piano sincronico ma non diacronico. La parola “studio”, usata dal Cesarotti senza ulteriori spiegazioni, indica che è necessaria la conoscenza di un altro idioma per acquistare quella delle tre corone fiorentine. Diciamo questo perché in senso stretto ogni idioma ha bisogno di uno studio per essere acquisito, anche la madrelingua, ossia l’idioma dell’infanzia, soltanto che di solito questo processo iniziale non viene chiamato “studio”.
Il merito del Cesarotti non è di avere superato il linguaggio delle tre corone fiorentine come modello di lingua scritta, ma di avere introdotto la libertà di arricchirlo con termini nuovi, derivanti dalla parte nobile di tutti gli idiomi italiani e stranieri, per “soddisfare ai bisogni progressivi e indefinibili di chiunque scrive, sente, e ragiona.” (CESAROTTI, 1943, p. 133) Le intenzioni del programma linguistico del Cesarotti sono dunque radicalmente diverse da quello dei settecentisti e ottocentisti che volevano soltanto correggere qualche parte del Vocabolario della Crusca.
Non si tratta d’un aumento precario di vocaboli, si tratta di libertà; ma d’una libertà permanente, universale, feconda24, lontana dalle stravaganze, fondata sulla ragione, regolata dal gusto, autorizzata dalla nazione in cui risiede la facoltà di far leggi. È tempo ormai che l’Italia si affranchi per sempre dalla gabella delle parole bollate (CESAROTTI, 1943, p. 144).
Riflettendo sulle lingue, il Cesarotti utilizza un approccio assai moderno, quando, come istanza costitutiva della lingua, parte dagli scrittori come esseri che pensano e riflettono sull’uso della propria lingua e che hanno ognuno i propri bisogni, che si devono rispecchiare nella lingua: una lingua che deve avere la prerogativa di adattarsi ai bisogni degli scrittori.25
Italiani, voleva io dire, che aspirate al titolo d’illustri scrittori […], non v’è eloquenza senza stile né stil senza lingua […] voi non sarete piú schiavi né dei dizionari né dei grammatici, non sarete né antichisti né neologisti, né francesisti né cruscanti, né imitatori servili né affettatori di stravaganze; sarete voi; voglio dire italiani moderni che fanno uso con sicurezza naturale d’una lingua libera e viva e la improntano delle marche caratteristiche del proprio individual sentimento (CESAROTTI, 1969, p. 154-155)26.
Per quanto riguarda l’influenza del Cesarotti alla questione della lingua, va detto che i suoi scritti “[…] furono riconosciuti nel loro doppio valore, rappresentativo e originale, durante l’Ottocento, dal Manzoni e soprattutto dai teorici di educazione idealistica, che ancor oggi vedono il Cesarotti sul grande cammino dal Vico al De Scantis.” (MARZOT, 1961, p. 2144). Il Manzoni però respinse “[…] la dottrina metafisica del Cesarotti, giungendo alla conclusione di un moderato empirismo: ‘il buon uso’ nella sfera della fiorentinità.” (MARZOT, 1961, p. 2165).