Artigos
Received: 03 April 2018
Accepted: 17 April 2018
DOI: https://doi.org/10.14195/1984-249X_27_8
Riassunto: L’articolo si interroga sulla relazione tra parole divine, semplici, monadiche e il dire degli uomini legato alla corporeità, privo di chiarezza e di univocità. Perché la parola divina sia colta dagli uomini è necessaria una sorta di trasformazione. Si può ipotizzare l’esistenza di un linguaggio archetipico, primordiale, ad imitazione dell’essenza delle cose. È la lingua di Adamo per cui, data la perfezione di un’anima ancora pura, non intaccata da infermità, malattia o passione, il progenitore coglieva le impressioni immediate, afferrava il significato delle cose le cui nature potevano essere insieme enunciate e pensate. È la lingua perfetta originaria ed era forse comune ad uomini ed animali se nel giardino dell’Eden le parole del serpente erano comprese da Eva. Si passa dal linguaggio di Adamo, mimetico rispetto al linguaggio di Dio, alla lingua mosaica in cui interviene la traduzione del linguaggio divino in linguaggio umano. Questo, nonostante che, anche per Mosè sia detto che i nomi corrispondono alla descrizione delle cose. Un ulteriore passaggio avviene con la traduzione da una lingua in un’altra. Vi è un trascorrere tra comunicazioni di Dio che si volge all’interlocutore in maniera differente a seconda delle sue possibilità. Si tratta di “traduzione” di una lingua noetica che può esprimersi monadicamente - ed è il caso della comunicazione a Mosè - o assumere già la forma di nomi e verbi propria del linguaggio umano - ed è quanto avviene con i Settanta, traduttori al pari di Aronne.
Parole-chiave: monade, voce divina, linguaggio noetico, lingua originaria, corporeità.
Abstract: This article deals with the relationship between simple, monadic, divine words and the words of men linked to corporeity, devoid of clarity and univocity. For the divine word to be grasped by men a kind of transformation is necessary. One can hypothesize the existence of an archetypal, primordial language, in imitation of the essence of things. It is the language of Adam: given the perfection of a still pure soul, not affected by infirmity, illness or passion, the progenitor seized immediate impressions, grasped the meaning of things whose natures could be enunciated and thought at the same time. It is the original perfect language and is perhaps common to humans and animals if in the Garden of Eden the words of the serpent were understood by Eve. A distinction is drawn between the language of Adam, mimetic of the language of God and the mosaic language in which we have the translation of the divine word in human language. This, despite that, for Moses too it is said that the names correspond to the description of things. A further passage takes place with the passing from one language into another. God addresses different kinds of communication to different people according to their capacities. It is a “translation” of a noetic language that can speak monadically - and it is the case of communication to Moses - or assume the form of names and verbs proper to human language -and it is what happens with the Septuagint, translators like Aron.
Keywords: monad, divine voice, noetic language, original language, corporeity.
I
Che Dio parli è detto fin dalle prime pagine della Bibbia ed è poi ripetuto innumerevoli volte nel corso del testo. Dio parla a Mosè, al popolo, ai settanta traduttori della Bibbia in greco cui viene “dettata” la versione, ad Abramo, a Isacco, ai profeti, a se stesso (Phil. De confusione linguarum 168-169). In tutti i casi gli interlocutori colgono il senso della parola di Dio che si adegua agli ascoltatori. Ci si può chiedere se si tratti di una lingua di volta in volta differente o, trattandosi di parola noetica, la comunicazione sia diretta e priva di distinzioni.
Dio parla monadi non mescolate, giacché la sua parola non è affatto una percussione dell’aria, né è mescolata con qualcos’altro, bensì è incorporea e nuda, non diversa da una monade (Phil. Quod Deus sit immutabilis 83, trad. Mazzarelli [inRadice, 1994]).1
Ogni tipo di molteplicità ne è estranea: le parole divine sono pure, semplici, ben differenti da ciò che è corporeo, legato alla mescolanza e alla commistione. Il passo di Deus che enuncia la monadicità e la purezza della lingua di Dio trae spunto dal Salmo 61.12 (LXX) “Una volta ha parlato il Signore, due volte ho sentito le sue parole” (ἅπαξ ἐλάλησεν ὁ θεός, δύο ταῦτα ἤκουσα). Il verso, oggetto di innumerevoli esegesi, è introdotto da Filone a chiarimento dell’elevatezza delle potenze divine che, non mescolate, non temperate, sussistono in relazione all’essere. La non mescolanza rinvia alla semplicità, all’assenza di composizione e scomposizione propria di Dio, “Colui che è migliore del Bene e anteriore alla Monade e più semplice dell’Uno” (ὅ γὰρ ἀγαθοῦ κρεῖττον καὶ μονάδος πρεσβύτερον καὶ ἑνός εἰλικρινέστερον, De Praemiis 40). Alla monadicità divina è contrapposta la diadicità dell’ascolto e della parola umana, legata ai sensi (Cf. De Abrahamo 29)2 e alla corporeità della parola: il fiato emesso attraverso la trachea è mescolato all’aria e si volge verso l’orecchio che gli è congenere (Cf. De Migratione Abrahami 52). Risuonano in questo passo echi della dottrina stoica sull’udito: Il pneuma è esteso dall’egemonico alle orecchie (SVF 2.836), la sensazione uditiva è legata alla pressione subita dall’aria (SVF 2.872).3 Tali nozioni confluiscono con idee della tradizione platonica sulla monade e la diade.
Il legame con il corporeo e la mescolanza comporta mancanza di chiarezza e di univocità, instabilità4 cui è contrapposta la chiarezza della parola di Dio che sorpassa l’udito, è visibile:
È udibile la voce che si divide in nomi e verbi e, in generale, nelle parti del discorso […] ma la voce di Dio non si compone di verbi e nomi, e pertanto, con esattezza, essa è detta “visibile” in quanto è colta con l’occhio dell’anima (Migr. 48, trad. Radice, 1994).5
Se la lingua umana, divisa in parti del discorso si ode, la voce di Dio pura, non mescolata, non può essere udita: sarebbe altrimenti legata all’espressione della voce stessa nei suoi rapporti con il sangue e la parte inferiore dell’anima.6
Il verbo usato dalla traduzione greca della LXX della Bibbia a Sal. 61.12 (= 62.12) e nuovamente a Deuteronomio 4.12 è λαλέω che indica parlare, ma anche risuonare, balbettare, far rumore. È possibile che Filone ne colga la specificità rispetto a λέγω e vi veda un riferimento a una comuncazione non sempre verbale, l’emissione di un suono non necessariamente articolato in parole distinte. La comunicazione divina non si esplica in una lingua paragonabile a quella umana,7 si rivolge direttamente all’anima degli interlocutori, agendo a livello noetico,8 in un rapporto diretto. Al momento della trasmissione del decalogo al popolo riunito, il suono delle parole divine non deriva da movimenti della lingua e della bocca. È originato dalla luce della virtù,
per questo, sebbene l’organo di percezione della voce per i mortali sia l’udito, la Sacra Scrittura rappresenta le parole di Dio, come se fossero viste, alla maniera della luce (Migr. 47).9
La visibilità delle parole divine, letta da Filone quale espressione della noeticità del suo dire, trae appoggio testuale da Esodo 20.18: “tutto il popolo vedeva la voce”. È Dio stesso che rileva come i figli di Israele abbiano visto - non udito - le parole di Dio dal cielo (Es. 20.22): non hanno visto un’immagine, ma piuttosto una voce (Dt. 4.12).10 “Una voce - strano paradosso - visibile, che teneva desti gli occhi più che le orecchie dei presenti” (De vita Mosis 2.213, trad. Graffigna, 1999).11
La rivelazione avviene tra prodigi e fenomeni straordinari; non è strano il fatto che ogni forma conoscitiva sia in qualche modo ribaltata, che fenomeni fisici traggano impulso da condizioni nuove e mirabili. Il punto centrale non è, però, solamente la sospensione di regolarità e il formarsi di eventi straordinari e neppure la confluenza di percezioni sensibili che superano le rispettive distinzioni.12 Ciò che è qui messo in luce è, da un lato che Dio parla e viene compreso da tutti i presenti, dall’altro che le sue parole, proprio perché non commiste a materialità, a espressioni corporee, a molteplicità, non sono udite secondo le modalità con cui sarebbe udito quanto detto da un uomo.
il nostro organo della fonazione non è simile a quello divino: il nostro si mescola all’aria e si indirizza verso il luogo che gli è congenere, cioè l’orecchio: quello divino, invece, è pura parola, non mescolata, che sorpassa l’udito per l’assoluta finezza della sua natura, ma è vista dalla pura anima per l’estrema acutezza della sua vista (Migr. 52)13
Per la sua noeticità la parola divina si rivolge direttamente all’anima con cui comunica senza la mediazione di organi sensoriali e di strumenti fisici. Il popolo vede le parole divine, virtù che risplende come luce. La visione non è sensibile: i suoni, che a differenza dagli altri oggetti sensibili nella sensorialità umana abituale sfuggono alla visione, sono ora visti, in una visione dell’anima. Al momento della trasmissione delle ‘dieci parole’, Dio
operò un prodigio di ordine veramente sacro ordinando che venisse prodotto nell’aria un suono invisibile, meraviglioso più di tutti gli strumenti, appropriato ad armonie perfette, non inanimato e neppure composto di corpo e anima […] ma anima razionale piena di chiarezza e di nitidezza (Decal. 33, trad. Calabi, 2005)14
Dio ordina che si produca una ἦχον ἀόρατον, un suono invisibile, θαυμασιώτερον di tutti gli strumenti, una voce non inanimata, ψυχὴ λογική piena di lucidità e chiarezza.15 Una voce invisibile, a differenza da quanto detto a Es. 20.18 in cui la voce è vista dal popolo. Il testo rinvia ad armonie perfette, ad un udito particolare, attivato dalla voce di Dio,
avendo il suono dato forma e tensione all’aria e avendola modificata in fuoco fiammeggiante, fece risuonare come aria attraverso una tromba, una voce articolata tanto forte che a coloro che erano più lontani sembrava di sentirla allo stesso modo che a quelli che stavano più vicini.16
La voce non si affievolisce con la distanza. Non sembra si tratti di visione - sia pure di visione noetica come affermano gli altri passi citati che spiegano il testo secondo cui il popolo vedeva le voci. La voce di Dio produce un nuovo tipo di udito: è suono - anche se straordinario - prodotto dall’aria che risuona come tromba. È, però, anche fiamma, aria modificata in fuoco fiammeggiante: è voce udibile e visibile, udibile da un nuovo udito, superiore a quello delle orecchie, proprio di una mente ispirata τῆς ἐνθέου διανοίας (Decal. 35).
Al cespuglio ardente, nuovamente, la comunicazione è visiva (De vita Mosis 1.66): una morphè bellissima, non paragonabile a nessuna forma visibile, “forse l’immagine dell’essere” che annunzia quanto deve accadere “con un silenzio più eloquente delle parole, per mezzo di una visione magnifica”. Solamente dopo la visione Dio parla e Mosè ne ode la parola. La voce celeste esce di mezzo alla fiamma ed è fonte di rivelazione. La visione si manifesta nel silenzio,17 seguono poi le parole oracolari: non vi è il confluire di visione e ascolto proprio della comunicazione sul monte Horeb, ove l’aria che è fuoco è vista e viene colta nella sua nitidezza.18
L’apparente contraddizione tra Mos. 2.213 o Migr. 48 e Decal. 33, tra passi, cioè, che parlano di visione della voce (φωνὴ ὁρατή) e testi che, invece, presentano una voce invisibile (ἦχος ἀόρατος, φονή ἐπιπνέουσα θεοῦ), rinvia all’impossibilità di rendere in linguaggio umano fenomeni straordinari, legati all’eccellenza di Dio e all’incapacità di cogliere l’essenza di Dio e delle potenze. La voce di Dio, mentale, viene afferrata dagli uomini solamente in maniera imperfetta attraverso i sensi e la dualità. La percezione visiva può essere di livello superiore rispetto a quella uditiva, può prescindere dalla percussione dell’aria e dalla sua azione sulle orecchie. Vi è una differenza tra i sensi, per cui la vista risulta più pura dell’udito. Questa distinzione, però, non chiarisce la visione empirica della parola divina ripresa a Decal. 46-48 e postulata dalla necessità di spiegare il Salmo 61.19 È come se la noeticità monadica dovesse necessariamente tradursi in visivo nel momento in cui diventa due: un rapporto di necessità tra noetico e visivo, mentre il passaggio da noetico a uditivo è più complesso e risulterebbe mediato dal visivo. Alle spalle, il rapporto di stampo platonico tra intellegibile e sensibile e la valorizzazione tradizionale della visione rispetto all’udito.20
A Decal. 46-48 la voce di Dio risuona di mezzo al fuoco che fluisce dal cielo, è fiamma che si articola in linguaggio. Produce parole chiarissime tanto che sembra di vederle più che di udirle (vedi Spuntarelli, 2012, p. 139, n. 201).21 L’immagine significa la precisione e l’esattezza delle parole divine “saggiate come l’oro dal fuoco”.
Parallelamente, la voce di Dio è visibile in quanto le sue parole sono azioni. A differenza che a Deus 82-83 ove visione e ascolto della parola confluiscono in un’unica comunicazione noetica che supera le divisioni e le articolazioni di un linguaggio sensibile legato alla dualità, a Decal. 47 e in altri passi la visione della parola si ancora alla sua efficacia, al ruolo di azione che la parola divina riveste per cui, non appena essa è pronunciata, la cosa detta si realizza senza lassi temporali: “Dio parlò e creò nello stesso tempo […] la parola fu la sua azione” (De sacrificiis Caini et Abelis 65); “che le parole divine siano efficaci e siano potenze risulta evidente” (Quaestiones in Genesim 4.17). La lingua divina si esprime nell’agire. La poesia di Dio è costituita non di miti, non di ritmi e metri, ma delle opere della natura.22
La Torah, espressione della parola divina, coincide con le norme della physis. Gli uomini non possono vedere Dio. Sono, però, in grado di leggerne la poesia.23Opif. 3-6 presenta il racconto della creazione della natura e ne evidenzia la corrispondenza con la Torah. Entrambe sono espressione del linguaggio divino (vedi Legum allegoriae 1.19-21 a proposito del libro della creazione).
II
La divisione tra linguaggio pensato e proferito, propria dell’espressione umana, rappresentata da Mosè e Aronne (vedi Det. 38-40) è chiaramente espressa a Mos. 2.127-128:
Nell’uomo si ha un principio razionale interiore e un altro reso manifesto dalla parole: il primo è come una fonte da cui sgorghi il secondo. Sede del primo è la mente, del secondo invece, per via dell’emissione della voce, la lingua, la bocca e tutto l’apparato vocale.24
Mentre nell’uomo vi è una separazione tra pensiero ed esternazione verbale, in Dio pensiero e parola coincidono. All’inizio della creazione questa avviene per la parola: Dio, parla e la sua parola è mondo noetico. Chiama la realtà con il suo nome: il cielo, la successione temporale, ogni cosa. La terminologia che impiega è “giusta e del tutto fondata”, rispondente alla realtà delle cose (Cf. De opificio mundi 37-38), meglio, è fondativa della realtà stessa. Con la parola Dio crea e la sua parola è pensiero intellegibile. Non vi è separazione temporale tra parola divina e realizzazione noetica, un prima e un poi: “il mondo intellegibile non può che identificarsi con il logos divino” (Opif. 25).
L’espressione verbale umana è connessa ai sensi, alle corde vocali, la parola di Dio è monadica, semplice. Perché sia colta dagli uomini è necessaria una sorta di trasformazione: un passaggio dall’udibile al visibile, nel caso di tutto il popolo che assiste al prodigio, una “traduzione” delle parole divine in termini comprensibili per gli uomini, quando Dio comunica con il solo Mosè al roveto ardente. Ricevuto l’incarico di trasmettere le indicazioni divine, il legislatore è reticente, conscio delle difficoltà insite nel suo compito. Adduce le sue difficoltà linguistiche e chiede a Dio di scegliere un altro al suo posto, una persona in grado di compiere il tutto con facilità. Dio lo invita a procedere senza timori: il linguaggio mosaico a un cenno di Dio, diventerà articolato, si muterà in discorso secondo misura, in parole che scorreranno facilmente. Quanto Dio dice a Mosè si trasformerà in parole fluide che verranno interpretate da Aronne. “Se ci sarà bisogno di un interprete, avrai tuo fratello come voce al tuo servizio: egli riferirà le tue parole al popolo e tu a lui le parole divine” (Mos. 1.84).25 Mosè sarà hermeneus di Dio, Aronne, interprete di Mosè, ne riporterà le parole. Ad Aronne, viene delegato il compito di trasmettere al popolo quanto comunicato da Dio attraverso Mosè. Questi può capire il linguaggio divino che non è invece capito da Aronne e tanto meno dal popolo. Di qui la necessità dell’interprete. A questo allude l’espressione divina
parlerai con lui e metterai le mie parole sulla sua bocca” cioè, tu gli suggerirai i pensieri, i quali non differiscono dal modo di comunicare ed esprimersi di Dio. Invero, senza il suggeritore, il linguaggio non potrebbe emettere alcun suono: e se il suggeritore del linguaggio è l’intelletto, Dio lo è dell’intelletto. “Egli parlerà a nome tuo al popolo, e lui stesso sarà la tua bocca e tu sarai per lui come un Dio (Migr. 80-81).26
La lingua di Dio ha, dunque, bisogno di due livelli di traduzione. È un linguaggio che si rivolge al pensiero e che deve poi essere trasposto in parola. Aronne, interprete di Mosé, rappresenta il discorso proferito che esterna il pensiero (vedi Migr. 77 sgg.; Det. 39-40). Questo si articola nella bocca, la lingua imprime alla tensione della voce l’articolazione in parole. Si produce
non una pura e semplice voce inerte, un’eco informe, ma un suono che riveste un ruolo da messaggero o da interprete nei confronti dell’intelletto che suggerisce quel che è da dire (De somniis 1.29, trad. mia)27
L’intelletto più puro, rappresentato da Mosè, si rivolge ad Aronne, la sua parola (vedi Mut. 208). Come l’intelletto è disponibile all’ascolto delle creazioni poetiche di Dio, così anche il linguaggio umano si accorda con il pensiero (vedi Det. 126 sgg.). Quando questo è chiaro, il linguaggio si serve di espressioni agili e infallibili, di termini efficaci (vedi Migr. 79).
III
Prima di salire sul Sinai, Mosè è stato quaranta giorni senza mangiare in una sorta di superamento della corporeità (Vedi Somn. 1.36): una specie di uscita dalla dualità del mondo sensibile che lo accosta alla monadicità di Dio. “Entrato nella tenebra, la regione invisibile”, viene iniziato ai sacri misteri; a lui lo spirito divino resta sempre accanto.28 È emblema dell’anima amante di Dio che allontana ogni forma di vizio e di passione, volta ai perfetti principi della virtù (vedi Leg. 2.54), dedita a contemplazione e visione. Quando riceve la Torah, egli è ispirato, strumento della comunicazione di Dio che parla attraverso di lui, posseduto da spirito divino. Salito sulla montagna, lontano dalle città, dalla confusione e le impurità che le caratterizzano, Mosè può volgere il suo intelletto alla “voce” divina e farsene bocca. Analogamente, i Settanta traduttori della Torah in greco, allontanatisi dal tumulto e dai rumori della città, recatisi nell’isola di Faro, circondata dal mare, immersi nella sola natura, in un luogo di tranquillità e di solitudine, possono liberare il loro intelletto, purificarsi da ciò che li trattiene nell’ambito del quotidiano, comunicare nella sola anima con la legge (vedi Mos. 2.36) e volgere la loro mente al lavoro di traduzione simili, per certi versi, a Mosè che riporta e “traduce” le parole divine ad Aronne. Ispirati da Dio, traducono la Torah cogliendone il significato profondo e trasferendo correttamente il senso di ogni singola parola. L’assoluta perfezione del loro lavoro che restituisce il testo nella sua totalità e in ogni particolare in una perfetta corrispondenza tra testo originale e passi tradotti, evidenzia il rapporto diretto che essi hanno con Dio: egli suggerisce loro ogni termine tanto che, “più che traduttori gli autori possono essere detti interpreti di misteri e profeti” (Mos. 2.40, trad. Graffigna, 1999).
Come se Dio avesse preso possesso di loro, profetizzavano, non chi in un modo, chi in un altro, ma tutti allo stesso modo, con le stesse parole, quasi che un unico suggeritore dettasse, non visto, ad ognuno (Mos. II. 37)
L’espressione qui impiegata, ὑποβολέως … ἐνηχοῦντος, esprime in maniera efficace l’idea dell’azione divina che ispira i traduttori, “detta” loro i singoli termini da usare, parla per loro tramite. La lingua impiegata dai traduttori è espressione proferita di ciò che Dio versa nelle loro menti.29 Ciò che è scritto è detto da Dio che parla facendo uso di un linguaggio comprensibile a chi ascolta, agisce direttamente sul pensiero dell’interlocutore. Si tratta di una comunicazione diretta ad individui particolari, trasmissione di parole dette in una lingua che viene colta dal pensiero.
Non è rilevante se la Torah, parola divina, si esprime in ebraico o in greco: questa è una modalità indifferente. La parola di Dio trova espressione in forme comprensibili agli uomini che giungono alla contemplazione dell’invisibile.30 I Settanta, però, ricevono le parole in una lingua data, espressa in nomi e verbi. Sembra che qui Dio comunichi con gli interlocutori con un linguaggio già formulato in forma umana, mediato rispetto al linguaggio noetico proprio della comunicazione con il profeta.31 Questi è uno strumento sonoro che Dio percuote e fa vibrare in modo invisibile.32 Come evidenzia M. Harl nella nota ad loc, il verbo impiegato, ὑπηχεῖν, rende bene l’idea, cara a Filone, di una voce interiore dell’anima che Dio fa risuonare.33
il profeta, anche quando sembra parlare, in verità tace, perché un Altro si serve, per rivelare le cose che vuole, degli organi, della voce, della bocca e della lingua del profeta, e con arte invisibile ed armonica, percuotendo queste, ne fa strumenti musicali, melodiosi, ricchi di ogni armonia (Heres 266)34
Preso da ispirazione, il profeta non dice nulla di suo. Soggetto ad un altro che gli suggerisce le parole e di cui è interprete, perde coscienza di sé. “Mentre la sua ragione si allontana e abbandona l’acropoli dell’anima, la invade e vi dimora il pneuma divino e fa vibrare tutta la strumentazione della voce” (Spec. 4.49, trad. mia. Vedi anche QG 4.196).
Dio ispira le cose che vengono dette e dirige il discorso.35 Così anche Balaam quando vorrebbe maledire è costretto a benedire, è strumento involontario delle parole di Dio. Posseduto da Dio parla dopo aver avuto una “chiara visione di Dio”, grazie agli occhi dell’anima.36 A lui le parole sono suggerite ed egli profetizza senza comprendere nulla, quasi fosse uscito di senno, senza riferire nulla di suo, ma ispirato dalla divinità.37 Il termine impiegato ad indicare l’azione divina di suggerire, ὑποβάλλειν, è il medesimo usato a proposito dell’ispirazione dei Settanta a Mos. 2.37 e di Mosè e Aronne a Migr. 80-81.38 Vi è, però, una differenza tra la comunicazione a Mosè che si esprime noeticamente e l’ispirazione ai Settanta, già “tradotta” in nomi e verbi. Non è ben chiaro a che livello si pongano, in questa distinzione, gli oracoli trasmessi ai profeti. Come ben ha chiarito Wolfson,39 le profezie possono essere di tre tipi: profezie attraverso il pneuma divino,40 attraverso la voce divina, attraverso gli angeli.41 Molte profezie avvengono anche attraverso sogni. Particolarmente significative per il nostro discorso le profezie espresse da Dio personalmente ἐκ προσώπου τοῦ θεοῦ (Mos. 2.188) alla cui base stanno vari riferimenti biblici: a Mosé Dio ha parlato bocca a bocca (Num. 12.8), faccia a faccia (Es 33.11; Dt 34.10).42 Mosè è, dunque, oggetto di una comunicazione particolare. Non solo egli traduce le parole di Dio, a loro volta, le sue parole devono essere tradotte. Nel linguaggio con Dio egli usa un linguaggio differente da quello impiegato dagli uomini, una lingua diversa sia da quella attuale, sia da quella originaria.
IV
Inizialmente, gli uomini avevano una sola lingua, usavano i nomi impressi da Adamo che
cogliendo le impressioni immediate date dai corpi e dalle cose nella loro pura realtà, coniò dei nomi perfettamente corrispondenti ad essi, afferrando con assoluta esattezza il significato delle cose […] tanto che le loro nature potevano essere insieme enunciate e pensate. (Opif. 149-150, trad. Kraus Reggiani [inRadice, 1994])43
Si può ipotizzare l’esistenza di un linguaggio archetipico, primordiale, ad imitazione dell’essenza delle cose.44
I nomi, dunque, principio di ogni lingua, sono il punto d’inizio e il fondamento del parlare. Sono anche simbolo dell’oggetto - sia esso designato o significato. Mosè considera
utile che fosse un solo uomo a dare i nomi, perché in tal modo, questi sarebbero risultati in accordo con l’oggetto, in maniera tale che <ciascun nome> avrebbe rappresentato per tutti il medesimo simbolo dell’oggetto designato o di quello significato (Leg. 2.15).45
Il testo postula l’origine umana del linguaggio, evidenzia un’armonia tra nomi e oggetti e pone una distinzione tra oggetto designato e significato (vedi Winston, 1991, p. 111). I nomi attribuiti non vengono dalla natura, ma sono conformi alla natura di una cosa, al punto che, quando un animale sente per la prima volta il nome attribuitogli da Adamo, lo riconosce come familiare e connaturale (cognato). Sia nelle Quaestiones in Genesim che nel De Opificio si associa il nome dato da Adamo agli animali al potere che Adamo deve esercitare (vedi anche Mut. 63). Siamo nell’ottica dell’attribuzione del nome come potere. Nominare una cosa vuol dire dominarla (Cf. Dillon, 1990, p. 207-210).
Se riconsideriamo ora la relazione tra lingua mosaica e lingua divina, possiamo rilevare una distinzione tra il linguaggio di Adamo, mimetico rispetto al linguaggio di Dio e il linguaggio mosaico in cui interviene la traduzione del linguaggio divino in linguaggio umano. Questo, nonostante che, anche per Mosè sia detto che i nomi corrispondono alla descrizione delle cose: “il nome e ciò cui è imposto non differiscono per nulla”.46 Un ulteriore passaggio sembra avvenire con il trascorrere da una lingua in un’altra. Pure, anche i traduttori della LXX riproducono esattamente i nomi e i termini originari: sembra, dunque che anche nel loro caso si abbia una perfetta rispondenza tra nome e realtà.47 Il problema non è tanto quello della corrispondenza tra nome e oggetto, quanto quello dell’individuazione di una lingua che permetta di cogliere i significati. È la lingua di Adamo per cui, data la perfezione di un’anima ancora pura, non intaccata da infermità, malattia o passione, il progenitore coglieva le impressioni immediate, afferrava il significato delle cose le cui nature potevano essere insieme enunciate e pensate: pensiero e parola erano un tutt’uno e i nomi corrispondevano ai significati (vedi Opif. 150, già citato). È la lingua perfetta originaria ed è forse comune ad uomini ed animali se nel giardino dell’Eden le parole del serpente sono comprese da Eva.48 Si può, cioè, pensare a una lingua unica, comune a tutti. A De confusione linguarum 7, però, tale ipotesi pare rientrare tra i miti: “Si racconta, infatti, che anticamente tutti quanti gli animali terrestri, acquatici e alati parlassero una medesima lingua”.49 In seguito alla trasgressione, Adamo ed Eva perdono la comunanza di linguaggio con gli animali: “Mosè […] ha posto una differenza tra gli esseri privi di ragione e quelli razionali, attribuendo ai soli uomini la comunanza di linguaggio” (Conf. 9). Con la torre di Babele, poi, gli uomini perdono l’unicità della lingua (vedi Winston, 1991, p. 118-119). Non si tratta più del linguaggio primordiale unico costituito da Adamo.
Rispetto ad Adamo, puro intelletto, non ancora inficiato dalla molteplicità e dalla materialità (vedi Opif. 148; QG 1.56), il cui linguaggio, comunque, è diadico nel momento in cui, con Eva è introdotta la dualità, gli individui seguenti, anche se virtuosi ed eccezionali, sono comunque ad un livello inferiore, più lontani da una comunicazione con Dio. Solamente Mosè parla liberamente con Dio, come a un amico (Her. 16-21). Si tratta di una parola mentale che utilizza la voce del’anima (Her. 14-15). Parallelamente, Dio parla ai progenitori e ai patriarchi che lo capiscono.50 È presumibile che anche con loro egli non usi nomi e verbi, ma parli un linguaggio noetico. Così nei sogni.51 Quando dal livello intellegibile è necessario passare ad un linguaggio verbale, trasmissibile ad altri, ecco che questo è necessariamente parziale ed incompleto. Così con Abramo: per autodesignarsi Dio utilizza un nome improprio, richiesto dagli uomini che hanno bisogno di un termine con cui rivolgerglisi, ma è un nome non adeguato. “Non ho rivelato loro il nome a me proprio (kyrion), bensì il nome usato impropriamente»”.52 Si tratta di un nome per catachresis, con cui Dio si presenta usando l’unico linguaggio che possa essere colto da un uomo: Dio traduce la propria lingua.53 A Mutat. 27 è ripreso il discorso dell’inadeguatezza di un discorso relazionale per designare Dio. È ribadito che Dio usa un linguaggio comprensibile per gli uomini anche se non risponde propriamente alla sua essenza.
Si ha, dunque, un trascorrere tra comunicazioni da parte di Dio che si volge all’interlocutore in maniera differente a seconda delle sue possibilità. Si tratta, comunque, di “traduzione” di una lingua noetica che può esprimersi monadicamente - ed è il caso della comunicazione a Mosè - o assumere già la forma di nomi e verbi propria del linguaggio umano - ed è quanto avviene con i Settanta, traduttori al pari di Aronne.
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Notes
Author notes
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