SINTESI: Muovendo dal valore strategico-strumentale delle infrastrutture e dato conto dell'attualedeficitinfrastrutturale in Italia, l'articolo analizza alcuni aspetti critici del settore. Il primo è quello della difficoltà di semplificare procedimenti complessi e costellati da interessi: sul punto, la via tracciata dall'ordinamento è quella del ritorno alla normativa "minimale" delle direttive europee. La seconda criticità è, invece, rinvenuta nelle difficoltà di reperire le risorse necessarie per promuovere gli investimenti, che hanno spesso consigliato all'amministrazione di definire dei PPP per beneficiare di capitali privati. Considerando che grazie alNext Generation EUl'Italia disporrà di ingenti finanziamenti europei, le risorse per la realizzazione delle opere pubbliche non mancheranno: per questo, lo studio intende valutare se il privato potrà rivestire ancora un ruolo nel progetto di rilancio infrastrutturale del Paese.
Parola chiave: semplificazionesemplificazione,PPPPPP,finanziamenti europeifinanziamenti europei,potenziamento infrastrutturalepotenziamento infrastrutturale.
ABSTRACT: This paper analyzes some critical aspects in view of the strategic role of infrastructures and considering its current deficit in Italy. The first aspect is the difficulty of simplifying complex and interest-ridden procedures, a point on which the Italian legal system's path is to return to the logic of the "minimum" regulatory frame in the European directives. The second critical aspect is to be found, on the contrary, in the difficulties of raising the necessary resources to promote investments, for which the Administration has turned to PPPs as an instrument to benefit from private capital. Thanks to theNext Generation EU,Italy will have significant European funding, so it is expected that there will be no shortage of resources for the construction of public works. As a result, this study aims to assess whether the private sector will still be able to play an important role in the country's infrastructure revitalization project.
Keywords: Simplification, PPP, European Financing, Infrastructure Development.
RESUMEN: Partiendo del valor estratégico-instrumental de las infraestructuras y dado el actual déficit de las mismas en Italia, el artículo analiza algunos aspectos críticos en este sector. El primero consiste en la dificultad de simplificar procedimientos complejos y plagados de intereses; punto en el que el camino trazado por el ordenamiento jurídico italiano es regresar a la lógica de la regulación "mínima" de las directivas europeas. El segundo aspecto crítico se encuentra, por el contrario, en las dificultades para recabar los recursos necesarios destinados a promover las inversiones, para lo cual la Administración ha acudido a las APP como instrumento para beneficiarse del capital privado. Gracias a laNueva Generación UE,Italia contará con una importante financiación europea, de manera que se espera que no haya escasez de recursos para la construcción de obras públicas. El presente estudio pretende por ende evaluar si el sector privado aún podrá desempeñar un papel importante en el proyecto de revitalización de la infraestructura del país.
Palabras clave: simplificación, APP, financiación europea, mejora de la infraestructura.
Artículos
Alcune considerazioni in tema di regolazione dell'infrastrutture: crisi, semplificazioni, finanziamenti e ruolo dello stato-apparato1
Select Thoughts on Infrastructure Regulation: Crises, Simplification, Resources and the Role of the State
Algunas consideraciones relativas a la regulación de infraestructura: crisis, simplificaciones, financiamiento y papel del Estado
Received: 10 February 2021
Revised document received: 10 April 2021
Accepted: 10 May 2021
In forza di una crisi governativo-istituzionale che ha doppiato quella pandemica, il problema del rilancio infrastrutturale del Sistema Paese è divenuto sempre più centrale nel dibattito pubblico italiano e, a seguito del recente insediamento del nuovo governo, ha assunto, anche per ragioni esogene (infrapar. 3), una più marcata formalizzazione nell'agenda politica.
A spiegare l'importanza e l'urgenza del tema concorrono certamente ricorrenti ragioni di natura politica, di rappresentanza e, assieme, di soddisfazione di una parte della base elettorale di riferimento4. Eppure, la tentazione (che talvolta diviene tendenza) a risolvere l'allarme nel mero compiacimento di questa o quella compagine elettorale5, banalizzando, costruttori edili, imprese, etc. - tradisce l'effettività e la gravità del problema.
L'infrastruttura, infatti, non è rilevante in sé e di per sé, cosí come - ed è questo il punto - ildeficitinfrastrutturale è altro dalla mera assenza o precarietà di beni immobili… la ragione? La ragione ha matrici essenzialmente teoriche e si fonda sull'autorevole affermazione secondo cui "gli approntamenti infrastrutturali sono opere pubbliche" ma "[n]on è vero l'inverso"6 , si badi, non si tratta di uncalembour,non fosse altro perché le implicazioni sono concretissime.
Individuati, infatti, nella dinamicità e nella strumentalità i tratti caratterizzanti e differenziali del concetto di infrastruttura - "[s]e il concetto di opera pubblica richiama l'idea statica del bene immobile, il concetto di infrastruttura, invece, implica quello più dinamico di bene strumentale" - la dottrina ha poi colto la vera essenza del problema: l'infrastruttura rileva "in ragione della funzione che la stessa può e deve svolgere: le infrastrutture, infatti, sono strumentali per lo più alla funzionalità di un luogo, all'approvvigionamento delle risorse, agli scambi tra le merci, alla mobilità e agli spostamenti delle persone"7.
Il retroterra culturale di queste affermazioni è peraltro considerevole, ancorché non necessariamente corrispondente sotto il profilo ideologico. Una sintetica ma importante traccia di quelbackgroundè fornita da Giacinto Della Cananea in un saggio "inaugurale" della RivistaMunus,laddove le divergenti impostazioni di Adam Smith e di John Maynard Keynes sono fatte convergere, per l'appunto, attorno all'importanza e alla centralità del ruolo dello Stato nell'approntamento delle infrastrutture utili al benessere della società8. Ma in quella sede a trovare spazio è anche l'idea, qui rilevantissima, secondo cui il valore degli investimenti pubblici dipende "dalla misura in cui le infrastrutture e le reti […] recano un apporto effettivo al progresso tecnico e civile": ritorna, cosí, attraverso il tema dell'efficienza della spesa (infrapar. 3), la concezione funzional-strumentale delle infrastrutture.
Parrà quindi chiaro che parlare di infrastrutture - siano esse strategiche (in senso giuridico)9o meno - significa discorrere di sostegno all'economia, di competitività del Paese, di libertà e di diritti costituzionalmente tutelati (movimento, salute, educazione, etc.), nonché, con una certa corrispondenza, di servizi pubblici10- della loro qualità11, della continuità dell'erogazione e della economicità della gestione12- e, in definitiva, di coesione sociale-e-conomica13; correlativamente, affrontare il problema infrastrutturale significa trattare di crisi: crisi al plurale, queste potendo investire ciascuno degli aspetti ora menzionati.
Sotto questo profilo, uno degli esempi più recenti e maggiormente significativi della polifunzionalità delle infrastrutture è portato dalla disciplina delle reti TEN T, ovvero della rete transeuropea dei trasporti. Particolarmente emblematico, è il considerando n. 2, reg. Ue n. 1315/2013, laddove, intercettata la connessione con igoalsdella strategia Europa 2020, si afferma che la pianificazione, lo sviluppo e il funzionamento delle reti TEN T contribuiscono al raggiungimento di fondamentali obiettivi dell'Unione, quali "il buon funzionamento del mercato interno e il rafforzamento della coesione economica, sociale e territoriale". Ma non è tutto: l'implementazione della rete transeuropea dei trasporti persegue "tra gli altri, anche gli obiettivi specifici di consentire la mobilità senza ostacoli, sicura e sostenibile delle persone e delle merci e di permettere l'accessibilità e la connettività a tutte le regioni dell'Unione, contribuendo all'ulteriore crescita economica e alla competitività in una prospettiva globale"14. Inutile dirsi che undeficitinfrastrutturale in questo settore comporterebbe molteplici e rilevantissime ripercussioni in negativo su ciascuno di quegli obiettivi (i.e.interessi), tra cui quello, sopra imprecisamente obliterato, della sostenibilità15.
Compresa, quindi, la fisiologia, ovvero la ragione che, per dirla con Giannini, fa dell'approntamento delle infrastrutture una delle "più antiche attività di disciplina dell'economia svolte dai pubblici poteri"16, rimane da considerare il profilo patologico della vicenda.
L'antichissima attività di approntamento delle infrastrutture, scriveva sempre Giannini negli anni Novanta, "non è mai venuta meno lungo il corso dei secoli;ogginon solo permane, ma ha assunto dimensioni grandissime, sia quantitative che qualitative"17.
L'oggi odierno è molto diverso. Da più parti si lamenta un problema infrastrutturale alquanto diffuso18, seppur differenziato tra il Nord e il Sud del Paese19; ma questa diversità giace, per l'ap punto, sul piano quantitativo e qualitativo, non investendo invece il profilo, per cosí dire, modale: una recente analisi dell'evoluzione delle politiche del settore ha infatti reso "evidente" che l'approntamento delle infrastrutture costituisce ancora "una "attività di disciplina dell'economia" di stretta attualità", per quanto "connotata da una innovativa dimensione sovranazionale e da un multiforme intervento dei pubblici poteri"20.
Dati alla mano, emergono almeno due aspetti degni di nota.
Il primo riguarda la dotazione e l'adeguatezza infrastrutturale. Un recentereportdel World Economic Forum (2020) colloca l'Italia al 18° posto su 141 Stati considerati, con un miglioramento di nove posizioni rispetto all'indagine del 2017-2018, ma con un marcato distacco dai maggiori paesi europei (Paesi Bassi 2i, Spagna 7ª, Germania 8ª, Francia 9ª)21.

La stima conferma il giudizio tendenzialmente negativo formulato in uno studio del 2019 promosso dalla Banca d'Italia, ove, seppur con le dovute cautele (motivate dalla mancanza di uniformità/condivisione delle metodologie di calcolo e dalla soggettività delle valutazioni dei soggetti intervistati), si è affermato che "l'Italia si trova in una posizione non favorevole in termini di quantità e qualità dello stock di infrastrutture, e che la situazione è peggiorata negli ultimi anni relativamente agli altri paesi"22.
Il secondo aspetto attiene, invece, alle fonti di finanziamento e alle procedure di spesa: il mito è stato sfatato, le risorse ci sono23- ad esempio, secondo i dati forniti dal Servizio Studi della Camera dei Deputati, la copertura delle opere strategiche programmate ammonta, rispettivamente per quelle prioritarie e non prioritarie, al 73 % e all'81 % dei costi previsti24- semmai il problema è spenderle(infrapar. 3). Su questo fronte, gli sviluppi della doppiaimpasse"blocco della spesa" e "blocco delle opere" mostrano tendenze in parte positive, benché ancora non del tutto soddisfacenti. Da un lato, il superamento del pareggio di bilancio e lo sblocco degli avanzi di amministrazione ha consentito una decisa ripresa delle spese in conto capitale dei comuni italiani, che per l'anno 2019 segnano un incremento del 16 %; però, ilgapda recuperare è molto, tenuto conto che il decennio che ha seguito la crisi economico-finanziaria globale del 2008 ha comportato una contrazione della spesa per investimenti maggiore del 54 %: come osservato dall'Associazione nazionale costruttori edili (Ance), "[a]nche confermando una crescita del 16 % nel 2019, gli investimenti in conto capitale dei comuni sarebbero comunque inferiori di circa il 47 % rispetto al livello conseguito nel 2008"25. Dall'altro lato, cioè sul fronte del "blocco delle opere", i segnali mostrano una leggera riduzione delle opere incompiute. Elaborando i dati forniti dal Sistema Informativo Monitoraggio Opere Incompiute (SIMOI), ad oggi risultano circa 420 opere incompiute, con un decremento significativo rispetto alla rilevazione relativa all'anno 2018 (più di 100 unità26, ma i dati sono estremamente variabili, vuoi per gli aggiornamenti regionali vuoi per l'uso di piattaforme diverse rispetto al SIMOI): iltrendè quindi positivo, ma gli esiti non sono ancora soddisfacenti, soprattutto se si pensa che secondo una stima effettuata dall'ANCE per l'anno 2018 "[dal]la realizzazione delle 574 infrastrutture bloccate su tutto il territorio nazionale oltre al miglioramento della competitività del Paese e della qualità della vita di cittadini e imprese del territorio, deriverebbe una ricaduta positiva sull'economia pari a 137 miliardi di euro e una spinta all'occupazione con la creazione di oltre 600mila posti di lavoro"27.
Come rilevato da più parti, peraltro, sul sistema pesano i rallentamenti degliiterprocedurali: "il ritardo del nostro Paese sugli investimenti pubblici riguard[a] non tanto il volume di risorse finanziarie disponibili, quanto l'effettiva realizzazione di infrastrutture"28. Dai dati elaborati dalla Agenzia per la Coesione Territoriale, infatti, il tempo medio di realizzazione di un'opera ammonta a circa 4 anni e 5 mesi (si va dai 3 anni per i lavori di importo inferiore a 100.000 euro ai 15,7 anni per i progetti con valore superiore a 100 milioni di euro). A pesare maggiormente sono i tempi "di attraversamento" (c.d. tempi della burocrazia) - intervallo temporale tra il termine di una fase e l'inizio dell'altra - che nei tre stadi della progettazione superano sempre la durata della fase "effettiva" (basti solo pensare che i tempi di attraversamento costituiscono il 68,7 % di tutta la durata della fase di progettazione di fattibilità tecnico-economica)29.
Il quadro critico così sommariamente delineato pone l'interprete dinanzi alla eterogenesi delle soluzioni. Una fra tutte, quella del coordinamento infrastrutturale tra i livelli di governo nazionale e territoriale, meriterebbe un capitolo a parte. Marco Cammelli ricorda opportunamente come il "territorio [sia] un "pieno" di livelli sovrapposti di regolazione, di relazioni dirette con reti ed attori globali, di cooperazioni verticali e orizzontali, di politiche generali e di settore"30; ebbene, anche in ragione del fallimento della riforma costituzionale del 2016, in quel "pieno" il quesito sul "chi fa che cosa"31rimane ora come allora insoluto. A tal riguardo, sorprende leggere che "[n]ell'area delle infrastrutture sta un nodo irrisolto. L'esperienza degli ultimi anni, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, mostra come il processo decisionale condiviso fra Stato e Regioni sia faticoso e spesso inefficace. Nell'interesse generale, occorre riflettere sui casi in cui è opportuno, trascorso un tempo definito, svincolare l'azione del governo centrale dall'obbligo di assenso degli enti regionali e locali interessati. Dare voce alle esigenze locali deve essere possibile senza bloccaresine diela realizzazione di opere necessarie alla modernizzazione del Paese". Ma lo stupore non è dovuto al contenuto dell'affermazione, quanto piuttosto alla fonte, perché quelle sono le parole con cui nel 2007 l'allora Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi salutava il tema infrastrutturale32. Oggi, per tornare a quanto si diceva in apertura del contributo, Mario Draghi è Presidente del Consiglio dei Ministri: la speranza è, quindi, che quel quesito trovi pronta risposta.
Quanto alle restanti soluzioni, esse paiono giacere sul piano della semplificazione e su quello dell'incremento delle fonti di finanziamento. Due livelli, questi, fortemente interconnessi, tenuto conto che, per quanto si è potuto evincere dai dati passati in rassegna, il contributo offerto dall'aumento delle risorse dipende primariamente dall'efficacia dei procedimenti di spesa, ovvero dalla effettiva e tempestiva ultimazione dei lavori. I movimenti ordinamentali sul punto sono peraltro in atto: in risposta alla crisi pandemica, infatti, sono state dapprima avviate importanti politiche di semplificazione(infrapar. 2), oggi affiancate da significativi interventi di finanziamento pubblico in corso di definizione(infrapar. 3).
È passato ben più di un secolo da quando la normativa sui contratti pubblici è stata per la prima volta disciplinata nell'Italia unita (l. 20 marzo 1865, n. 2248, All. F.), e sembra un paradosso come ancora oggi sia diffusa una forte insoddisfazione nei confronti della regolazione.
Non ha certo contribuito alla chiarezza della material'avalanche33normativa che ha investito il settore, tenuto conto che il cambiamento, se frenetico, comporta instabilità o, quantomeno, incertezza applicativa34. La materia, infatti, ha conosciuto sì evoluzioni, per così dire, stagionali (dall'imprintingcontabilistico a quello pro-concorrenziale, per poi giungere all'attuale sistemazione strategica di promozione dellesecondary policies)35, ma, nell'ambito di ogni stagione normativa, la regolazione è stata poi oggetto di continui interventi legislativi in veste "correttiva", efficacemente compendiati nella formula "stagione dei correttivi"36.
Ciò che più sorprende, e che a maggior ragione può sorprendere il lettore estero, è la ricorrenza con cui il tema della semplificazione si è mostrato nel corso dei decenni. Ed ha ragione Aldo Sandulli quando scrive che, in questo settore, è "[troppo] facile usare il termine semplificazioni"37.
Semplificazione è termine anfibio38.
Vi è anzitutto la semplificazione organizzativa, quella procedimentale e quella provvedimentale39: già sotto questo profilo l'individuazione di ciò che si può e di ciò che si deve semplificare non è compito agile. Qualcosa, certo, è stato fatto:inter alia,la riduzione delle stazioni appaltanti40(semplificazione organizzativa), la contrazione dei termini delle procedure di gara e l'informatizzazione delle stesse (semplificazione procedimentale), così come l'applicazione dei meccanismi acceleratori in relazione ai pareri del Consiglio superiore dei lavori pubblici41e agli atti concertativi della conferenza di servizi sui progetti di fattibilità42(semplificazione provvedimentale).
Ma la semplificazione reclama anche flessibilità: esemplificando, per facilitare il proprio studio e assieme per migliorare l'esito della commessa, una amministrazione che "sa di non sapere abbastanza"43deve potersi rivolgere all'esterno per acquisire una consulenza, e ciò, oggi più di ieri, è possibile fare tramite le consultazioni preliminari di mercato (art. 66, d.lgs. n. 50/2016). Sennonché, rimossi i vincoli di matrice contabilistica ed espansa l'area della flessibilità44(si pensi allaformaleestensione del dialogo, oggi rilevante tanto nel pre-gara quanto nel corso delle procedure competitive45), si è poi ritratta nuovamente quella della semplificazione.
Per spiegarne la ragione è sufficiente fare riferimento a due dati ordinamentali.
Da un lato, il settore è imperversato da interessi, e si è lontani dall'interesse primario di Giannini. Nella materia dei contratti si impongono tanti interessi primari (in senso generico o in senso normativo46, poco importa) di segno positivo (massima partecipazione, sostenibilità, occupazione) o negativo (anti-corruzione): ciò che conta è(rectius:si direbbe essere) l'interesse pubblico in concreto (la sintesi degli interessi pubblici, tenendo conto di quelli privati47). Dall'altro lato, però e al contempo, il settore non è ancora pienamente improntato all'"amministrazione di risultato", o, meglio, lo è nella fase di gara - va in questo senso la conferma del ristretto ambito applicativo dell'immediata impugnazione dei bandi di gara48e, per converso, il ripensamento sul c.d. rito super accelerato49- ma non lo è nella prospettiva della vicenda contrattuale unitariamente intesa50.
Dunque, se è l'aggiudicazione il risultato che conta (l'interesse della dir. 2014/24/Ue per la fase esecutiva rileva in quest'ottica51), allora la flessibilità da strumento utile per il raggiungimento dell'interesse pubblico concreto diviene un viatico paradigmatico di complicazioni. Per farsi un esempio abbastanza calzante, basti pensare proprio alla disciplina delle consultazioni preliminari dei partecipanti al mercato, che espone l'amministrazione al problema, affatto irrilevante, di strutturare il quesito e la relativa procedura in modo tale da ottenereun'utilitasdal confronto, ma senza precludere all'operatore economico la possibilità di partecipare alla successiva ed eventuale gara51. D'altronde, la relazione tra la flessibilità e la concorrenza è, per certi versi, antagonistica. Vero è che la concorrenza, cosícome la matrice privatistica, nei modelli flessibili può trovare una minore mortificazione: si stempera il "matrimonio per corrispondenza"53, si sviluppa il momento della negoziazione e lo si valorizza applicandogli lo statuto della responsabilità precontrattuale54. Però, la flessibilità (quantomeno dal punto di vista del privato e, solo in parte, dell'ordinamento) è anche fonte di possibili storture concorrenziali: non è un caso che proprio laddove vi è flessibilità, tanto la dir. 2014/24/Ue quanto il codice domestico si premurano di predisporre accorgimenti (si badi, più) utili a salvaguardare la concorrenza (come bene55, che come strumento utile per il risultato).
Ebbene, si è detto sopra del paradosso secondo il quale una normativa tanto risalente sia ancora esposta a incessanti critiche. Ma si comprenderà ora che il paradosso è solo apparente: è il portato della complessità, ovvero della molteplicità degli interessi pubblici e privati che convergono sulla materia. Vero è che l'eterogenesi dei fini tradisce il vero e primo fine della normativa sui contratti, ovvero l'ultimazione dell'esecuzione56. Ma tant'è: gli ordinamenti democratici "consentono l'espressione di domande politiche di diversa natura, spesso confliggenti e, quindi, canonizzano interessi collettivi che le amministrazioni pubbliche devono curare, così aumentando la complessità degli apparati e dei processi di decisione"57.
Compreso quindi che semplificare fenomeni complessi non è facile né possibile58- salvo abdicare al "momento amministrativo" (la c.d. Riforma Madia è andata per certi versi in questa direzione59) - ciò che rimane è rimuovere il "troppo", abbracciando una normativa minimale. Soluzione, questa, che aveva un nome (gold plating),ma che non è stata pienamente soddisfatta dal legislatore del 2016, il quale, come rilevato in dottrina, aveva effettivamente "complicato in misura significativa il Codice rispetto alla direttiva 2014/24 (con una scelta del tutto diversa da quella di molti altri paesi europei)"60.
Lo scoppio della crisi pandemica da COVID-19, da questo punto di vista, ha rappresentato una occasione. La Commissione Europea, agli albori della crisi, ha suggerito (ricordato?) agli Stati membri che "[i]l quadro europeo in materia di appalti pubblici offre agli acquirenti pubblici tutta la flessibilità necessaria per acquistare il più rapidamente possibile beni e servizi [e, qui si aggiunge, lavori] direttamente collegati alla crisi della COVID-19"61. Lo Stato italiano, da parte sua, seppur con un intervento a valenza interinale (sino al 31 dicembre 2021), ha poi scelto di tornare indietro, cioè di fare ritorno alla dir. 2014/24/Ue: il maggiore ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando e, ciò che qui è più rilevante, il rilancio infrastrut-turale passano infatti attraverso la "deroga ad ogni disposizione di legge", fatti salvi solo alcuni principi recati dal d.lgs. n. 50/2016 (artt. 30, 34 e 42), la disciplina in materia di subappalto, la normativa penale, il c.d. codice antimafia, nonché (e per l'appunto) "i vincoli inderogabili derivanti dall'appartenenza all'Unione europea, ivi inclusi quelli derivanti dalle direttive 2014/24/UE e 2014/25/UE" (cfr. art. 2, comma 4, d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni dalla l. 11 settembre 2020, n. 120). E, si badi, la deroga non vale solo per l'uso delle procedure negoziate per fronteggiare l'urgenza, ma anche e soprattutto per una consistente porzione del comparto infrastrutturale:i)"settori dell'edilizia scolastica, universitaria, sanitaria, giudiziaria e penitenziaria";ii)"infrastrutture per attività di ricerca scientifica";iii)"sicurezza pubblica, dei trasporti e delle infrastrutture stradali, ferroviarie, portuali, aeroportuali, lacuali e idriche, ivi compresi gli interventi inseriti nei contratti di programma ANAS-Mit 2016-2020 e RFI-Mit 2017-2021 e relativi aggiornamenti";iv)"per gli interventi funzionali alla realizzazione del Piano nazionale integrato per l'energia e il clima (PNIEC)";v)"interventi per la messa a norma o in sicurezza degli edifici pubblici destinati ad attività istituzionali, al fine […] di recuperare e valorizzare il patrimonio esistente".
La semplificazione operata dal d.l. n. 76/2020 è stata certo ben maggiore di quanto si è qui potuto dar conto62, ma, al netto di ogni altra previsione, la derogaomnibuslì recata conferma il dato sopra accennato: semplificare le dinamiche contrattuali significa (o, almeno questo è quanto insegna l'esperienza più recente) conformare la disciplina al divieto digold plating,accettando quindi le complicazioni recate dalle dir. 2014/24/Ue e 2014/25/Ue, senza prevederne di ulteriori63.
Ulteriori, piuttosto, devono essere le politiche di semplificazione rispetto a ciò che la normativa europea non disciplina. Un terreno elettivo è quello della responsabilità amministrativa, la quale, benché delineata alla stregua di "un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo"64, è tradizionalmente percepita dall'agente pubblico come deterrente65rispetto all'assunzione di scelte coraggiose (secondo la prospettiva del rischio) o, meglio a dirsi, strategiche66(secondo la prospettiva che valorizza la matrice negoziale dell'operazione economica67, per quanto "collocata in un ambiente pubblicistico"68). Bene ha fatto quindi il legislatore italiano a limitare, pur temporaneamente (di nuovo, sino 31 dicembre 2021), la responsabilità amministrativa all'ipotesi del solo dolo, con esclusione, quindi, della colpa grave. Il che servirà sicuramente a "disinnescare i meccanismi cd. di burocrazia difensiva"69ed eventualmente a ripristinare la fiducia nell'uso del dialogo competitivo, ovvero di quella procedura che ad oggi non ha neppure autonomo risalto nelle tabelle sinottiche figurate dalle Relazioni annuali ANAC - e non a torto, considerando che nel 2019, l'Autorità affermava che "dal 2008 ad oggi sono state bandite 54 procedure di dialogo competitivo"70- ma che invece sarebbe utilissima, specialmente nell'approntamento delle grandi infrastrutture pubbliche71.
Oltre alle potenzialità offerte dalla semplificazione, il rilancio infrastrutturale del Paese, come anticipato, deve essere sostenuto anche da un altro fattore: quello della destinazione delle risorse pubbliche.
Al fine di contrastare la grave crisi socio-economica a seguito della pandemia da COVID-19, l'Unione europea, su pressione di molti Stati membri tra cui l'Italia, ha deciso di promuovere un processo di ingenti investimenti per il rilancio economico dell'eurozona attraverso il c.d.Next Generation EU.
Come è noto, ilNext Generation EUè un nuovo strumento temporaneo dell'Unione europea che, grazie alla raccolta di fondi sul mercato dei capitali, intende contribuire a riparare i danni economici e sociali causati dalla pandemia da COVID-19, attraverso l'erogazione di 750 miliardi di euro (390 di contributi a fondo perduto e 360 di prestiti) a favore dei vari Paesi europei. Il suo nucleo principale è rappresentato dal Dispositivo per la ripresa e la resilienza (RFF), volto a creare un'Europa più verde, digitale, resiliente e adeguata alle sfide presenti e future. La parte rimanente dei contributi verrà utilizzata su altri ambiti, tra cui React Eu, sviluppo rurale,Just transition fund.Data la gravissima situazione epidemica della primavera del 2020, con tutte le conseguenze in termini di decrescita dell'economia nazionale e del prodotto interno lordo, l'Italia sarà il maggiore beneficiario delle sovvenzioni grazie alla destinazione di circa 210 miliardi di euro, ripartiti in 82 miliardi di sovvenzioni e 128 miliardi di prestiti.
Ora, ilNext Generation EUstimola riflessioni in relazione al grado di avanzamento nel processo di integrazione europea, sotto diversi profili: l'eventuale costruzione di un'autonomia fiscale unitaria; l'evoluzione della politica delle istituzioni dell'eurozona, più "aperte" a svolgere un ruolo attivo nella ripresa economica, e dunque una funzione di rilievo quale soggetto "interventore" nell'economia, anche attraverso un ruolo più pervasivo degli organi politici dell'Unione (ad es. Commissione e Consiglio); la previsione di nuove struttureed eventualmente nuove procedure-a livello europeo che possano rafforzare i centri decisionali già esistenti, migliorandone il coordinamento con gli apparati nazionali.
In breve, ilNext Generation EUpare rappresentare un punto di svolta nelle politiche dell'Unione, tradizionalmente "frugali" ed improntate al pareggio di bilancio nonché a stringenti limiti di spesa, preludendo ad una trasformazione dei modi di intervento europeo sugli equilibri di finanza pubblica. Questo programma favorevole alla ripresa e alla resilienza dovrebbe dunque costituire una occasione storica per agevolare un riassetto strutturale e funzionale dell'Unione Europea soprattutto attraverso un forte potenziamento delle opere e delle infrastrutture strategiche dell'euro-zona.
Tuttavia, per raggiungere questi obiettivi è necessario un'attivazione da parte di tutti i Paesi che aspirano ad ottenere i finanziamenti europei, chiamati a redigere un proprio piano di rilancio, con cui individuare in modo puntuale gli investimenti da promuovere, la loro fattibilità e le relative misure di monitoraggio, alla cui definizione è subordinato il rilascio delle sovvenzioni da parte dell'Unione europea.
Nel periodo in cui si sta scrivendo (febbraio 2021), l'Italia sta redigendo il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), da presentare alla Commissione entro l'aprile del 2021, con l'obiettivo di indicare una serie di dati: le scelte compiute per l'individuazione degli impegni di spesa, da comunicare alle istituzioni europee inderogabilmente entro il 2023; l'effettivo impiego delle risorse; la previsione di eventuali meccanismi di controllo della messa in opera delle misure.
Grazie alla destinazione dei circa 210 miliardi di euro, il nostro Paese si troverà dunque a breve nella insolita situazione di avere risorse da spendere, diversamente da quanto accaduto negli ultimi decenni, durante i quali scarseggiava la liquidità necessaria per promuovere gli investimenti infrastrutturali e per garantire un'accurata manutenzione delle opere esistenti.
È dunque fondamentale che l'Italia definisca un efficace PNRR, descrivendo precisamente gli obiettivi ed i progetti con cui assicurare il rilancio infrastrutturale e le opere da realizzare sul territorio. Il punto focale della questione diviene, dunque, quello di indicare come saranno gestite le risorse, il che impone a sua volta di riflettere sul possibile nuovo ruolo dei poteri pubblici e sulle modalità di intervento nell'economia italiana.
In particolare, occorre considerare se lo Stato intenderà procedere direttamente alla realizzazione dei progetti infrastrutturali - in modo analogo a quanto accaduto tra gli anni Cinquanta e Sessanta del XX(infrapar. 5) - o se, al contrario, si limiterà ad un ruolo di promotore e coordinatore degli investimenti, la cui attuazione verrà comunque demandata a soggetti esterni alla macchina amministrativa, dotati di conoscenze tecniche di cui essa non sempre dispone72.
A seconda della scelta che sarà compiuta, è evidente, muterà il rapporto tra le istituzioni e gli operatori privati; cioè, a breve lo Stato dovrà scegliere se tornare ad essere "imprenditore" come nella metà del secolo passato, ovvero ribadire la sua natura di "regolatore", delegando la materiale realizzazione delle infrastrutture agli operatori economici, limitandosi a selezionarli in ossequio ai principi di concorrenza, pubblicità, trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione, in modo analogo a quanto già fatto dalla seconda metà degli anni Novanta sino ad oggi (per maggiori approfondimentiinfra,par. 4-5)73.
Qualunque sarà la strada intrapresa, la redazione del PNRR, l'attuazione dei suoi obiettivi e la gestione delle risorse delNext generation EUda destinare all'ammodernamento del Paese si presentano come una sfida molto complessa per il governo.
Si rilevano, infatti, alcune criticità che potrebbero rallentare il percorso di rilancio infrastrutturale, sintetizzabili in tre specifici fattori.
In primo luogo, sono prevedibili forti resistenze burocratiche se solo si pensa al tema della transizione digitale, la cui promozione si scontra con una cultura amministrativa (spesso) deficitaria, specialmente ricordando che i dipendenti degli uffici pubblici di frequente non vantano specifiche competenze in merito74. Questa situazione è ben visibile, ad esempio, con riferimento alle infrastrutture fisiche, considerando che l'amministrazione italiana sconta lo smantellamento dei corpi tecnici e l'inadeguatezza delle strutture organizzative, spesso prive delle necessarie competenze tecniche e da molto tempo disattente a percorsi "virtuosi" di reclutamento e crescita professionale, che ne comportano la scarsa capacità decisionale (sul punto v. ancheinfrapar. 5).
In secondo luogo, emergono le probabili criticità derivanti dall'attuazione dei processi partecipativi della popolazione interessata alla progettazione di infrastrutture75. Il riferimento è, in particolare, alla capacità della popolazione di partecipare a queste decisioni, ma anche alla competenza dei responsabili e delle amministrazioni, alla lentezza attuativa del dibattito pubblico, e dunque a quelle forme di partecipazione affermatesi negli ultimi vent'anni, che hanno di frequente comportato rallentamenti nell'attuazione della decisione politica piuttosto che contribuire in modo efficace alla sua definizione76.
In terzo luogo, non vanno dimenticate le difficoltà emergenti a livello di compatibilità e sostenibilità ambientale. Esse riguardano l'individuazione delle infrastrutture da ammodernare attraverso l'analisi del polinomio "asset-rischio-governance" e coinvolgono il problema della localizzazione delle nuove opere77, tema che va chiaramente coordinato con gli strumenti di analisi della pianificazione urbanistica e territoriale78.
Tanto considerato, sembrano evidenti i problemi che accompagneranno la gestione delle risorse europee da parte dello Stato. È dunque bene capire se questo sarà in grado di gestire in via autonoma l'intero processo o se, al contrario, sia opportuno che continui a disporre di un sostegno esterno, cioè da parte del privato, nella realizzazione del processo di rilancio infrastrutturale. Il riferimento è al possibile ricorso agli strumenti di partenariato pubblico-privato (PPP), già utilizzati dai primi anni Duemila. Certo, lapartnershipha spesso dovuto scontare importanti criticità organizzative(infrapar. 4); nondimeno, anche in ragione delle competenze che potrebbe apportare, un rinnovato ruolo dell'operatore economico privato a cui affidare la progettazione, costruzione e manutenzione delle opere, con l'assunzione dei relativi rischi di gestione, potrebbe non rappresentare una sceltaa priorierrata, purché vengano posti i dovuti correttivi per impedire di ricadere negli errori del passato.
I PPP costituiscono un complesso fenomeno di natura socio-politica, giuridica ed economica79, a cui afferiscono vari istituti (concessioni, società partecipate, etc.), regolati da fonti sovranazionali e nazionali, che trovano la propria peculiarità nella collaborazione tra le amministrazioni e i privati, allo scopo di soddisfare un interesse della collettività tramite il ricorso alla formula contrattuale più adeguata80. I motivi del ricorso alla cooperazione sono sostanzialmente due: la perdurante carenza di risorse per la realizzazione di infrastrutture da parte delle amministrazioni e l'affidamento alle competenze tecniche del privato, che spesso dispone di conoscenze maggiori rispetto a quelle degli enti pubblici81.
In ambito europeo, l'Unione è intervenuta sul tema, in principio, con il Libro verde della Commissione Europea del 30 aprile 200482ed il documento Eurostat dell'11 febbraio 200483, poi con la direttiva con la comunicazione del 5 febbraio 2008 e, infine, con la direttiva 2014/23/Ue. In tutte queste circostanze, gli atti normativi europei non hanno individuato una nozione univoca di PPP, concetto rimasto sempre piuttosto vago, tanto è vero che è "a livello comunitario non esiste una normativa specifica sulla costituzione dei PPP"84Tuttavia, la Commissione ha precisato i contenuti giuridici del concetto, individuandoli nel trasferimento del c.d. rischio operativo - di costruzione, di domanda e di disponibilità dell'opera - in capo al privato nella costruzione e gestione dell'opera stessa85.
Da quanto premesso, è evidente la matrice economica dei PPP86, a motivazione dell'attenzione riservata al tema dalle istituzioni europee, interessate ad una disciplina in armonia con i principi di parità di trattamento, pubblicità, trasparenza e concorrenza, così da legittimare l'affidamento dell'attività a favore dell'operatore87. Infatti, l'affidamento in concessione di un'attività economica al privato - quale è la costruzione e gestione di un'opera e la resa del relativo servizio - impone il rispetto di rigorose regole concorrenziali per evitare discriminazioni nei confronti dei potenziali operatori che aspirano a contrattare con l'amministrazione.
Anche il legislatore italiano è intervenuto sulla materia, recependo la normativa europea, eppure adeguandovisi solo in parte. Infatti, gli artt. 180 ss., d.lgs. n. 50/2016, regolano il ricorso ai PPP, includendo però in tale elenco anche alcune tipologie contrattuali a carattere sociale (es. il baratto amministrativo, sussidiarietà orizzontale, etc.), obiettivamente eterogenei dalle concessioni di lavori e di servizi, non configurando un'attività economica. Pertanto, il concetto italiano di PPP è ben più ampio rispetto a quello europeo88, che invece si esaurisce nelle concessioni di lavori e servizi89.
È però evidente che, soffermandosi in questa sede sulle vicende della crisi infrastrutturale, ben evidenziate dalla pandemia, sia opportuno rivolgere lo studio al rapporto partenariale nella sua accezione più ristretta di origine europea, per poi verificare se il privato possa rivelarsi ancora oggi utile nel programma di potenziamento delle opere pubbliche di carattere strategico o, al contrario, il suo ruolo sia divenuto superfluo stante le ingenti risorse europee destinate all'Italia dal c.d.Next Generation EU.
Il dubbio è ancor più legittimo se si pensa al fatto che il ricorso ai PPP negli ultimi anni è diminuito, soprattutto con riferimento all'area dell'eurozona90, nonostante i dati siano in parte più incoraggianti per l'Italia. Il nostro paese ha infatti avviato un percorso di graduale ma crescente utilizzo dello strumento nel corso dell'ultimo quindicennio, durante il quale sono stati soprattutto i comuni ad avere fatto ricorso alla formula partenariale per opere di dimensioni contenute (edilizia residenziale e sociale, impianti sportivi)91.
Questo anche perché l'utilizzo dei PPP per le concessioni di lavori e servizi sconta per le opere di grandi dimensioni difficoltà di vario genere, che vanno dalla complessa gestione della procedura ad evidenza pubblica ai problemi legati alla costruzione del vincolo contrattuale.
Con riferimento alla gara per l'aggiudicazione, è necessario che le concertazioni con l'operatore economico siano svolte da funzionari e tecnici amministrativi dotati di una preparazione e di un "commitment pubblico" forti92, con elevate capacità manageriali, che nei fatti sono spesso mancate93. Inoltre, la complessità delle operazioni non ha nemmeno agevolato la celere conclusione dei procedimenti, causando invero importanti rallentamenti nella conclusione dei PPP, i cui tempi di aggiudicazione sono risultati spesso eccessivi94. Al prolungamento dei tempi conseguono rischi progettuali maggiori per il concessionario, che generalmente determinano una revisione al rialzo del compenso richiesto, e dunque maggiori oneri per la collettività, una minore convenienza del ricorso ai PPP ed un più elevato rischio di insuccesso delle operazioni95.
Anche le difficoltà nella costruzione del vincolo contrattuale sono di grande rilievo, perché è in questo frangente che pubblico e privato stabiliscono le tariffe per la gestione del servizio e le modalità di fruizione dell'opera.
Un accordo tra le parti è efficace se soddisfa diversi aspetti, quali ad esempio la definizione di formule contrattuali standard e di linee guida per la redazione dei capitolati dellepartnership,l'effettivo trasferimento del rischio operativo in capo al privato, la previsione un'adeguata fase di monitoraggio, cioè tutti fattori non sempre oggetto di adeguata considerazione, per cui le prestazioni dell'operatore sono spesso risultate poco soddisfacenti96. Del resto, l'importanza di una efficace stesura dei contratti si spiega anche alla luce di questioni eminentemente finanziarie, al fine di evitare che i PPP, inizialmente registrati comeoff-balance(e quindi non contabilizzati tra le spese dello Stato), vengano in seguito riclassificati comeon-balance,con gravi conseguenze sul deficit pubblico97.
Considerata l'importanza della questione, il Ministero dell'economia e delle finanze ha prodotto delle linee guida - su cui è intervenuto anche un parere del Consiglio di Stato98- per la redazione di contratti di PPP, soffermandosi sulle maggiori criticità: l'effettivo trasferimento del rischio operativo in capo all'operatore economico99, l'eventuale esclusione del contributo pubblico per la realizzazione delle c.d. opere fredde100, la revisione del piano economico finanziario (pef), la possibilità di apportare delle modifiche al contratto101.
L'intervento, mosso dalle migliori intenzioni, intende delineare degli indirizzi univoci per la regolazione standardizzata di rapporti contrattuali, così da definire un valido vincolo sinallagmatico, la cui efficacia è spesso minacciata sia da un automatico (e sproporzionato) sostegno pubblico agli investimenti del concessionario102sia dalla revisione dei prezzi in suo favore tramite l'inserimento di canoni fissi, garanzie e clausole contrattuali103, con conseguente aumento dei costi per le amministrazioni concedenti. In breve, la definizione di clausole contrattuali certe è funzionale ad evitare che si verifichi l'ipotesi meno gradita: il mancato trasferimento di un effettivo rischio operativo in capo al privato a causa del sostegno offertogli dall'amministrazione, preoccupata dal fatto che le oscillazioni e le contrazioni del mercato rendano conveniente per l'operatore l'abbandono del servizio, con evidenti ricadute significative sulla collettività che ne stava beneficiando.
Tuttavia, ancora oggi, le previsioni delle linee guida scontano alcune difficoltà di attuazione, se non altro perché non sono una fonte normativa di carattere cogente, per cui permane un problema di soluzione delle criticità sin qui segnalate, che si riflette sulle modalità di ricorso ai PPP104.
Altro profilo di contraddizione nell'utilizzo della formula partenariale si riscontra poi nel fatto che il diritto nazionale, per fronteggiare l'emergenza Covid, abbia promosso diverse normative spesso in contrasto con le regole europee della concorrenza, facendo dunque dubitare della tenuta di un modello basato sul libero mercato105.
Per queste varie ragioni, è legittimo chiedersi se sia utile ricorrere ai PPP nel progetto di rilancio infrastrutturale o se, al contrario, questo strumento possa ritenersi oggi superato, considerando anche (e soprattutto) le risorse europee a disposizione del Paese. In altre parole, occorre valutare se lo Stato regolatore che ha avuto grande fortuna in Europa dagli anni Novanta in poi debba lasciare spazio al ritorno dello Stato imprenditore, la cui affermazione - quantomeno in Italia - si è avuta tra gli anni Trenta e Sessanta del XX secolo106.
Nel quadro sin qui delineato, tra crisi infrastrutturale, politiche di semplificazione e destinazione dei finanziamenti, rimane da considerare il rapporto che lo Stato potrà instaurare con il privato, non avendo bisogno della sua liquidità per attuare il piano di rilancio.
Cassa depositi e prestiti (CdP) - l'istituzione finanziaria pubblica che funge da tesoriere dello Stato, controllata dal Ministero dell'economia e delle finanze - rivestirà con ogni probabilità una funzione primaria nella gestione delle risorse e nella programmazione degli interventi107. Del resto, la centralità dello Stato nella ricostruzione del tessuto economico-imprenditoriale non rappresenterebbe un fatto nuovo, perché già nel secondo Dopoguerra l'Istituto per la ricostruzione italiana (IRI)108- ente pubblico economico a cui fu affidata la costruzione delle maggiori opere pubbliche sul territorio nazionale - svolse un'attività fondamentale per il potenziamento infrastrutturale e l'ammodernamento del Paese, risultando uno dei protagonisti del "miracolo economico italiano"109, secondo una logica di programmazione pubblica dell'economia110.
A ben vedere, però, CdP ha una natura di intermediario finanziario e non di decisore ed attuatore di politiche di sviluppo economico ed infrastrutturale, come era invece IRI (la cui attività è cessata nel 2002), per cui difficilmente potrebbe gestire dal punto di vista operativo l'opera di ricostruzione111. La mancanza di un ente con quelle caratteristiche è di ostacolo alla riproposizione di un modello di Stato imprenditore affermatosi nel secolo scorso.
Il corollario di queste considerazioni è che il patrimonio conoscitivo del privato non sembra rinunciabilea priori.
Come già osservato, i partenariati non sono stati utilizzati solo per sopperire alla mancanza di risorse pubbliche, ma anche per fare fronte all'inadeguata preparazione delle amministrazioni, i cui corpi tecnici sono stati "smantellati", depotenziati e depauperati delle proprie funzioni decisorie nel corso dei decenni del secolo scorso112. Pertanto, la disponibilità in capo allo Stato di ingenti risorse non risolverebbe comunque l'endemico problema della debolezza della macchina amministrativa, le cui competenze tecniche sono state gradualmente dismesse - anche a livello centrale - e devono perciò ricercarsi all'esterno - e cioè nei privati - non potendosi ricostituire nel breve periodo.
Certo, sarebbe facile obiettare che lo strumento partenariale perderebbe egualmente di importanza poiché il processo di rilancio infrastrutturale potrebbe attuarsi attraverso i soli appalti di lavori. Nemmeno questa lettura, però, convince del tutto per due motivi: i privati sarebbero pur sempre presenti; se, come detto, l'amministrazione ha in larga parte perso le proprie competenze tecniche e non è più in grado di fare, si corre il forte rischio che non riesca neppure a definire unilateralmente strategie efficaci, delegare, controllare ed, eventualmente, correggere (salvo ricorso ad oggi molto incerto alle procedure di dialogo competitivo)113.
Peraltro, è evidente che la risposta al problema della crisi infrastrutturale non potrà essere quella di una riproposizione nell'uso dei PPP come promossi negli ultimi quindi anni, considerando le diverse criticità sopra segnalate. Nondimeno, l'impressione è che l'apporto del privato specializzato non costituisca un fattore a cui si possa rinunciarein toto,soprattutto in ragione delle numerose opere che il governo sta programmando, e che difficilmente verrebbero realizzate integralmente in autonomia dallo Stato, per ragioni sia di tempo sia di competenze tecniche.
Se, dunque, non pare saggio derubricare i PPP come strumento superato per il solo fatto che il Paese disporrà delle risorse europee, si ritiene che la sfida del rilancio consisterà nel non ripetere gli errori del passato, causati sia dalle nefaste conseguenze dell'eccessivo interventismo dello Stato nella programmazione economica sia dai limiti nel ricorso alle formule partenariali. L'obiettivo deve dunque essere quello di far convivere nuovi e vecchi strumenti: dirigismo, programmazione, tutela della concorrenza, controlli e standardizzazione dei rapporti contrattuali.
Considerata la questione sotto queste prospettive, sembra che lo Stato regolatore, pur rivedibile nel suo funzionamento, non debba lasciare spazio ad un ritorno dello Stato imprenditore, così come conosciuto in passato, perché la replica di quell'esperienza condurrebbe con sé il rischio - non sostenibile - di una ulteriore crescita di deficit pubblico.
L'unica cosa di cui il Paese non ha bisogno.
