Sommario: Lo studio mira a indagare il contributo della storiografia giuridica, tradizionalmente impegnata nell?analisi della legislazione statutaria delle Città e delle comunità locali nell?epoca medievale e moderna, alla luce dell?attuale disciplina costituzionale italiana sull?autonomia normativa degli enti locali.
Abstract: This essay aims at studying the interpretations made by the current juridical historiography in relation with the Italian Cities? Statutory Law, as traditionally conceived during the Middle and Modern Ages, also taking into account the fact that the Statutory Law is important for the existing Italian constitutional system.
Keywords: Legal History, Statutory Law, Italian Cities, Local, Municipal Government, History of Administrative Law, History of Public Administration, Urban Law, Civic Identity, Polycentrism.
Storiografia giuridica e autonomie locali nell?Italia contemporanea
Storiografia giuridica e autonomie locali nell?Italia contemporanea
Juridical historiography and local autonomies in the Italy?s contemporary age
Received: 26 January 2015
Accepted: 12 February 2015
1. Il «ritorno di fiamma» di «una fonte di complessa tipologia». 2. Dallo «statuto redivivo» all?«orizzonte ermeneutico post statuale» dell?autonomia. 3. Riferimenti.
Gli interventi del legislatore italiano a cavaliere dei secoli XX-XXI, culminati con la costituzionalizzazione del principio di autonomia normativa di comuni, province e città metropolitane, tramite l?esercizio dell?autonomia statutaria e regolamentare [1], hanno impresso un?accelerazione nello sviluppo di nuovi moduli interpretativi diretti a uno studio comparativo tra la legislazione statutaria delle civitates e quella dei centri minori e una diversa attitudine intorno al rapporto tra ?storia delle città? e ?storia delle comunità? [2], al fine di far emergere i tratti peculiari dell?universo policentrico d?antico regime.
La storiografia giuridica è parsa subito interessata a recuperare spazio nell?analisi e nell?indagine dei temi dell?autonomia politico-normativa e finanziaria degli enti locali [3], potendo contare su una consolidata tradizione di studi nell?Italia centro-settentrionale, tanto da suscitare interesse anche negli storici dell?età moderna, accanto ai medievisti, nella logica di un approccio multidisciplinare [4]:
La storia del diritto che negli ultimi anni ha registrato un imperioso ritorno, dopo un periodo di eclissi, per merito dei suoi studiosi ex-professo, ha conosciuto anche l?attenzione di storici dell?età moderna. La storia delle comunità ha dunque beneficiato (se non promosso in taluni casi) di quello che... abbiamo definito un "ritorno agli statuti" [5].
Il «ritorno di fiamma» [6] degli statuti ha offerto la possibilità agli studiosi di affrontare in modo più articolato anche il tema storiografico del "dualismo italiano", costruito sull?idea di un Regno, nel Sud del paese, che dalla sua nascita, nel XII secolo, aveva mostrato notevoli capacità di sviluppo di un modello di ordinamento pubblico accentrato sulla monarchia e sulle aristocrazie feudali, sacrificando la vitalità economica e commerciale delle comunità urbane, tanto da essere classificato come "area passiva" prevalentemente agricola, destinata ad essere sfruttata commercialmente dalle forze autonome, manifatturiere, mercantili e finanziarie che promanavano dallo sviluppo comunale delle città nel Centro-Nord [7].
La chiave di volta, allora, è consistita nel collocare i rapporti tra Nord e Sud d?Italia in una prospettiva di interconnessione, più che di lineare dipendenza economica, tra diverse aree della penisola, badando ad evitare l?applicazione di rigidi schemi di omogeneità e di uniformazione, perché la presenza di una logica di scambio ineguale, certamente evidente, nondimeno si è rivelata suscettibile di significative oscillazioni in relazione alle variabili geografiche, storiche e agli sviluppi dei singoli settori sociali, economici e commerciali, di volta in volta, presi in considerazione. Nello stesso tempo, se si eccettua l?insorgenza del "nuovo dualismo" noto come "questione meridionale", conseguente all?unificazione dell?Italia nel XIX secolo [8], la storiografia ha colto l?opportunità di allargare gli orizzonti di ricerca, in una prospettiva non soltanto nazionale, ma che, obbligatoriamente, si rivolge in chiave comparatistica ad osservare le trame delle dinamiche relazionali tra le regioni europee e quelle mediterranee [9].
Sul piano più strettamente giuridico, il "dualismo italiano", riguardante la diversa natura e fondamento degli ordinamenti municipali tra le città del Nord e quelle del Sud, era stato già messo a fuoco e calibrato nei primi decenni del Novecento dallo storico del diritto italiano, Francesco Calasso, il primo a «ricostruire anche per l?Italia meridionale una dottrina degli Statuti» [10] e a far uscire dallo "stato di minorità" «La legislazione statutaria dell?Italia meridionale» [11].
A raccogliere il testimone del maestro salentino è stato uno dei suoi allievi, Mario Caravale, che sin dagli anni ottanta del XX secolo si è reso promotore di iniziative dirette a
riprendere l?analisi del diritto statutario e consuetudinario delle città dell?Italia meridionale e della Sicilia, senza lasciarsi coinvolgere dalla polemica che ha impegnato gli storici, e soprattutto gli storici del diritto, tra la seconda metà del secolo scorso e la prima metà del nostro... Appare ormai necessario esaminare quel diritto proprio nel suo contenuto, per coglierne la ricchezza e il notevole apporto al quadro complessivo dell?ordinamento giuridico del regno [12].
Per qualificare il livello d?interazione organica tra i compiti amministrativi delle comunità locali del Sud d?Italia in antico regime e la presenza di un ordinamento politico unitario di tipo monarchico, lo storico medievale, Ivan Antonio Pini [13], ha utilizzato la categoria dell?«ente amministrativo», differenziandola dal modello del «comune politico» dell?Italia centro-settentrionale [14]. Una linea interpretativa, questa, descritta con una sensibilità affinata dall?esperienza politica anche dallo storico medievale e moderno napoletano, Giuseppe Galasso, secondo il quale:
Nella fissazione del comune come modulo ed ente amministrativo locale l?esperienza del Mezzogiorno ebbe... un suo valore che andava ben oltre i confini del paese, e non si può neppure negare che la «legislazione statutaria» dei comuni meridionali abbia rappresentato un importante contributo alla formazione del grande patrimonio amministrativo italiano e della sua esperienza istituzionale e normativa [15].
Questo tipo di argomentazione mostra, tuttavia, le asperità di una valutazione giuridica che racchiude fattori di criticità, laddove ci si spinga, e non è il caso degli autorevoli maestri summenzionati, ad appiattire il discorso storiografico sulla riduzione del rapporto tra monarchia e città dei Regni di Napoli e di Sicilia in un automatico rapporto di comparazione tra Stato ed enti locali, nell?accezione contemporanea:
Si tratta, infatti, di due relazioni diverse nella sostanza, dato che si tratta oggi della dialettica tra l?unico titolare della sovranità e un ente locale, nel Medioevo di quella tra due titolari di dominium sul territorio municipale. Una differenza che dovrebbe suggerire estrema cautela nell?utilizzare per il Medioevo lo stesso concetto di «autonomia» costruito dalla scienza giuridica del secolo XIX in riferimento alla competenza degli enti territoriali locali definita dalla legge statale [16].
Si aggiunga, poi, che nell?età moderna la tendenza a sviluppare pratiche di governo di stampo assolutistico nel regno di Napoli produsse un modello di Stato giurisdizionale "macrocefalo", vale a dire avviluppato sulla capitale e sui tribunali supremi, con modelli urbani periferici dai tratti giuridici peculiari e nondimeno rilevanti rispetto al contesto nazionale [17], i quali attendono di essere studiati a fondo senza ricorrere agli abusati e anacronistici termini dell?«analogia» o peggio dell?«anomalia» rispetto ai corrispettivi del Centro-nord d?Italia [18]:
Un?altra importante caratteristica della storia provinciale del Regno di Napoli, che si viene delineando in età moderna, è l?assenza di un vero e proprio sistema urbano. Le città non mancano: non solo gli ambiti provinciali della Campania e delle Puglie, ma anche altre aree del Mezzogiorno presentano nuclei urbani dotati di una storia vivacissima e dal punto di vista economico-sociale e dal punto di vista civile. Essi hanno potuto sviluppare nel tempo un complesso di funzioni legate al particolare tipo di insediamento, alla vita religiosa, all?economia protoindustriale o agricolo-pastorale, agli scambi commerciali, al servizio politico-amministrativo, alla posizione strategico-militare, ecc. Ma le città meridionali sono intimamente collegate al territorio rurale da una stretta rete di interdipendenze: il continuum città-campagna è un elemento caratterizzante, nel senso che la città dipende largamente dal contado per la formazione del reddito e della ricchezza, e nel senso che la città raramente svolge una funzione di coordinamento e di organizzazione del suo hinterland. Tra il XVI e il XVIII secolo la dimensione prevalente dei comuni meridionali ? oltre il 70% ? è inferiore agli 8 mila abitanti [19].
Analoghe considerazioni si possono cogliere negli studi dello storico del diritto italiano e delle istituzioni politiche, Andrea Romano, per quanto riguarda il regno di Sicilia:
Prassi statutaria e contrattualismo diventavano espressione degli equilibri politici del Regno che si riflettevano nei capitula e nelle consuetudines seu statuta delle città. Illuminante, in tale prospettiva, può risultare l?indagine diplomatica, a torto sottovalutata da chi disprezza i lettori di carte polverose, colme di particolari... Quelle formule, con il passaggio dai diplomi alle gratiae, nella loro intrinseca diversità, finivano per essere il risultato di equilibri politici e attestavano realtà giuridiche diverse, peraltro non sempre ben comprese, specialmente da chi legge le vicende siciliane e del diritto dell?Isola, in aderenza o in contrapposizione all?altra Italia o da chi guarda alla Sicilia collocandola in un generico "regno meridionale" [20].
La fioritura di studi sulle città del Sud d?Italia ha trovato una sintesi tra medievisti, modernisti e storici del diritto, nella consapevolezza di verificare, attraverso attività di ricerca e di valorizzazione del materiale documentario superstite, la possibilità di costruire nuove basi di interpretazione delle vicende urbane per il tramite del tema dell?identità, come si evince dalle riflessioni di Pietro Corrao [21]e di Giovanni Vitolo:
un campo promettente di indagine è... quello delle città, che appaiono in grado di interagire sempre, sia pur con esiti diversi, con il potere regio, con il ceto baronale e con le comunità rurali, sviluppando nello stesso tempo una strategia "identitaria" pienamente comparabile con quella di altre realtà urbane dell?Italia e dell?Europa: strategia che fu assai varia e si attuò con tempi diversi, anche se fu soprattutto sul finire del Medioevo che giunse ad esiti tendenzialmente stabili e duraturi, non a caso in coincidenza con i fenomeni di consolidamento delle istituzioni politico-amministrative e di formalizzazione della preminenza sociale e politica. Saldamente inquadrate nelle strutture dello "Stato moderno" spagnolo e sotto la protezione di santi patroni di collaudata potenza, ma nello stesso tempo consapevoli del carattere identitario del proprio patrimonio normativo e della propria storia politica, religiosa e culturale, le città del Mezzogiorno si accingevano ad affrontare una navigazione ancora più difficile e avventurosa di quella medievale, prima, nel "lungo Cinquecento" e poi in quelli che la storiografia chiamava "i tempi grigi della storia d?Italia" [22].
Assolutamente speculare all?orientamento metodologico delineato dai due storici medievisti è il quadro d?indagine tracciato dagli storici del diritto Beatrice Pasciuta [23], per il regno di Sicilia, e Aurelio Cernigliaro, per il regno di Napoli, il quale ritiene indispensabile abbandonare il riferimento al
criterio dell?autonomia [24], ossia di uno specifico potere deliberativo, mentre rilievo crescente assume l?identità [25] del centro di volta in volta preso in esame: quanto a dire in sede storiografica l?esigenza di chiarirne a fondo i termini peculiari dell?essere in rapporto alle entità finitime od analoghe per condizioni esistenziali ovvero ? e sopra tutto ? in rapporto alla ?dominante?. Quell?esigenza generale s?impone, d?altra parte, in maniera precipua per la realtà giuridica ed istituzionale del Mezzogiorno quando ci si prefigga d?individuare per i centri minori la sfera di specifica identità innanzitutto in riferimento a Napoli come centro-capitale [26].
La storiografia giuridica, sull?onda della cornice normativa approntata in Italia tra la fine del XX e gli inizi del XXI secolo, che sembrava avviare una stagione di costruzione di diverse e più aggiornate forme di democrazia partecipativa e di superamento del rigido centralismo statale attraverso il richiamo, nell?esercizio dell?autonomia normativa degli enti locali, alle specificità territoriali e storiche, è ritornata, quindi, a Nord come a Sud del paese, ad occuparsi della legislazione statutaria delle città d?antico regime. L?attenzione metodologica si è presto configurata come esigenza accademica di fornire agli estensori dei nuovi statuti la ricostruzione di una documentazione storica, che, affiancata ai dati paesaggistici, archeologici e linguistici, potesse essere in grado di restituire vitalità a una fonte giuridica d?antico regime, non nella dimensione comparativa in quanto a natura e fondamento, ma nella veste di recuperato patrimonio genetico e identitario funzionale alla contemporanea gestione del patrimonio culturale ed ambientale locale.
La storiografia politica italiana, invece, dal 1945 in poi, ha mostrato una pressoché indifferenza in merito al tema del particolarismo territoriale, ritenendolo un inutile fardello di cui la modernità si era presto liberata attraverso la scelta dell?accentramento e del potere statale innervato su scala nazionale. È pur vero che le interpretazioni romantiche e risorgimentali sul tema della libertà dei liberi comuni medievali italiani, rese in musica anche da Giuseppe Verdi [27], hanno fatto breccia nelle teorie indipendentiste e federaliste assorbite e proposte da alcuni movimenti territoriali nel Nord d?Italia, confluiti nei primi anni novanta del secolo scorso nel partito della Lega Nord[28]. Ma proprio queste tendenze hanno finito per innalzare uno steccato nella valutazione negativa degli enti locali come "anti-Stato", causa di frammentazione del potere politico e di debolezza dell?autorità pubblica centrale asservita agli interessi particolaristici delle fazioni e dei gruppi di interesse territoriali[29].
Verso la fine degli anni novanta del XX secolo, è stato coinvolto nel dibattito storiografico sul tema statutario anche lo storico del diritto, Mario Sbriccoli, autore di un?insuperata monografia nel 1969 sul ruolo dei giuristi nel funzionamento delle istituzioni comunali, non a caso ristampata nel 2002 [30], che gli aveva consentito di indagare «i rapporti di potere, le ideologie politiche, gli strumenti di mediazione di cui l?interpretatio iuris dei giuristi è parte integrante attraverso la scrittura, l?uso e la revisione [degli statuti]» [31].
Al fine di agevolare l?individuazione di strumenti più aggiornati di analisi, lo storico di Macerata ha indicato il percorso da seguire per rinnovare la letteratura storico-giuridica. Una fonte certamente giuridica, ma di «complessa tipologia» [32], come quella statutaria, richiede sul piano metodologico un più intenso dialogo tra giuristi e storici della società. Non stupisca, dunque, il monito agli studiosi del
rilievo della legislazione statutaria non solo nella storia del giuridico, ma anche ? e forse soprattutto ? nella storia politica delle città, perché è ormai acquisita anche per gli storici non giuristi la convinzione che la storia delle città sta in grandissima parte nella storia della loro costituzione formale e materiale. Ma negli statuti c?è molto di più che questo: c?è la traccia stabile delle culture, dei conflitti, della crescita anche materiale della comunità, della loro produzione artistica, del loro sviluppo economico e della loro maturazione civile... Ma lo statuto non è una legge, nel senso che noi diamo a questa espressione, e tanto meno una «carta costituzionale» moderna. Lo statuto è il risultato stratificato di una storia, ed in questa misura registra e conserva elementi storici che possono sembrare, e magari sono, contraddittori e incoerenti... Questo elemento della lunga durata è, per così dire, l?indizio probante della valenza simbolica dello statuto, considerato alla stregua di un baluardo, un?ancora della autonomia; in tempi più tardi, tra XVII e XVIII secolo, sarebbe stato tenuto come l?antico testimone della identità, o meglio ancora, forse, della speranza di una comunità, che ha perso la sua autonomia e che rischia di perdere la sua riconoscibilità storica: la speranza di conservare esistenza ed immagine in una realtà statale che minaccia di cancellarle... Cosa che in qualche misura ed in un certo modo è avvenuta: perché io credo che il mantenimento del senso delle municipalità, quello che l?ottocento ha identificato con i campanili e che l?esperienza politica recente sta rivalorizzando con l?affermazione ed il progressivo rafforzamento del principio delle autonomie locali, altro non sia se non il lontano esito di quella vicenda storica [33].
Il processo di riforma, iniziato con la l. n. 142/90 [34] e proseguito negli anni successivi con la l. n. 59 /1997, l. n. 265/1999, t.u. e.l. n. 267/2000, l. cost. n. 3/2001 [35], l. n. 131/2003 etc., aveva come obiettivo la valorizzazione delle autonomie regionali e locali, assecondando l?idea di realizzare una «Repubblica delle autonomie» [36] fondata sulla coesione e solidarietà sociale. L?evoluzione di una simile prospettiva è apparsa agli studiosi accorti subito impervia, in un quadro istituzionale e normativo giammai coerente e organico [37], alla perenne ricerca di una sintesi, al netto delle ideologie e delle strategie dei partiti, tra coscienza civica e interessi nazionali [38].
Le nuove formulazioni degli artt. 114 e 118 Cost. sembravano, tuttavia, in grado di garantire agli enti locali, nella qualità di «enti autonomi», una formale posizione di equiordinazione tra gli elementi costitutivi della Repubblica e una pari dignità costituzionale rispetto al ruolo delle regioni ex art. 117 Cost. Le amministrazioni locali, tramite il conferimento di una significativa autonomia statutaria [39] e regolamentare [40], avrebbero potuto finalmente, nei limiti dell?ordinamento statuale, individuare una cornice normativa idonea a rappresentare i moduli di governo e di amministrazione a misura delle specificità territoriali [41].
La ricerca storico-giuridica sulla legislazione statutaria e sulle consuetudini delle città italiane d?antico regime, prima della loro definitiva abolizione nel XIX secolo, è apparsa, allora, indispensabile non solo per ricostruire le matrici identitarie locali, ma soprattutto per agevolare la realizzazione di modelli strutturali ed organizzativi in grado di coniugare il radicamento di una comunità con i suoi possibili sviluppi futuri. Il lessico delle patrie, della cittadinanza e delle comunità è in continua evoluzione, sotto la pressione della mondializzazione delle economie, dell?integrazione transnazionale della società civile e «della crisi di uno degli elementi centrali del concetto di Stato, il territorio». In questo quadro di «spazio giuridico globale» che depotenzia, ma non dissolve, lo Stato-nazione e le sue matrici borghesi, si delinea la sfida di salvaguardare la coesistenza delle identità territoriali e dei "microsistemi" nelle nuove realtà, pluriordinamentale, nazionale, europea ed internazionale, perseguendo l?obiettivo di coniugare le spinte all?autonomia con l?integrazione nell?ordinamento del "macrosistema" [42].
Contro le nuove identità fittizie dei fondamentalismi, costruite in contrapposizione al processo di globalizzazione, occorre recuperare il senso del radicamento territoriale, con i «vexilla» e le specificità geo-storiche. Ma non basta, altrimenti si corre il rischio di alimentare pittoreschi, quanto sterili, atteggiamenti folcloristici. Il localismo in Italia, stretto tra la «deterritorializzazione» dovuta alla globalizzazione, l?integrazione europea e l?«autocentralizzazione», è determinante solo se lo si inquadra in un modello policentrico delle autonomie, «non semplicemente [in] un sistema bipolare (federazione-Stati membri o Stato-regioni)» [43].
Il recupero della dimensione locale, del paesaggio e della memoria storica con la possibilità di nuove forme di partecipazione e di responsabilità, nonché di una più diretta applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza [44], va, però, fecondamente integrato con altri valori identitari. Non inquadrabili in un modello d?identificazione univoco, perché sempre più al servizio di comunità fluttuanti, questi ultimi potranno, in ogni modo, ben adeguarsi ai profili giuridici di una nuova amministrazione pubblica che dimostri, consapevolmente, di sapersi organizzare intorno alla centralità delle "autonomie" e dell?integrazione tramite diritti-doveri intimamente connessi alla vita e al sentire locale.
In base ad un orientamento autorevole, il radicamento identitario può interpretarsi, non solo come un valore di chiusura alimentato dalle paure della crisi economica e dalle legittime preoccupazione di sicurezza e ordine pubblico, ma, più fecondamente, come parte essenziale delle fondamenta di una "casa aperta" agli abbellimenti e alle ristrutturazioni, anche perché nessuna cultura inizia da una tabula rasa e «l?identità, come la musica, è una cosa bastarda, e rimane viva solo quando non è fissa ma aperta» [45]:
A partire dalla seconda metà del XX secolo, infatti, nel mondo occidentale la postmodernità si è connotata con il crescente venir meno della pretesa di spiegare il mondo attraverso l?applicazione di principi unitari, come nel recente passato avevano voluto i grandi movimenti della modernità quali l?illuminismo, l?idealismo e il marxismo. Ciò ha implicato che la realtà si manifestasse come differenza, molteplicità ?irriducibile?, mutamento ?non ingabbiabile entro uno schema unico?, con un trend positivo atto a produrre maggiore ricchezza culturale, laddove prima il principio unico pretendeva di costringere ogni cosa entro la sua rigida legge, negando, a ben vedere, ogni effettiva innovazione. Bisogna per vero riconoscere che nella nuova temperie si è connotata altresì come fallace anche la pretesa di trovare per la morale un fondamento certo e stabile, con l?implicazione della crisi del senso esistenziale stesso dell?individuo, motivo per cui ciascuno perde ogni riferimento forte che poteva determinarne con sicurezza l?identità... Nella odierna società, ?avanzata?, ma troppo spesso dimentica di essere comunità, senza indulgere a vacue nostalgie, è proprio in termini di ?dovere? che si propone con immediatezza una nuova ?sfida?, più ?degna? e forse decisiva per l?umanità intera: è in essa che si scorge il compito non effimero di ogni uomo «deciso ad avere ancora un profondo destino» [46].
In Italia, lo statuto, quale «carta fondamentale» [47] dell?ente locale «autonomo» e fonte del diritto costituzionalmente necessaria [48]che lascia al legislatore statale soltanto la fissazione dei ?principi generali? [49], avrebbe potuto, in relazione alla diversità dimensionale ed organizzativa del comune, fornire un contributo decisivo, in quanto
non... più strumento dell?autonomia amministrativa sub lege, ma... fonte basilare della democraticità della nostra forma di Stato... Non vi sono più alibi interpretativi per ridurre (di fatto e, tanto meno, di diritto) gli statuti ad un passaggio amministrativo-burocratico dell?autonomia: i cittadini e le Comunità locali dovranno prenderne assoluta consapevolezza se non vorranno essere intaccati in ben altro che nei loro interessi di natura patrimoniale [50].
In realtà, nonostante la crisi delle strutture verticali di autorità [51], gli abusati termini di democrazia, bilancio e urbanistica partecipativi o partecipati non si sono mai concretizzati in strutture originali di governi locali protesi ad integrare le tradizionali forme rappresentative e a garantire l?adeguato esercizio di un?autonomia politico-amministrativa [52]. A dispetto dei tentativi di scardinamento del modello geometrico uniforme della l. 25 marzo 1993, n. 81 e della radicale riforma della l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, con il formale superamento del principio gerarchico in luogo del principio paritario tra legge e fonti locali, il contesto dottrinale e giurisprudenziale, soprattutto della Corte Costituzionale, nega ai Comuni sia l?esistenza di un?autonomia normativa rispondente ai soli principi costituzionali, in ragione dell?unità ed indivisibilità della Repubblica, sia la piena autonomia finanziaria di spesa dovendo coesistere e soccombere ai vincoli delle politiche di bilancio [53]. In questa chiave di lettura va collocato il fallimento della l. 5 giugno 2003, n. 131, detta "La Loggia" dal nome del proponente ministro per gli affari regionali, che dando attuazione alla l. cost. 3/2001 intendeva chiarire i confini della legislazione concorrente, gli ambiti della sussidiarietà verticale, e assicurare nuove prospettive di ulteriori conferimenti in favore degli enti locali. Ancor più difficoltosa appare oggi la possibilità di risolvere le problematiche relative al ruolo degli stranieri, nella direzione di affiancare alla "cittadinanza statale" una "cittadinanza locale", «intesa come uno status che ricomprende diritti e doveri previsti dallo statuto e che viene attribuita a tutti coloro che risiedono nel territorio locale», dovendosi registrare soluzioni ad elastico condizionate dallo scatenamento di pulsioni di respingimento causate o da eventi straordinari, come quelli conseguenti a drammatici eventi di terrorismo, oppure dal disagio dei quotidiani rapporti di convivenza, specie nelle periferie urbane [54].
Il rischio che si corre è che le scelte politiche e le soluzioni giuridiche sui temi del welfare municipale, della recente riforma delle province in luogo delle "aree vaste" di secondo livello, e del superamento del bicameralismo perfetto [55], possano incagliarsi ai lacci di un federalismo rintracciabile, al momento, solo nella veste di missione ?fiscale?, condizionato, com?è, dalle dinamiche cogenti della centralizzazione sull?argomento intricato dei costi nelle manovre governative, non apparendo all?orizzonte
un vero «progetto locale», le cui ambizioni non si tengono alla pura innovazione delle forme di democrazia interna, ma che aspirano a sottrarre il locale al suo imprigionamento nelle spire della globalizzazione ? in cui non può che comportarsi da «glocale» ?, trasferendo il ruolo degli enti territoriali tradizionali «dal governo dei servizi al governo dello sviluppo», collaborando ad attivare «utopie concrete» in direzione di una riappropriazione e rivitalizzazione del «territorio», secondo la vocazione particolare di ciascun «luogo» [56].
In questo ambito la storiografia giuridica ha ancora da dire molto. La comprensibile disillusione e il relativo disincanto sul tema statutario, anche se, in realtà, non sono mai mancati studi accurati nel solco di una profonda tradizione disciplinare [57], giungono alla fine di una stagione politica e giuridica che, oltre ai motivi tratteggiati, si è caratterizzata anche per la pigrizia di alcuni amministratori locali, avvezzi a seguire pedissequamente le linee guida della modulistica ministeriale, nella stesura delle normative cittadine, invece di ricercare soluzioni originali, nei limiti prefissati dall?ordinamento giuridico, tramite il confronto con il mondo accademico. Le recenti scelte politiche e normative di promozione dell?Unione dei Comuni e delle Città metropolitane[58], invece, hanno bisogno dell?autorevolezza dell?analisi comparativa sulle "aree statutarie" per il disvelamento del radicamento identitario che collega zone geograficamente ben definite, per cultura e tradizione storico-giuridica, sociale ed economica, e si impone per la difesa del territorio e, quindi, per la soluzione di conflitti identitari e ambientali.
Non è un caso, che nel 2014 i curatori dei «Quaderni Fiorentini» abbiano avvertito il bisogno di dedicare l?intero numero 43 della rivista al tema dell?«Autonomia. Unità e pluralità nel sapere giuridico fra Otto e Novecento», al fine di verificare in
che modo la parola ?autonomia? si è collocata nel divenire del linguaggio giuridico dei secoli XIX e XX? Quale ruolo ha giocato nel discorso dei giuristi? Com?è stata riscoperta, utilizzata, trasformata, levigata, dal sapere giuridico per rappresentare l?ordine, il rapporto fra le parti e il tutto, tra pluralità e unità?... Più che l?indefinibilità dell?etimo, a conferire polisemia a ?autonomia? è la sua disponibilità a rinascere e ad assumere funzioni diverse, a ? si può dire con Michel Foucault ? moltiplicarsi e disperdersi: ora si piega docile entro una gerarchia, graduata e subordinata a un?unità vincolante, a un sistema di regole e confini; ora invece si sottrae a degradazioni e subordinazioni, rifiutando perfino un riconoscimento proveniente dall?estero? Non s?intende, dunque, ricercare l?originaria purezza della parola per verificare se, e come, è stata falsata e tradita, ma seguirne l?esistenza nel sapere dei giuristi, nel modo di fissare nessi tra unità e pluralità, e nel farsi delle pratiche istituzionali nei diversi momenti storici [59].
In attesa dell?esplicazione del programma di riforme avviato da alcuni decenni in Italia, troppo spesso ondivago sui temi del federalismo fiscale, demaniale, municipale, regionale [60], e della verifica dell?effettivo grado di incisività nel supportare le attese trasformazioni strutturali, appare proficuo concludere con le considerazioni espresse nel 1945 dallo storico e federalista, Gaetano Salvemini:
Da quel tanto che arriva qui in America di quanto si pubblica oggi in Italia, ho l?impressione che ben pochi in Italia si interessino di questa materia [federalismo]. Tutti si dicono rivoluzionari e tutti sono conservatori. Tutti dicono male del governo, come tutti ne dicevano male anche quando si stava meglio e quando si stava peggio. Ma invece di domandare al «governo», cioè ai padreterni di Roma, che non si occupi di affari che non lo riguardano, tutti domandano qualcosa al governo. Naturalmente il governo dà quel che solamente può dare: moneta cartacea che aggrava l?inflazione, e burocrati che contribuiscono alla inflazione coi loro stipendi e per giunta paralizzano le iniziative private usurpando per sé funzioni che dovrebbero essere lasciate ai privati. Si grida contro la burocrazia e nello stesso tempo si accettano, anzi si domandano, governatori al di sopra dei prefetti, cioè nuove ruote burocratiche, per la Sicilia e la Sardegna, come se un superprefetto possa dare alla Sardegna e alla Sicilia quel che egli stesso non ha. È la storia delle quattro guardie che guardan le due guardie che guardan la guardia che guarda la figlia del re [61].
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