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TRAFFICO DI ESSERI UMANI E CRIMEN PLAGII

TRAFFIKINF IN HUMAN BEINGS AND CRIMEN PLAGII

PAOLA OMBRETTA CUNEO
Italia

TRAFFICO DI ESSERI UMANI E CRIMEN PLAGII

Vergentis. Revista de Investigación de la Cátedra Internacional Conjunta Inocencio III, vol. 1, no. 8, pp. 59-73, 2019

Universidad Católica San Antonio de Murcia

Copyright © Vergentis. Revista de Investigación de la Cátedra Internacional Conjunta Inocencio III

Received: 19 April 2019

Accepted: 25 May 2019

Sommario: Fonti giuridiche e patristiche testimoniano in epoca dioclezianea e tardo- imperiale un diffuso traffico di esseri umani, sovente sanzionato come plagium, crimine che ha avuto nei secoli una profonda evoluzione, fino a divenire una sorta di contenitore di fattispecie diverse: il sequestro di persona, la riduzione in schiavitù ed il traffico di esseri umani, siano essi liberi o schiavi, adulti o bambini.

Abstract: Legal and patristic Sources are evidence of widespread trafficking of human beings in the Diocletian and in the late Roman Imperial period. It was often punished as plagium, a crime which deeply developed through centuries, since it finally encompassed several different matters, such as Kidnapping, Enslavement and Trafficking human beings, both free and slaves, adults as well as childrens.

Keywords: Constantinus, Crimina, Diocletianus, Enslavement, Kidnapping, Plagium, Trade.

1. IL COMMERCIO ILLECITO E LA SICUREZZA AI CONFINI DELL’IMPERO

Come ben sappiamo, il commercio era fondamentale per l’Impero Romano e la sua economia e per questo era ben regolamentato, sempre tutelando i confini dell’Impero. Per il Giuffrè “il termine limes era usato nell’accezione arcaica: quella di «intervallo» porzione di territorio «neutra», che potremo dire «zona franca» la quale intercorreva tra due estensioni della superficie terrestre spettanti a diverse comunità. Tale almeno era la percezione diffusa. Un luogo mentale e fisico ad un tempo”2.

Per quanto riguarda il commercio marittimo esisteva una rete di funzionari che dovevano, in particolare, garantire la sicurezza dell’Impero e il controllo del commercio internazionale3. Erano previsti adempimenti amministrativi, in modo che, qualunque nave mercantile si allontanasse dal porto, non dovesse subire atti di concussione o danni. Necessario era anche il controllo sulle merci che non dovevano essere illecite. Ad esempio, con C.Th. 7.16.3, Teodosio II sanciva una sanzione contro chi esportasse alle popolazioni barbare merci considerate illicitae. Tra queste c’erano, innanzitutto, le armi, ma anche il traffico di esseri umani, sempre più diffuso, specialmente nei periodi di crisi economica e morale.

Per questo motivo diversi funzionari erano adibiti ai controlli nei porti. Tra questi, però, non mancavano alcuni che, probabilmente in cambio di soldi, invece di controllare, volutamente ignoravano che esseri umani, rapiti dalle loro terre, fossero venduti come schiavi alle popolazioni barbare. Anche Sant’Agostino si lamentava di quei funzionari che, invece di tutelare le coste ed impedire i commerci illeciti di esseri umani, non intervenivano. Anzi, i mercanti di schiavi pagano questi funzionari per poter trasportare indisturbati le loro merci.

2. SANT’AGOSTINO E IL TRAFFICO DI ESSERI UMANI

Ritroviamo questa problematica soprattutto nella lettera 10*4 di Agostino5, che testimonia la difficile situazione creatasi in Africa, dai cui porti quei mercanti di schiavi, chiamati mangones, partivano con le imbarcazioni su cui caricavano uomini liberi da loro acquistati per venderli oltremare6. Secondo sant’Agostino, questa piaga non si sarebbe così diffusa, se non ci fossero quelle bande di individui, colpevoli di plagio.

Il vescovo si sofferma sull’aspetto orribile, soldatesco o barbarico di quei criminali, che atterriscono i piccoli nuclei rurali isolati, e quindi indifesi, portando via con la forza gli abitanti per venderli proprio a quei mercanti. Quindi la merce viene fornita ai mangones da quei banditi che violenter abducunt le persone libere che abitano nei piccoli centri rurali. Il verbo abducere è un termine tecnico che si ritrova con una certa ricorrenza nei testi normativi in cui si parla genericamente di rapimento. Ricorre anche nella descrizione di quelle azioni criminose tipiche del plagio, quel crimine commesso da una o più persone che rapiscono con violenze e armi psicologiche schiavi o persone libere, li trattengono prigionieri, per poi venderli come schiavi, preferibilmente in territori lontani.

3. IL CRIMEN PLAGII NEL DIRITTO ROMANO

Il plagio, su cui intendo soffermarmi, ha avuto una notevole evoluzione nel corso dei secoli7, tanto che, rispetto alla lex Fabia, dell’epoca repubblicana, da cui è stato disciplinato in origine si è trasformato successivamente in un contenitore di fattispecie diverse che coesistevano tra loro. Si riscontrano, così, differenti azioni criminose: il sequestro di persona, la riduzione in schiavitù e il traffico di esseri umani, siano essi liberi o schiavi, adulti o bambini.

Fondamentale è stata la svolta in epoca dioclezianea, l’età in cui sono state emanate costituzioni imperiali in materia in numero più elevato. La produzione normativa sul plagio dell’epoca dioclezianea è raccolta nel titolo 9.20 Ad legem Fabiam del Codice Giustiniano.

3.1. LA COSTITUZIONE DI MASSIMIANO

Appartiene a questo titolo una costituzione occidentale (c.7)8, emanata nel 287, mentre Massimiano governava come Augusto da un anno l’Occidente e Diocleziano come Augusto l’Oriente, quindi nel periodo della diarchia, quando il disegno tetrarchico non si era ancora sviluppato. Nulla nella subscriptio ci indica la provenienza del testo dal momento che non viene indicata alcuna località, senonché la destinazione del praefectus Urbi, Massimo, nell’inscriptio, ci conferma che il provvedimento è stato emanato da Massimiano. Si tratta, verosimilmente di quel Marco Giunio Massimo9, che ha ricoperto tale carica dal 286 al 287.

Il praefectus Urbi10 aveva ampliato nel corso dei secoli la sua giurisdizione criminale ed aveva ottenuto la competenza per materia sul plagio. Sulla base di questa tendenza Massimiano caricò il praefectus Urbi, di maggiori strumenti, in modo di garantire l’ordine pubblico e certezza e rigore nella repressione criminale.

L’imperatore risponde, dunque, con un rescritto al praefectus urbi Maximus, il quale si era lamentato con lui di una piaga sociale estremamente diffusa all’epoca, l’illecita pratica di vendere schiavi altrui ex Urbe, ma, ancora peggio, anche uomini liberi.

L’amarezza di Massimo, che traspare dalla risposta dell’imperatore, sta nel fatto che, pur ricoprendo la carica importantissima di prefetto della Città, non ha gli strumenti per debellare un crimine così diffuso ed anche devastante per la società romana. Il prefetto si è reso conto del legame tra le varie azioni criminose, ma nulla può fare, in quanto di quelle avvenute nella sua giurisdizione non vi è prova, ma solo voci. Si ha certezza solo della vendita, ma questa è avvenuta fuori dalle 100 miglia della Città, fuori dalla sua giurisdizione. Questa banda di criminali ha ideato bene l’attività criminale, in modo che, se anche dovesse essere fermata, risponderebbe per le azioni meno gravi.

Dunque, di fronte a questo progetto criminale studiato con attenzione, il prefetto è spiazzato, non sa come collegare i fatti. Ha un dato certo: servos alienari ex Urbe, che degli schiavi sono stati venduti al di fuori della città. Ha poi notizia, di cui informa minuziosamente l’imperatore, che uomini nati liberi, cittadini romani sono stati rapiti, senza riuscire a collegare il dato certo alla semplice notizia. Pur non essendoci prove, ci sono gravi indizi che gli uomini venduti siano proprio quelli scomparsi da Roma.

Forse fu proprio la notizia che anche uomini liberi fossero venduti ex Urbe come schiavi a far scattare forte l’esigenza di condannare in modo più severo gli autori di questo crimine, quei criminali chiamati plagiarii, al plurale, quasi ad evidenziare che si trattasse di una fattispecie diversa, molto più grave, del crimine di plagio e presupponendo un’associazione a delinquere.

Poiché ex Urbe è preceduto dal verbo alienari e non, ad esempio, da abducere che indicherebbe il movimento, ex non può essere una preposizione di moto da luogo, ma di moto dall’interno, segnando i limiti della competenza territoriale. L’ex Urbe va letto nel senso di “fuori da”, l’esportare dalla Città. Questa azione criminosa avviene al di fuori del confine della città, ma soprattutto al di fuori della competenza territoriale del prefetto. Al momento l’alienari non incorpora né l’azione dell’aggressione e sequestro, né quella dell’asportazione in luogo diverso dal loro domicilio. Sono tutte azioni ben distinte, eppure, nello stesso tempo, sono fattispecie dello stesso crimine, le quali, singolarmente, sarebbero punite, comunque, in quanto plagio, ma con pene diverse11. Sappiamo12, infatti, che nel plagio si comprendevano le diverse azioni del sollicitare, celare, supprimere, emere, vendere, abducere, in servitute retinere. Ognuna di queste azioni ha una valenza diversa, ma tutte rientrano nel crimine di plagio.

Per quanto riguarda la costituzione di Massimiano, le azioni criminose erano iniziate già nella città con l’aggressione ed il sequestro, seguiti, subito dopo dal trafugamento fuori dal territorio di Roma. Menzione questa necessaria da parte della cancelleria, in quanto il praefectus Urbi aveva giurisdizione solo a Roma ed era l’unico che avrebbe potuto condannare alla pena capitale.

Secondo la cancelleria occidentale la giurisdizione è del prefetto della città, perché si deve considerare iniziato a Roma quel crimine, che, tra l’altro, possiamo definire “continuato”. Pur di potere reprimere in modo più severo un crimine che rappresentava una piaga sociale la cancelleria imperiale ha avuto la brillante idea di collegare le azioni criminose anche se avvenute in luoghi diversi. Per poter far questo occorre che i colpevoli vengano colti in flagranza. Leggendo meglio il testo, ci si accorge, infatti, che si può applicare la pena più severa auspicata dall’imperatore nel caso di flagranza di reato: si quem in huiusmodi facinore deprehenderis, se avrà colto qualcuno in tale reato. Solo così il meccanismo potrà funzionare.

Nel testo di Massimiano si fa riferimento a horum delictorum, ma, come asseriva Giannetto Longo13, quando la cancelleria utilizza il termine “delicta” lo fa in senso atecnico, intendendo senz’altro “crimina”. Il Longo, infatti, interpreta il testo nel senso che l’imperatore rivolgendosi al prefetto “stabilisce la pena di morte per coloro che commettevano il plagio, a fini speculativi di rivendita, di servi altrui e di ingenui, catturati e condotti fuori Roma”. Secondo lo studioso l’imperatore, sulla base di denunce pervenutegli, aveva ben chiaro “il fenomeno, in Roma dilagante, dei servi derelitti, della carestia, dei disordini e dei delitti che, dettati da tale situazione, coinvolgevano servi e ingenui”. Per il Longo si tratta di un nuovo provvedimento, tanto più che nello stesso anno era stata emanata una costituzione che testimoniava la volontà imperiale “di volere conservare la vigenza della poena nummaria (CI. 9.20.6)”. Per il Bellen14 questo passaggio così diretto dalla pena pecuniaria alla pena di morte era inverosimile.

Il Lauria15, asseriva che questa costituzione “introdusse sì la pena di morte per i plagi commessi a Roma, ma fu solo un inasprimento temporaneo e localizzato, presto desueto”. A me pare che questa affermazione tenda a ridurre la reale portata della costituzione di Massimiano. L’innovazione del testo, infatti, la si evince sotto diversi punti di vista.

Innanzitutto Massimiano pretende dal prefetto severità nell’applicare la pena. Afferma infatti l’imperatore che il prefetto non dovrà esitare a capite eum plecti, cioè ad applicare la pena capitale. Con questa affermazione l’imperatore attribuisce la giurisdizione al prefetto della città anche se i colpevoli sono stati sorpresi in flagranza a vendere gli uomini liberi ormai ridotti in schiavitù fuori dal territorio di Roma.

Nell’età dioclezianea prevaleva il principio, da tempo consolidato, non domicilium rei, ma locus commissi delicti16, per cui il procedimento si sarebbe svolto nel luogo in cui era stato commesso il crimine. Questo mutamento, che troviamo consolidato in quest’epoca, garantiva una maggior tutela della parte lesa, ma anche una maggior certezza nella repressione del crimine. Il luogo in cui è stato commesso il crimine è, infatti, il luogo in cui si raccolgono le prove, senza tante dispersioni, come avverrebbe, invece, nel luogo del domicilio del reo, ormai incompatibile con la definita struttura della giurisdizione criminale ed anche con la certa individuazione dell’atto represso quale crimine.

Con questo Massimiano non viola il principio del locus commissi delicti17, ormai consolidato, anzi lo conferma, nel momento in cui riesce a collegare le varie azioni criminose.

In quello che noi oggi chiameremmo “reato continuato” si considera locus commissi delicti il luogo in cui si è verificata la prima azione criminosa. Inoltre la vendita fuori Roma che rappresenterebbe l’azione meno grave e ancora punibile con una pena pecuniaria, permetterebbe di configurare questa diversa fattispecie come un crimine con dolo specifico, a causa dell’intento lucrativo di ricavare profitto dalla vendita di schiavi sequestrati, che in molti casi, in origine, erano uomini liberi.

In conclusione, l’idea geniale della cancelleria fu quella di configurare un reato continuato che aveva avuto inizio a Roma e, di conseguenza, era competente il prefetto della città. Non solo, questa fattispecie di plagio si differenzia dalle altre, in quanto prevede in capo all’agente un dolo specifico, dato dall’intento lucrativo: quella che apparentemente era un’azione distinta dalle altre, pur essendo sempre riconducibile al plagio, esprime una volontà ulteriore rispetto a quello della riduzione in schiavitù, che, invece, richiedeva semplicemente un dolo generico.

La costituzione si conclude con l’uso di un’endiadi, ab Urbe abstrahere atque alienare, che vuole rendere l’idea del sottrarre schiavi o liberi al fine di venderli, quindi non due azioni disgiunte, ma collegate fra loro per creare una fattispecie più evoluta e raffinata del crimine del plagio.

Tra l’opinione di studiosi che vedevano nel provvedimento di Massimiano semplicemente “un aggravamento limitato in senso temporale e spaziale” e quelle di altri per i quali l’autore della costituzione era il vero creatore del crimen plagii, sento di poter affermare che la const. 7 non ha inventato un diverso crimen plagii, ma ha offerto la possibilità, qualora ne ricorrano tutti gli elementi, di reprimerlo come - si direbbe oggi - un reato continuato, con dolo specifico e con concorso di persone nel reato, autorizzando l’applicazione delle pene più severe.

3.2 COSTANTINO E LA REPRESSIONE DEL PLAGIO

Passiamo ora ad un altro provvedimento imperiale significativo.

Come già annotava il Gotofredo (ad C.Th. 9.18.1) una sola costituzione è conservata nel Codice Teodosiano nel titolo 9.18 Ad legem Fabiam, in materia di plagio ed è quella di Costantino18. Questa costituzione è riportata anche nel Codice Giustiniano, dove si conservano, però, 16 costituzioni: la prima è di Caracalla, l’ultima di Costantino, (9.20.16).

C.Th. 9.18.1 è stata emanata nel 315, nel periodo di correggenza con Licinio, il quale governava la parte orientale dell’Impero. Il provvedimento imperiale è indirizzato a Domizio Celso, vicario d’Africa sotto Costantino. A questo imperatore va attribuito, quindi, senza incertezze il testo.

Costantino affronta il tema dei plagiarii, visti non singolarmente, ma come un’organizzazione criminale, che si macchiava del crimine del plagio. Si tratta, quindi, di una associazione a delinquere, che sequestrava esseri umani liberi per poi, verosimilmente, rivenderli. L’unicità di questo testo è data dal fatto che le vittime sono minori.

La costituzione è, dunque, importante perché indica un caso di aggravante di questo crimine commesso da questi predoni, i quali viventium filiorum miserandas infligunt parentibus orbitates19, cioè privano i genitori dei figli viventi.

Il posteaquam indica che l’incriminazione come autore del plagio, in questo altro caso, possa avvenire solo dopo che il crimine si sia reso manifesto. Si potrebbe avanzare l’ipotesi che il legislatore pensasse, allora, al caso di flagranza del colpevole.

La singolarità di questa costituzione sta anche nel fatto che stabilisce una netta distinzione delle pene da applicare. Vengono elencate le seguenti pene: in generale la condanna ad metalla; in caso di flagranza, se il reo è uno schiavo, la condanna è ad bestias, se libero in ludum gladiatorium, cioè ad esibirsi nel circo come gladiatori. In una seconda fase si prevede che sia finito gladio, con la decapitazione con spada, prima che possa reagire. Si stabilisce, inoltre, che la pena di coloro che siano stati condannati ad metalla, non sia mai revocata e diventi, così, perpetua. Allorché il legislatore prende in considerazione una circostanza aggravante del crimine, le pene sono molto severe.

A questo proposito Luchetti20 rileva che la pena di morte, nelle varie forme previste dal testo, veniva applicata al plagio, allorché vittime del crimine fossero “persone libere ed indifese (si è infatti giustamente pensato che la costituzione intendesse riferirsi principalmente al plagio di bambini ed adolescenti) e per di più aggravato dalla lesione negli affetti che così veniva inflitta ai genitori”.

Si può riscontrare una netta distinzione tra i casi in cui la vittima del plagio fosse una persona libera e quelli in cui fosse uno schiavo e un inasprimento della pena per una certa categoria di plagiarii. Verosimilmente si rese necessario per Costantino inasprire la pena nel caso in cui oggetto del plagio fossero bambini. Secondo Cenderelli21, è una scelta necessaria inasprire la pena nel caso in cui siano vittime i bambini, in quanto si tratta di “crimine in ogni tempo di particolare allarme sociale”.

3.3. LA POVERTÀ E LA VENDITA DEI FIGLI MINORI

Qual è l’altra faccia della medaglia, che qui non emerge? Che talvolta, sempre più frequentemente, sono gli stessi genitori a compiere l’azione riprovevole di vendere i propri figli, come si evince, ad esempio, da un’altra costituzione dell’imperatore Costantino. Costoro, però, non rientrano fra i plagiarii e vediamo il perché.

In un altro provvedimento, C.Th. 11.27.2, emanato il 6 luglio del 322 a Roma e indirizzato ad un certo Menandro, verosimilmente comes per Africam, Costantino affermava di essere stato messo a conoscenza del problema per cui diversi lavoratori provinciali sono costretti dalla povertà a vendere o pignorare i propri figli. Per questo motivo si renderà necessario che un incaricato, ogni volta si trovi di fronte a qualcuno in estrema indigenza e senza l’aiuto di un patrimonio familiare costretto ad allevare i figli con difficoltà, dovrà attribuirgli aiuti per fiscum nostrum, attingendo, quindi dalle finanze del fisco. Il provvedimento prevedeva, dunque, un intervento fattivo che disponesse misure assistenziali, come sottolineava Sargenti22, “per prevenire la tendenza alla vendita ed alla costituzione in pegno dei figli determinata dalla miseria delle popolazioni delle province”, senza rinunciare alla condanna morale dei fatti, sicché nella costituzione di Costantino “a motivare le misure destinate ad aiutare le popolazioni bisognose, emerge la condanna dell’indignum facinus che la vendita della prole rappresenta per i mores cui la norma dichiaratamente si ispira”.

Più recentemente la Corbo23 ha visto in questa severa condanna ancora un effetto deterrente nei confronti di questi genitori che commettevano crimini, spinti dalla miseria.

Il ripetersi di provvedimenti imperiali contro questo iniquo commercio sempre più energici dimostra quanto fossero inutili gli sforzi compiuti. Alla fine del terzo ed al principio del quarto secolo le disastrose condizioni economiche dell’Impero, aggiunsero un elemento favorevole alla diffusione di tutti quei mezzi che, come la vendita o l’esposizione dei fanciulli potevano contribuire ad alleviare la profonda miseria delle famiglie, specialmente nelle classi più umili della popolazione.

Nel caso in esame per la vendita di figli, di per sé un crimine in questa epoca, operava una scriminante, che oggi chiameremmo “stato di necessità”, poiché l’azione è conseguenza della povertà in cui si trovava l’agente.

Questo, tuttavia, non significa rinunciare a punire. Cambiano i soggetti punibili, in quanto quei trafficanti che approfittano di questa situazione diventano i soli responsabili dei crimini, poiché non ci può essere consenso da parte di quei genitori costretti per povertà e fame a liberarsi dei propri figli.

4. LA CONDANNA PER PLAGIO COME CAUSA DI DIVORZIO

Nel tardo Impero ormai il plagio costituiva una piaga per la società ed era considerato un crimine grave.

Così una costituzione di Teodosio II indica il crimine di plagio tra i motivi leciti di divorzio, sia nel caso del marito plagiarius, sia nel caso della moglie plagiaria. Si tratta di CI. 5.17.8, un lungo testo, infatti, in materia di ripudio24. Il fatto che si faccia riferimento ad entrambi i coniugi evidenzia forse come tale crimine, caratterizzato anche da azioni violente, si fosse radicato nella società, a tal punto da coinvolgere anche il sesso femminile.

Sappiamo che già la riforma costantiniana (C.Th. 3.16.1) aveva previsto l’indicazione tassativa di iustae causae, senza le quali non era lecito il ripudio. Rispetto alla legislazione precedente, però, è aumentato il numero di queste causae, nelle quali vengono indicati crimini mai menzionati prima, ma che, all’epoca di Teodosio II, hanno raggiunto un maggior disvalore sociale.

5. CONCLUSIONI

Questa scelta del legislatore ci testimonia, dunque, che ormai nel V secolo il plagio era diventato un crimine molto diffuso, ma soprattutto di particolare gravità, che destava un elevato allarme sociale.

In questa sede ho ritenuto opportuno considerare solo alcuni testi giuridici conservati nei Codici25. Appaiono, comunque, evidenti le trasformazioni di questo crimine nel corso dei secoli 26 , la gravità che rappresentava per l’Impero, il conseguente inasprimento delle pene27. In tempi diversi erano andate ad enuclearsi fattispecie diverse intorno a quelle previste in origine dalla lex Fabia ed avevano continuato a coesistere, nonostante le diverse azioni criminose, le diverse procedure28, le diverse pene comminate.

Del resto, nel corso dei secoli, a causa delle crisi economiche e sociali erano sempre più diffusi questi flussi migratori verso terre lontane di persone che un tempo vivevano liberi nel territorio dell’Impero romano, per i quali, pur non perdendo la cittadinanza, come andavano a sottolineate i diversi rescritti dell’epoca dioclezianea29, che miravano a tranquillizzare i parenti delle vittime, si prospettava un triste futuro, in cui era ormai impossibile, di fatto, far valere il proprio status.

Notes

1 In questo testo riporto alcuni dei risultati raggiunti nella mia monografia sullo stesso argomento.
2 GIUFFRÈ, V., «Crimina, iura e leges nel tardo antico: un problema irrisolto», in Crimina e delicta nel tardo antico, Atti nel seminario di Studi (Teramo, 19-20 gennaio 2001), ed. LUCREZI F., MANCINI G., Milano 2003, p. 451. All’illustre Maestro, scomparso recentemente, dedico queste pagine.
3 Cf. CUNEO, P.O., Sequestro di persona, riduzione in schiavitù e traffico di esseri umani. Studi sul ‘crimen plagii’ dall’età dioclezianea al V secolo d.C., Milano 2018, pp. 99 ss.
4 Aug. ep. 10*.2: “Tanta est eorum qui vulgo «mangones» vocantur in Africa multitudo, ut eam ex magna parte humano genere exhauriant, transferendo quos mercantur in provincias transmarinas et paene omnes liberos. Nam vix pauci reperiuntur a parentibus venditi quinque annorum emunt isti, sed prorsus sic emunt ut servos et vendunt trans mare ut servos; veros autem servos a dominis omnino rarissime. Porro ex hanc moltitudine mercatorum ita insolevit seducentium et depraedantium multitudo, ita ut gregatim ululantes habitu terribili vel militari vel barbaro et agrestia quaedam loca, in quibus pauci sunt nomine, perhibeantur invadere et quos istis mercatoribus vendant violenter abducere”.

Aug. ep. 10*.3: “Omitto quod nuperrime nobis fama nuntiaverat in quadam villula per huiusmodi aggressiones occisis viris feminas et pueros ut venderentur abreptos; sed ubi hoc contigerit, si tamen vere contigit, non dicebatur. Verum ego ipse cum inter illos, cum ex illa miserabili captivitate per nostram ecclesiam liberarentur, a quadam puella quaererem quomodo fuerit mangonibus vendita, raptam se dixit fuisse de domo parentum suorum; deinde quaesivi utrum ibi sola fuisset inventa; respondit praesentibus suis parentibus et fratribus factum. Aderat et frater eius qui venerat ad eam recipiendam et, quia illa parva erat, ipse nobis quomodo factum esset aperuit. Nocte enim dixit huiusmodi irruisse praedones, a quibus magis se quomodo poterant occultarent quam eis resistere auderent barbaros esse credentes”.

Aug. ep. 10*.4: “Sed in tantum ea nos uti coepimus, in quantum sufficit ad homines liberandos, nos ad illos mercatores, propter quos tot et tanta scelera perpetrantur, tali poena cohercendos. Terremus enim quos possumus ista lege nec plectimus, quin etiam metuimus ne forte alii eos homines licet destestabiles atque damnabiles a nobis deprehensos ad poenam per hanc legem debitam trahant. Unde ad hoc magis ista scribo Beatitudini tuae, ut constituatur si fieri potest, a piissimis christianisque principibus, ne ad periculum damnationis quae hac lege definita est maximeque ad plumbi cohercitionem, unde homines facile moriuntur, isti perveniant, quando per Ecclesiam ab eis homines liberantur; et necesse est ad eosdem comprimendos [...] hanc legem in publicum fortasse proferri, ne nobis haec metuendo cessantibus transpotentur miseri liberi in perpetuam servitutem”. Aug. ep. 10*.5: “A barbaris enim plurimi redimuntur, transportati vero in provincias transmarinas nec auxilium redemptionis inveniunt; et barbaris resistitur, cum bene et prospere geritur Romana militia, ne barbarica Romani captivitate teneantur; his vero negotiatoribus non quorumcumque animalium sed hominum, nec quorumcumque animalium sed hominum, nec quorumcumque barbarorum sed provincialium Romanorum usquequaque dispersis, ut in eorum manus pretia pollicentium vel violenter rapti vel insidiis decepti ubicumque et undecumque ducantur, pro libertate Romana (non dicam communi sed ipsa propria) quis resistit?”.

5 Utilizzo per la lettera 10* l’edizione di CAROZZI L., Opere di Sant’Agostino. Le lettere. Suppl. 1- 29, Roma 1992.
6 Cf. CASSI, A. A., La giustizia in Sant’Agostino. Itinerari agostiniani del quartus fluvius dell’eden, Milano 2013, pp. 67 ss.; CUNEO BENATTI, P. O., «Alcune questioni giuridiche fra diritto romano e mondo barbarico nelle lettere di sant’Agostino (Ep. 10* e 46)», in AARC 20 (2014), pp. 139 ss.
7 Questa evoluzione si evince soprattutto dal lavoro di LAMBERTINI, R., Plagium, Milano 1970, il più completo, in quanto raccoglie tutte le fonti dall’origine all’epoca più tarda.
CI. 9.20.7: “Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Maximo PU. Quoniam servos a, plagiariis alienari ex Urbe significas atque ita interdum ingenuos homines eorum scelere asportari solere perscribis, horum delictorum licentiae maiorae severitate occurrendum esse decernimus. Ac propterea si quem in huiusmodi facinore deprehenderis, capite eum plecti non dubitabis, ut poenae genere deterreri ceteri possint, quominus istiusmodi audacia vel servos vel liberos ab Urbe abstrahere atque alienare audeant. D. VI Id. Dec. Diocletiano III et Maximiano AA. Conss”.
9 JONES, A.H.M., MARTINDALE, J.R., MORRIS, J., The Prosopography of the later Roman Empire (A.D. 260-395), 1, sv. M. Iunius Maximus 38, Cambridge 1971, p. 587.
10 Cf. CHASTAGNOL, A., La préfecture urbaine à Rome sous le Bas-Empire, Paris 1960, p. 86. Cf. anche PIGANIOL, A., L’Empire chrétien (325-395), Paris 19722, p. 386.
11 Cf. CUNEO, P.O., Sequestro di persona, riduzione in schiavitù, cit., pp. 35 ss.
12 Cf. LUCREZI, F., L’asservimento abusivo in diritto ebraico e romano. Studi sulla ‘Collatio’, 5, Torino 2010, p. 20.
13 LONGO, G., Delictum e crimen, Milano 1976, p. 39.
14 BELLEN, H., Die Spätantike von Constantin bis Justinian. Grundzüge der römischen Geschichte, Darmstadt 2016, p. 57.
15 LAURIA, M., «Appunti sul plagio», in Annali della Regia Università di Macerata 8, Tolentino 1932, p. 12.
16 Cf. LICANDRO, O., Domicilio habere. Persona e territorio nella disciplina del domicilio romano, Torino 2004, pp. 374 ss.
17 LICANDRO, O., Domicilio habere, cit., p. 375.
18 C.Th. 9.18.1: “Imp. Constantinus A. ad Domitium Celsum vicarium Africae. Plagiarii, qui viventium filiorum miserandas infligunt parentibus orbitates, metalli poena cum ceteris ante cognitis suppliciis tenebantur. Si quis tamen eiusmodi reus fuerit oblatus, posteaquam super crimine patuerit, servus quidem vel libertate donatus bestiis primo quoque munere obiiciatur, liber autem sub hac forma in ludum detur gladiatorium, ut, antequam aliquid faciat, quo se defendere possit, gladio consumatur. Eos autem, qui pro hoc crimine iam in metallum dati sunt, numquam revocari praecipimus. Dat. Kal. Aug. Constantino A. IV. et Licinio IV. Conss. Interpretatio Hi, qui filios alienos furto abstulerint et ubicumque transduxerint, sive ingenui sive servi sint, morte puniantur”.= CI.

9.20.16 pr.: “Imp. Constantinus A. ad Domitium Celsum vicarium Africae. Plagiarii, qui viventium filiorum miserandas infligunt parentibus orbitates, metalli poena cum ceteris ante cognitis suppliciis tenebantur. D. K. Aug. Constantino A. IIII et Licinio IIII conss”.

19 Come rammenta il Gotofredo (ad h.l.), vi è un richiamo alle parole di Seneca, tratte dal de benef.

14: “Cuius senectus et liberorum orbitas magna promittebat”.

20 LUCHETTI, G., La legislazione imperiale nelle Istituzioni di Giustiniano, Milano 1996, pp. 570 ss.
21 CENDERELLI, A., Ricerche sul Codex Hermogenianus, Milano 1965, p. 216.
22 SARGENTI, M., Il diritto privato nella legislazione di Costantino. Problemi e prospettive nella letteratura dell’ultimo trentennio, Pavia 1974, p. 12.
23 CORBO, C., Paupertas, la legislazione tardoantica, Napoli 2006, p. 20.
24 Cf. CUNEO, P.O., «Il ripudio nel tardo Impero: una costituzione di Teodosio II», in Jusonline 1 (2018), passim.
25 Per gli altri testi rinvio a LAMBERTINI, R., Plagium, cit., pp. 161 ss.; CUNEO, P.O., Sequestro di persona, riduzione in schiavitù, cit., passim.
26 LAMBERTINI, R., Plagium, cit., passim.
27 SANTALUCIA, B., Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano 1998, p. 293.
28 SANTALUCIA, B., «Praeses provideat. Il governatore provinciale fra iudicia publica e cognitiones extra ordinem», in I tribunali dell’Impero. Relazioni del Convegno Internazionale di Diritto Romano (Copanello, 7-10 giugno 2006), ed. MILAZZO, F., Milano 2015, p. 212.
CI. 9.20.11: “Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Ampliatae. Abducti plagio facta venditio statum non mutat: liberae enim personae sollicitationae crimen committitur, non condicioni praeiudicatur. S. non. Nov. Lucionae AA. conss”. CI. 7.14.12: “Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Quietae. Ad mutandum liberae statum commissum plagii nihil promovet, sed abductam natales, quibus nata est, post hunc etiam casum obtinere convenit. S. III k. Dec. CC. Conss”.
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