Enti inesistenti: Phantasmata in Platone
No-existing beings: phantasmata in Plato
Enti inesistenti: Phantasmata in Platone
Revista Archai, no. 18, pp. 113-149, 2016
Universidade de Brasília
Received: 01 May 2015
Accepted: 01 September 2015
Abstract: One of the debated topics about Plato’s Sophistis the distinction between original and image, more precisely, the difference among the original, the true and the false image. It’s only to justify this classification that the philosopher addresses to the demonstration of not-being and presents, right from the beginning of the Dialogue, the dualism ‘reality-appearance’. The aim of the present paper is creating a relationship between the concepts of not-being and appearance, as they are presented in the Sophist, to legitimize the existence of beings that are, al- though they are not real nor true, the phantasmata. This sort of beings is different from the other kind of image, because they are essentially misleading.
Keywords: Imagine (εἴδωλον), apparent image (φάντασμα), untruth, betrayal..
Sommario: Una delle questioni problematiche attorno allequali ruota il dialogo Sofista di Platone è la distinzione fra originalee immagine, più precisamente, la distinzione fra originale,immagini vere e immagini false. È per giustificare questaclassificazione che il filosofo si impegna nella dimostrazione delnon‑essere e gioca, sin dalle prime battute del dialogo, con ildualismo realtà‑apparenza. Scopo del presente articolo è di intrecciarele nozioni di non‑essere e apparenza, tali quali sonodefinite nel Sofista, per giustificare l’esistenza di enti che sono,pur non essendo reali né veri, i phantasmata, i quali si distinguonoda altre forme di immagine per il fatto di essere, per natura,ingannevoli.
Parole: immagine (εἴδωλον), immagine apparente (φάντασμα), falsità, inganno.
I termini dell’indagine1
Il termine immagine (εἴδωλον) è un sostantivo derivato da eidos, che significa “aspetto, forma”, proveniente dalla radice *weid‑, “vedere”2. Nei dialoghi di Platone l’ente reale, dal quale differisce l’eidolon, è propriamente l’eidos3. Wunenburger nota che eidolon “ha una sua contiguità con la nozione di irrealtà, nel senso di riflesso, e lo troviamo associato all’idea di menzogna” (1999, p. 9)4. Nel Fedone (81d3), Platone chiama eidola le anime che vagano nell’Ade e nella Repubblica (516a7) lo stesso termine è attribuito ai riflessi degli enti nell’acqua. Gli eidola nella tradizione omerica appartengono alla categoria del “doppio”, come l’ombra e l’apparizione soprannaturale (Vernant5, 1987, p. 109).
Il termine εἰκών, proveniente dalla radice – weik,indica più propriamente ciò che somiglia, la copia6. Il verbo difettivo eoika, da cui il sostantivo è derivato, significa “sembrare, avere l’aspetto di”, per questo Platone può asserire che “l’immagine è ciò che è simile” (Sph. 240b7). Pender interpreta l’εἰκών nel senso di illustrazione e similitudine quando usato in senso non retorico e nel senso di metafora in espressioni retoriche (2000, p. 1-27). All’interno di un contesto di produzioni artistiche, Platone riferisce il termine εἰκών all’uso positivo delle rappresentazioni7.
Il sostantivo φάντασμα è legato ai verbi phainomai . phantazo. Il primo termine si riferisce al fatto di “apparire”, mentre il secondo è usato per descrivere l’inganno poetico e sofistico8. Il termine ha il senso più generale di “ciò che si presenta all’osservazione”, e quello più tecnico di “falsa apparenza”. In Platone, come nota Centrone, phantasma ha il senso di parvenza ingannevole (2008, p.91 n63). Nel significato di rappresentazione interna all’anima, il termine precor- re la fantasia come facoltà dell’anima9.
Per finire, le parole sono considerate, nel Cratilo, μιμήματα (rappresentazioni, imitazioni) delle cose. Il dire, per Platone, è “un vedere, le parole sono immagini e la comprensione discorsiva è la visione di figure” (Palumbo, 2008, p.206 n.149). Villela-Petit precisa “les images dans l’ordre des choses se trouvent étroitrement associés aux homonymes dans l’ordre du langage”, pertanto, “la question de l’homonomye et celle de l’image s’averent être les deux faces inséparables d’une même question” (1991, p. 58-59). Il linguaggio è considerato da Platone un fenomeno legato alla creazione di immagini che, se non sono fisicamente percepibili, sono pur sempre figure10. Per indicare gli enti non reali, i Greci sono soliti affer- mare che essi sono tali solo in parole. Deianira, nelle Trachinie di Sofocle, afferma che eracle è suo sposo appena di nome, ma di fatto egli appartiene a Iole, più giovane di lei (v.47-551, apud Palumbo, 2012, p.157 n.35).
Nel presente studio, concentro l’attenzione su di un certo tipo di produzione mimetica che il filosofo ateniese nel Sofista distingue dall’immagine che rispetta le proporzioni del modello. Si tratta dell’immagine prodotta allo scopo di ingannare, quindi di occultare la differenza ontologica11 che la rende diversa dal modello reale: il phantasma. In vista di ciò, divido il testo in sezioni. Dopo aver menzionato alcune celebri ricorrenze della nozione in questione nella letteratura anteriore a Platone, indago la definizione di immagine; quindi l’origine delle immagini false, e il loro statuto ontologico; infine, termino con l’esame della relazione fra phantasmata artistici e phantasmata poetici.
IMMAGINI INGANNEVOLI NELLA LETTERATURA GRECA ANTERIORE A PLATONE
La cultura greca classica è consapevole che se tutto ciò che è vero è reale, non tutto ciò che è reale è vero: sogni, ombre, e copie sono reali, al punto da provocare forti emozioni, pur non essendo vere.
Esiodo, nella Teogonia, racconta le astuzie degli dei invidiosi che, per ingannare i mortali, giocano sul “doppio”, creando fumo, immagini e menzogne12. Ma la vera e propria storia degli inganni che l’immagine occulta nasce con omero.
Nell’Iliade, Achille afferma, “odioso m’è colui, come le porte dell’Ade, che altro nasconde in cuore ed altro parla” (9.312). Achille sta pensando ad Ulisse, i cui famosi travestimenti pongono il problema del rapporto tra ciò che appare alla vista e ciò che è proprio della natura dell’uomo. Ulisse riesce ad ingannare persino la sposa Penelope, ma non la nutrice, che riconosce una cicatrice nel corpo dell’eroe e ne svela la vera identità (Napolitano, 2007, p.137).
Nell’Odissea, il poeta descrive lo sgomento di Ulisse alla vista delle ombre che incontra durante la sua discesa all’Ade13. Nel luogo della morte, la madre Anticlea si manifesta al figlio nella voce e nei gesti. Ma quando Ulisse si lancia verso di lei nel tentativo di abbracciarla, si scontra con la dolorosa verità:
“Venne mia madre e bevve il sangue nero; subito mi riconobbe e gemendo mi disse alate parole. [...] esitando nell’animo, volevo prendere tra le braccia l’anima di mia madre defunta. Tre volte mi lanciai e l’animo mio mi spingeva a prenderla: tre volte simile a ombra o a sogno dalle braccia volò via; e a me ancor più nel cuore nasceva acuta pena” (Od.11.206-208)14.
Presenza impalpabile, quella di Anticlea, che ad ogni tentativo di approssimazione fisica svanisce nell’assenza.
Achille fa la stessa esperienza di Ulisse con l’immagine del valoroso Patroclo nell’Iliade:
“ed ecco Comparirgli del misero Patroclo In vision lo spettro, a lui del tutto Ne’ begli occhi simile e nella voce, Nella statura, nelle vesti [...] Coll’aperte braccia Amoroso avventossi, e nulla strinse, Chè stridendo calò l’ombra sotterra, e svanì come fumo. In piè rizzossi Sbalordito il Pelide, e palma a palma Battendo, in suono di lamento disse: oh ciel! Dell’orco gli abitanti han dunque Spirito ed ombra, ma non corpo alcuno? Del misero Patroclo in questa notte Sovra il capo mi stette il sospiro” (Il. 23.65-108)15.
Il fantasma di Patroclo è solo “un soffio, un’appa- renza illusoria” (ψυχὴ καὶ εἴδωλον)—perché è vuoto, “dentro non ha più la mente” (ἀτὰρ φρένες οὐκ ἔνι πάμπαν) (Il. 23.104).
Nell’ambito della letteratura drammatica, euripide mostra che l’immagine emoziona e ferisce a morte. Nel 412 a.C. il poeta porta in scena la tragedia Elena, in cui Greci e troiani sono indotti ad una guerra fatale a causa di un phantasma “dotato di respiro, fatto con un pezzo di cielo, simile in tutto <alla ‘vera’ elena> ...un vuoto miraggio” (El. 33-34)16.
Qualche anno più tardi, Platone commenterà nella Repubblica,
“ non sono costretti a provare piaceri misti a dolori, eidola del piacere vero e dipinti con l’ombra? [...] che suscitano contesa come l’eidolon di elena che – Stesicoro racconta – fu conteso sotto Troia da parte di quanti ignoravano il vero” (586a-c)17.
Nel Sofista e nella Repubblica Platone ribadisce che l’immagine è legata essenzialmente all’apparenza e alla falsità e indirettamente all’inganno (pseudos). Questa complessa relazione di idee è dovuta, tra le altre cose, all’ambiguità dei termini formati sulla radice pseud‑. La lingua greca non dispone, infatti, di termini distinti per indicare “finzione” o “falsità”18. “Del resto, scrive Platone, [...] questo apparire (τὸ γὰρ φαίνεσθαι τοῦτο) e questo sembrare ma non essere (καὶ τὸ δοκεῖν, εἶναι δὲ μή) e questo dire certe cose, ma non vere (καὶ τὸ λέγειν μὲν ἄττα, ἀληθῆ δὲ μή), tutti questi modi di esprimersi sono gravidi di difficoltà senza uscita” (Sph. 236e, corsivo dell’autore).
L’immagine: fra realtà e inganno
È propedeutico all’indagine sulle immagini false comprendere in una prospettiva unitaria il complesso fenomeno delle immagini e la loro origine.
Nel dialogo Cratilo, Socrate fornisce una definizione di immagine che mette in evidenza quell’aspetto costitutivo di essa che Gregory Vlastos chiama “principio di non-identità” (1973, p. 87). A Cratilo, che definisce una “buona immagine” quella che riproduce nel modo più fedele il suo modello, Socrate ribatte che l’immagine non deve riprodurre tutto di ciò che imita, se dev’essere una immagine.
“Non vi sarebbero, forse, due cose, quali, per esempio, Cratilo e l’immagine di Cratilo, se un dio, non solo riproducesse il tuo colore e la tua figura, come i pittori, ma anche tutto l’intero, così com’è, e gli assegnasse la stessa mollezza, lo stesso calore, e vi infondesse movimento, anima e intelletto, proprio quali sono in te, e, in una parola, di tutte le tue caratteristiche ti ponesse accanto la copia? In questo caso vi sarebbero, forse, Cratilo e una immagine di Cratilo, oppure due Cratili? – Mi sembra, Socrate, che vi sarebbero due Cratili” (Cra. 432c)19.
Quando vi è un’immagine, siamo in presenza di un’unica realtà e non di due enti (Perl, 1999, p. 343, 356). ora, se l’immagine non fosse solo una rappresentazione dell’esteriorità sensibile ma anche la riproduzione dell’essenza di Cratilo, semplicemente non sarebbe un’immagine.
Dal passo citato risulta evidente la differenza fra verità e correttezza delle immagini. Un’immagine corretta è quella che riproduce dettagliatamente il proprio modello. La correttezza dell’immagine non dice nulla a proposito della sua verità, che è invece legata alla natura rispettivamente del modello e dell’immagine. L’immagine vera è quella che mostra la propria distanza dal modello, ossia il suo essere immagine e non realtà. Non è il fatto di differenziarsi dal modello che fa dell’immagine un’immagine mendace, bensì il fatto di appiattire il modello su se stessa e perciò di spacciarsi per l’archetipo (Palumbo, 2012, p. 164). Come osserva Fronterotta, la separazione tra apparenza ed essenza che determina lo statuto ontologico delle immagini è dovuta al fatto di essere immagini e ciò di cui esse sono immagini, la loro pseudo-essenza, è costituzionalmente separata da esse (2007, p. 324 n. 140). “L’immagine è l’aspetto non sostanziale dell’oggetto” (Tate, 1932, p. 162 apud Cordero, 1993, p. 287), prodotto di una creazione artificiale, l’arte mimetica.
Nel Sofista Platone definisce i prodotti della mimetike techne20.
Alla richiesta dello Straniero di elea di chiarire che cosa si chiami “immagine”, teeteto propone una definizione che conferisce essere e unità al genere immagine21.
“Che cosa potremmo dire che sia l’immagine, se non l’oggetto fatto a somiglianza di quello vero, diver- so da esso, ma tale e quale?” (Sph. 240a8-10)22.
La definizione, apparentemente chiara, è profonda- mente oscura.
Lo Straneiro sollecita il giovane a chiarire il signifi- cato dell’espressione “diverso, ma tale e quale”23.
“Ma con diverso ma tale e quale, intendi dire un oggetto vero, oppure a cosa riferisci la parola “tale e quale?” (Sph.240a10-b1)24.
“Per niente un oggetto vero, bensì uno somigliante” (Sph.240b2)25.
Lo Straniero incalza: “Ma tu dici che il vero è ciò che esiste realmente?” (Sph. 240b3)26. teeteto confer- ma. e lo Straniero: “e allora, ciò che non è vero non è il contrario del vero?” (Sph. 240b5)27. teeteto conferma nuovamente. Conclude lo Straniero: “tu intendi dire allora che ciò che è simile non è, se affermi che non è vero. Ma è” (Sph. 240b8-10)28.
Alle linee b8-10 accetto la lezione dell’edizione di Cordero, che segue i manoscritti più antichi t (Venetus, App. Class. 4,1) e Y (Vindobonensis 21)29, usati nell’editioprinceps di Manuzio (Venezia 1513), nell’edizione classica di estienne (Ginevra, 1578) e nelle edizioni correnti fino alla metà del secolo XIX. Seguendo il testo dei manoscritti citati, l’immagine è un ente inesistente o, semplicemente, non è30.
In questa pagina del dialogo i due interlocutori si muovono ancora nell’orizzonte ontologico di Parmenide, secondo il quale l’essere è un attributo degli enti individuali determinati e la negazione è sinonimo di contraddizione (Cordero, 1993, p. 237 n. 164).
È necessario arrivare alle pagine 249a-268d per l’inaugurazione di un nuovo modo di pensare l’essere, inteso come dynamis koinonias, ossia “capacità di partecipazione”31. Se lo Straniero riuscirà a mostrare che anche il non essere può partecipare dell’essere, l’immagine sarà l’ente che non è, ma che, in quanto partecipa dell’essere, esiste, ossia, appare ciò che non è (Palumbo, 1998, p. 67).
Per raggiungere questo traguardo è necessario ripensare e definire nuovamente il non-essere32 . Infatti, fino a che il non-essere è inteso come il contrario dell’essere, al modo di Parmenide, non ci sarà possibilità di comunicazione con l’essere, visto che la comunicazione non può avvenire fra idee contrarie. Per riconoscere al non-essere lo statuto di ente, è imprescindibile dimostrare che il non essere non è il contrario dell’essere.
Tornando al testo del dialogo, è degna di rilievo una seconda variante dei manoscritti. Nei manoscritti più antichi, l’intervento dello Straniero termina con l’espressione: “tu intendi dire allora che ciò che è simile non è [...]. Ma è”, ossia, esiste. e, per questa ragione, sorge la contraddizione: l’esistenza di una cosa che non esiste33.
L’immagine non è vera, perché vera è solo la realtà. Se vero è solo l’ente reale e non vero il contrario del vero, l’immagine, non essendo vera, non è qualcosa che realmente è (Sph. 240b7)34. “Ma è” (Sph. 240b9)35, termina lo Straniero. Lo stupore di teeteto è manife- stato dall’espressione successiva: “Come!”36.
“Dunque tu dirai che esiste veramente”, continua lo Straniero” (Sph. 24010b10)37.
“È non in quanto vera, ma in quanto copia” (Sph. 240b11)38, termina Teeteto.
Di conseguenza, pur non essendo un ente reale, è realmente ciò che chiamiamo una copia. L’immagine non è realmente (ὄντως), ma pur non essendo vera, e perciò non essendo reale, l’immagine esiste in quanto copia (τὸ ἐοικός)39.
“Dunque, ciò che diciamo essere realmente una copia, non esiste realmente”40 sentenzia lo Straniero41.
“Può darsi che ciò che non è sia collegato a ciò che è in un intreccio di questo tipo, davvero strano” (Sph. 240c1-2)42 conclude Teeteto.
Nelle pagine 240a-c lo Straniero descrive l’immagine come ciò che realmente noi chiamiamo una copia, simile a, e diversa dalla realtà di cui è copia. Ciò che distingue il modello dalla copia reale è la partecipazione alla verità propria del primo e di cui la copia è priva43. L’immagine non partecipa della verità e, in questo senso, non è un ente reale ma è il suo contrario.
È in questo punto che la teoria di Parmenide deve essere superata. Il cammino parmenideo che assimilava l’essere alla verità comincia a dissolversi (Seligman, 1974, p. 18) e l’eidolon si manifesterà come l’ente che è in quanto partecipa dell’essere, è falso in quanto non è reale, ma non è necessariamente ingannevole44.
LO STATUTO ONTOLOGICO DEL φάντασμα
La definizione che Platone stabilisce alle pagine 240a-c non è quella di un’immagine in generale, ma di un tipo particolare di immagine che alle pagine 235b4-7 è indicata col termine φάντασμα ed è distinta dall’εἰκών (Palumbo, 1998, p. 61). Del resto, l’obbiettivo di Platone nel Sofista è di definire l’arte del sofista e non di fornire la definizione di immagine e nell’ultima diairesis il sofista sarà definito come colui che mette in campo nella sua arte di creare immagini la produzione di φαντάσματα, ossia di pure immagini false45.
La caratteristica propria del φάντασμα è di apparire vero senza esserlo, quindi di voler ingannare46. Per determinare lo statuto ontologico del φάντασμα è necessario anzitutto definire il non essere come dif- ferenza dall’essere (θάτερον), che si presenta come somigliante (ἐοικός), quindi come falsità47 (ψευδῆ) e, infine, come apparenza (τὸ φαίνεσθαι [...] τὸ δοκεῖν Sph. 236e1). Percorro succintamente queste tappe.
Nel Sofista, il non-essere entra in scena alle pagine 251-258, precisamente quando lo Straniero riflette sulla differenza fra il genere movimento e l’essere (Sph. 256d5-6). Queste pagine sono fra le più brillanti e studiate del Dialogo48. Platone supera definitivamente l’antica concezione dell’essere inteso come un oggetto e riconosce che appartiene alla natura degli enti la condizione dell’agire e del patire reciproci49, da cui deriva il rapporto di comunicazione (μεταβάλλειν) fra gli enti (Sph. 255a12-13)50. Questa capacità di comunicare è l’essere (Sph. 247d-e)51. “Les choses existent parce qu’elles ont une puissance de communiquer” (Cordero, 1993, p. 49).
Tra idee contrarie, tuttavia, la relazione di comunicazione non può instaurarsi. Perciò, se il non essere è, non può essere inteso come il contrario dell’essere. ecco perché alla pagina 257b3-4 Platone afferma: “Quando diciamo il non essere non diciamo qualcosa di contrario all’essere, ma soltanto di diverso dall’essere”. Con questa dichiarazione Platone supera l’aporia provocata dalla concezione di Par- menide (240a7-c2), secondo la quale la negazione è sinonimo di contrarietà.
“quando si dice che la negazione significa il contrario, non saremo d’accordo, ma concederemo solo che il “non” e altre particelle del genere, quando vengono preposte, indicano qualcosa di diverso dai nomi che le seguono, o piuttosto dalle cose, quali che siano, a cui si riferiscono i nomi pronunciati dopo la negazione” (Soph. 257b9-c3)52.
Il ruolo delle particelle ou . me non è di esclusione dall’esistenza, ma di diversità dall’essere. Il non essere non è negazione dell’identità, perché essa è il diverso; né è esclusione dall’esistenza, perché essa è il nulla, e il nulla è stato bandito da sempre e per sempre dall’indagine53.
“Dunque è necessario che il non essere sia in riferimento al movimento e tutti gli altri generi. Infatti in riferimento a tutti la natura del diverso, rendendo ciascuno di essi diverso dall’essere, lo fa non-essere e su questa stessa base noi diremo correttamente che tutti sono non esseri, e viceversa, in quanto partecipano dell’essere, che sono e sono esseri” (Sph. 256d11-e3)54.
Il non essere è una parte del genere del diverso, quella parte che si contrappone precisamente all’essere dell’ente55. “La natura del diverso, rendendo ciascuno dei generi diverso dall’essere, produce il non essere” (Sph. 256d12-e1).
Se il non essere è parte della natura del diverso e “se la natura del diverso è risultata far parte delle cose che sono, se essa è, è necessario porre che non meno siano anche le sue parti” (Sph. 58a7-9). In conclusione,
“l’opposizione di una parte della natura del diverso e della natura dell’essere, reciprocamente contrapposte, non è affatto meno essere, se è lecito dirlo, dell’essere stesso, in quanto essa significa non un contrario dell’essere, ma sol- tanto un diverso da esso” (258a11-b3)56.
La nuova ontologia permette a Platone la riabilitazione del non essere nel quadro di ciò che esiste, a patto di non essere pensato come contrario all’esistenza, ma come differenza rispetto a ciò che esiste. Se il non essere non esistesse non esisterebbero phantasmata, ossia, inganni, immagini apparenti, sogni, ombre e discorsi falsi (εἴδωλα λεγόμενα)57. La natura del non essere, di esistere senza essere reale né vero, introduce alla dimensione dell’apparire e della falsità, dell’immagine apparente e dell’inganno58.
Esistono enti non-enti, ossia enti inesistenti che sembrano ciò che non sono. essi sono apparenze che si spacciano per realtà, sono falsi al pari di ogni immagine in generale ma, diversamente da altre specie di immagine, si spacciano per veri59.
L’immagine vera (εἰκών) rappresenta l’originale attraverso una serie di deformazioni essenziali al suo statuto di immagine (Laspia, 2011, p. 113); l’immagine falsa non rispetta la sua natura propria, che è di “donner à penser l’écart ontologique entre la copie et son modèle, ainsi que la rélation qui les unit” (Desclos, 2000, p. 307)60.
PHANTASMATA NELLE IMMAGINI E NEI DISCORSI
Accanto al Sofista, un altro testo chiave per comprendere la nozione platonica di immagine falsa nell’arte e nei discorsi è la Repubblica, specialmente i libri 3 e 1061.
Nel III libro, Socrate distingue tre tipi di logos nella composizione poetica: la narrazione di tipo semplice, quando il poeta narra in terza persona; con rappresentazione, quando il poeta riporta un discorso sostituendosi al personaggio e parlando in prima persona; mista, quando il poeta usa entrambe le modalità descritte (392d5-6)62. Ciò che distingue il primo dal secondo tipo di narrazione, è che nel primo caso si ha una narrazione indiretta, in cui il poeta lascia intendere che chi parla è egli stesso e non un personaggio; mentre nel caso della diegesis dia mimeseos, si ha “l’occultamento della figura dell’autore dietro quelle dei personaggi” (Gastaldi, 1998, p. 363).
Il filosofo illustra la narrazione dia mimeseos attraverso il famoso episodio di Crise, tratto dal primo libro dell’Iliade. Pur esistendo una realtà e la sua immagine, ossia Crise e la sua rappresentazione, Omero si sostituisce al personaggio e parla in sua vece. “Conformant sa propre expression à celle de ses personnages, le poète donne aux produits de son imagination la plus grande autonomie possible, en créant l’illusion que les propos de ses personnages sont prononcés devant nous par eux mêmes” (Tesseirenc, 2005, p.74, apud Palumbo, 2008, p. 254). Assumendo il ruolo del personaggio, il poeta induce a credere che sia il vecchio sacerdote a parlare. “Quel che rende negativo questo atto mimetico, scrive Palumbo, è la stessa caratteristica che rende negativa ogni immagine falsa di un modello, e cioè il fatto che essa non lascia trasparire alcuna differenza tra se stessa come immagine e il modello che essa rappresenta” (2008, p. 240).
Alla fine del Dialogo Platone riprende la critica alla poesia, assimilando la poesia alla pittura63. Pittura e parola possono essere tanto rappresentative del vero, quanto sue deformazioni. La denuncia di Platone è chiaramente rivolta solo contro quelle immagini e quei discorsi che spacciandosi per ciò che non sono, ingannano l’ascoltatore64. Del resto, serebbe un grande errore, sottolinea con forza Platone in Fedone 89d-90d, se qualcuno passasse ad odiare i discorsi nella loro totalità65 solo per aver fatto esperienza dei discorsi apparenti e ingannevoli, perché anche la verità ha come orizzonte i discorsi che ad essa aspirano. La misologia nasce esattamente come la misantorpia. La misantropia nasce nell’atto di riporre eccessiva fiducia in una persona senza conoscere realmente la natura umana (89d5), quando si considera una persona veritiera e fedele (ἀληθῆ εἶναι καὶ ὑγιῆ καὶ πιστὸν τὸν ἄνθρωπον 89d6) ed essa si rivela falsa e sleale. Nel caso dei discorsi accade qualcosa di analogo (90b4-5). Quando qualcuno crede nella verità di un discorso (90b6) senza essere in possesso della tecnica dei discorsi (ἄνευ τῆς περὶ τοὺς λόγους τέχνης 90b7) e poco dopo lo stesso discorso si rivela falso (ὕστερον αὐτῷ δόξῃ ψευδὴς εἶναι 90b8), finisce per non credere più nei discorsi. Ma sarebbe deplorevole se qualcuno, dopo essersi imbattuto in discorsi falsi e apparenti, non accusasse se stesso e la propria incompetenza, ma attribuisse la colpa ai discorsi e passasse il resto della vita ad odiarli, rimanendo privato della verità (90b6-7)66.
Ciò che accomuna immagini false e discorsi falsi è la forza coinvolgente che esercitano sugli uomini e, per questo, l’uso di immagini apparenti e di discorsi ingannevoli si rivela pericoloso per chi ne fruisce67. È questo il caso delle rappresentazioni amate dagli appassionati di suoni e di spettacoli (R.5.476b4), ma è soprattutto il caso degli amanti della pittura (R.10.598c) e del pubblico dei poeti (R.10.598d5-6).
Il pittore trasforma la realtà, perché, utilizzando la skiagrafia, con abili giochi di ombre e colore la deforma, confondendo piano reale e ludico68. Un pittore può ritrarre un falegname e se é un bravo pittore (εἰ ἀγαθὸς εἴη ζωγράφος), mostrando l’immagine da lontano, ingannerà bambini e uomini di poco senno, facendo loro credere che si tratti di un soggetto reale (10. 598b8-c4). Il filosofo osserva che se il pittore è bravo crea un phantasma che spaccia per reale ciò che è appena apparenza e inganno69.
La pittura d’ombra (σκιαγραφία)70, facendo leva su un’affezione propria della natura umana71, non tralascia alcuna stregoneria per ingannare (602d1-4) e di tale trabbocchetto sono vittima non solo gli occhi, ma anche l’udito (ἡ κατὰ τὴν ὄψιν μόνον, ἢ καὶ κατὰ τὴν ἀκοήν). Dunque non prestiamo fede solo al verosimile generato dalla pittura, ma procediamo oltre, sino a quell’elemento della nostra capacità cognitiva al quale somiglia la parte mimetica della poesia (10. 603b6-10).
La pittura inganna usando la skiagrafia di colori, luci e ombre. La poesia inganna usando una forma di skiagrafia psicologica, con la quale tradisce le proporzioni reali dei sentimenti. I sentimenti di piacere e dolore appaiono troppo grandi e troppo vicini, ossia troppo intensi e il pubblico emotivamente coinvolto, vive quei sentimenti come se fossero reali72.
L’analogia fra poesia e pittura gioca sul fatto che entrambe hanno influenza sulle persone inesperte e entrambe confondono le prospettive. Si tratta di arti analoghe che producono analoghi effetti usando analoghi stratagemmi. La sola differenza è che le immagini pittoriche sono visibili, le immagini poetiche solo si rivelano agli oculi mentis (Palumbo, 2008, p. 222 n. 198).
Nel mettere in parallelo questi due tipi di manifestazione artistica, Platone riprende una tradizione consolidata nella letteratura greca. Alcidamante nell’orazione Sugli autori di discorsi scritti, ovvero sui sofisti ai versi 27-28 parla di immagini, figure e rappresentazioni di discorsi73. Celeberrima è ancora l’analogia attribuita a Simonide “la pittura è poesia muta, la poesia pittura che parla”74, la quale rinforza una tradizione che sarà rinnovata dalla Poetica di Aristotele75.
Come scrive Severi, “la parola [...] crea la realtà che intende rappresentare” (2003, p. 77). La realtà non può essere espressa in quanto tale da un discorso, perché non può essere racchiusa da alcuna formula scritta o orale, ma nasce e vive nell’azione dei logoi (Capra, 2001,p. 24-25). Come lo stesso Aristotele riconosce, la narrazione poetica ha tanto più valore quanto più riesce a produrre ciò che dice “dinnanzi agli occhi” (πρὸ ὀμμάτων γὰρ ἔστι τι ποιήσασθαι De An. III 427b18-19) degli ascoltatori e in questo omero è un grande maestro.
L’immagine pittorica è “abbellita” dal gioco del colore, dell’ombra e della proporzione e l’immagine poetica dal metro, dal ritmo e dall’armonia. Il pittore dipinge con colori e figure; mentre il poeta “dipinge con nomi e verbi (R. 601a5-6)76. In questo modo, la parola crea gli orizzonti visivo e emotivo, e pittore e poeta diventano i registi dello spettacolo che rappresentano; essi stabiliscono ciò che è concesso vedere e ciò che rimane nascosto.
Esiste un unico antidoto a questi equivoci dell’ani- ma. Il pharmakon che riporta gli uomini al vero e salva l’anima dal cadere vittima degli inganni dell’apparenza è l’arte della proporzione, ossia il logos che calcola e misura le reali proporzioni dei piaceri e svela l’inganno della thaumatopoiía (l’arte illusionista) e della skiagrafia psicologica. All’arte metretica (μετρητικὴ τέχνη.Platone affida “la salvezza della vita” (ἡμῖν σωτηρία ἐφάνη τοῦ βίου) (Prt. 356c-357b).
CONCLUSIONE
Il termine immagine non è nuovo nella cultura greca ed è indicato da vocaboli differenti: eidolon, eikon . phantasma, ai quali si associa in certi contesti onoma. La caratteristica comune a queste differenti voci è il fatto di trattarsi di enti diversi dagli enti reali. Ciò che connota le immagini in un modo generale è una separazione tra essenza e apparenza: ciò che appare essere e che si vede è precisamente ciò che esse non sono, ossia l’archetipo. L’immagine si comporta come un rappresentante diplomatico, in quanto pone lo spettatore in presenza di una realtà che non appartiene direttamente all’orizzonte visibile.
Derrida ha notato che l’essenza dell’immagine sta nel suo non rispondere alla sua propria essenza (1989, p. 168). Non si tratta propriamente di un altro ente, ma di un modo di essere dell’ente, precisamente, dell’apparire dell’ente nel suo mostrarsi a qualcuno.
Nella presente indagine ho circoscritto l’analisi della nozione di immagine al concetto di immagine ingannevole nei testi di Platone, in particolare nei dialoghi Sofista . Repubblica. La scelta è ricaduta sul filosofo ateniese perché è stato il primo pensatore ad aver sollevato alcune fondamentali obiezioni sul valore e sullo statuto della mimesis artistica ed ad aver orientato il modello dell’arte mimetica all’interpretazione della relazione fra il mondo naturale e il livello intelligibile del reale, e alla comprensione del rapporto fra livelli sensibile ed intelligibile e la conoscenza umana.
Dopo aver brevemente tratteggiato il valore dell’immagine nella letteratura anteriore agli scritti platonici, mi sono soffermata dapprima sull’origine dell’immagine nel Sofista, quindi ho differenziato, all’interno del genere più abrangente, l’immagine ingannevole.
A partire dalla pagina 240 del Sofista, Platone sente la necessità di sviluppare la teoria di Parmenide, per poter distinguere l’eidolon che in quanto partecipa dell’essere è, è falso ma non è necessariamente ingannevole, dall’eidolon che è, è falso e essenzialmente ingannevole.
La “falsità”, nel senso di carenza di realtà, è propria di tutte le immagini, ma l’immagine fedele (eikon), mostra il suo statuto di immagine, in quanto non nasconde la differenza ontologica che la allontana dal modello, quindi dichiara il suo proprio non essere. Detto in una parola, l’eikon è falso e non lo nasconde. L’immagine ingannevole (phantasma), al contrario, occulta il suo essere immagine, e quindi il suo non essere, e si impone non solo come reale, ma nasconde la sua falsità dietro l’apparenza.
Platone sottolinea che, sebbene tutte le immagini siano legate alla dimensione dell’apparenza, non tutte ingannano. Negativo è solo un certo tipo di immagine, ossia la rappresentazione che tende ad apparire ciò che non è e a sostituirsi al suo proprio modello. Gli eidola pittorici e poetici che Platone denuncia nel libro X della Repubblica e gli eidola retorici del Sofista, non sono rappresentazioni artistiche della realtà, ma apparenze che si spacciano per enti reali (R. 10. 598b e Sph. 234b). tali immagini sono phantasmata falsi e ingannevoli, essendo essenziale alla loro natura sembrare ciò che non sono.
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Notes