Abstract: Il saggio offre una sintesi del decorso evolutivo della disciplina delle misure cautelari personali alla luce dei diritti sanciti nella Carta costituzionale italiana e nelle Carte sovranazionali, ponendo in luce come il perimetro normativo già da tempo segnato al riguardo – ed oggi inserito nel contesto di un sistema multilivello – non abbia impedito prassi applicative discusse e cicliche fluttuazioni legislative. Pregevole nel suo impianto originario, sebbene perfettibile, la disciplina delle misure cautelari personali resta una normativa di settore, delineando un sottosistema fortemente sensibile agli equilibri del processo penale che non può trovare autonoma pacificazione senza una contestuale revisione del sistema penale e processuale. La congiuntura politico-economica eccezionale determinata dall’emergenza sanitaria induce a sperare che la legge delega di riforma della giustizia in corso di approvazione lasci infine apparire l’araba fenice di una efficienza del processo penale sconosciuta – a memoria di uomo vivente – al nostro ordinamento.
Parole chiave: Libertà personale, misure cautelari personali, diritto di difesa dell’imputato, efficienza della giustizia.
Abstract: The paper summarizes the evolutionary course of the discipline of personal precautionary measures in the light of the rights enshrined in the Italian Constitutional Charter and in the supranational charters, noting how the regulatory perimeter already marked for some time in this regard - and today inserted in the context of a multilevel system - did not prevent discussed application practices and cyclical legislative fluctuations. Valuable in its original structure, although always perfectible, the discipline of personal precautionary measures remains a sectoral legislation, outlining a subsystem highly sensitive to the balance of the criminal process that cannot find autonomous pacification without a contextual revision of the penal and procedural system. The exceptional political-economic situation caused by the health emergency gives hope that the delegated law for the reform of justice that is currently being approved will finally let the phoenix appear of an efficiency of the criminal process unknown - in the memory of a living man - to our legal system.
Keywords: Personal freedom, precautionary measures, right of defense of the accused, efficiency of justice.
Dossiê: ““Personal freedom and precautionary measures in criminal proceedings””
Editoriale del Dossier “Libertà personale dell’imputato e misure cautelari restrittive della libertà individuale nel processo penale” – La libertà personale dell’imputato tra princìpi e prassi in attesa di una riforma organica della giustizia penale italiana
Editorial of the dossier “Personal freedom and precautionary measures in criminal proceedings” – The personal freedom of the accused between principles and practices pending an organic reform of Italian criminal justice
Sommario: Introduzione; 1. La disciplina della libertà personale dell’imputato tra Carta costituzionale e principi fondamentali nelle carte sovranazionali dei diritti; 2. Giusto processo e procedimenti de libertate; 3. Quale contraddittorio?; 4. Le impugnazioni cautelari come baricentro del diritto di difesa; 5. Fluttuazioni politico-legislative e interventi di riforma settoriali; 6. La discrezionalità del giudice tra politiche della paura, sollecitazioni pedagogiche e supporti tecnologici de futuro; 7. Tempi del processo e dinamiche cautelari in attesa della “grande riforma”; Conclusioni; Bibliografia.
È un dato ben noto che nessuna tra le Carte fondamentali dei singoli ordinamenti e tra le Carte internazionali dei diritti umani trascura di considerare che la libertà personale dell’individuo, pur sancita come diritto inviolabile, possa nondimeno essere limitata per scopi di giustizia 2. Si comprende pertanto come la restrizione della libertà dell’imputato nel corso del processo finisca per essere uno strumento indefettibilmente presente e largamente utilizzato all’interno di ciascun ordinamento: anche quella che prende le forme della misura custodiale, di regola considerata la misura maggiormente incidente sui diritti individuali. E tuttavia, è affermazione ricorrente, nella consapevolezza della “immoralità” del sacrificio dei diritti di un presunto innocente 3, che le restrizioni della libertà personale per scopi cautelari dovrebbero essere rimedi estremi, limitati a non altrimenti affrontabili ragioni di tutela dell’accertamento, nel contesto di un rigoroso principio di proporzionalità 4.
Alla luce di queste premesse, i principali ordinamenti democratici, ormai saldamente avvinti nei circuiti di garanzie sanciti dalle principali Carte internazionali dei diritti, nel corso dei decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, hanno in larga parte adeguato le legislazioni interne e realizzato una tavola di regole volte ad attuare un nucleo significativo di garanzie, a presidio della libertà dell’imputato.
Ciò non ha impedito che, pur di fronte a legislazioni progredite e nettamente inclinate verso la tutela delle garanzie individuali – e da tempo sorvegliate dalle istituzioni degli ordinamenti sovranazionali – si siano ciclicamente riproposte con vigore censure rispetto ad usi eccessivi ed arbitrari della custodia cautelare in carcere, strumento supremo di afflizione della libertà dell’imputato, sovente aggravato dalle condizioni di sovraffollamento del sistema penitenziario.
Così è accaduto nell’ordinamento italiano, dove le progressive (non sempre univoche) iniziative di riforma, intervenute nei decenni successivi alla approvazione della carta costituzionale, sono culminate, nell’ambito della codificazione repubblicana, in un assetto completamente rinnovato dei rapporti tra libertà dell’imputato e potere cautelare. Una disciplina organica racchiusa in un apposito libro del codice sembrava mostrare, fin dalla inedita collocazione sistematica, l’importanza di una tematica che – da sempre nevralgica in ogni disciplina processuale – diveniva centrale nell’ambito di un modello nel quale la tutela dei diritti dei singoli veniva indicata quale obiettivo primario.
Nel contesto originario del nostro ordinamento processuale, l’attuazione del principio di legalità sancito dall’art. 13 della Costituzione è stata realizzata alla luce degli standard minimi di garanzia imposti dalle Carte sovranazionali 5, cui la nostra dottrina processuale aveva da tempo riservato sensibile attenzione 6.
La determinazione dei “casi e modi” previsti dalla legge, già imposta dall’art. 13 comma 2 Cost., è stata condotta attraverso una regolamentazione degli strumenti restrittivi della libertà in prospettiva strettamente cautelare, idonea a colmare il “vuoto dei fini” che la nostra legislazione aveva costretto gli interpreti a registrare per lungo tempo. Fissati gli scopi delle cautele, vengono meno quelle regole di carattere presuntivo che caratterizzavano la previgente disciplina per lasciar posto ad una valutazione delle necessità del caso concreto, da soddisfare ledendo nella minor misura possibile i diritti dell’imputato: adeguatezza, gradualità e proporzionalità della misura da applicarsi sono i principi che esprimono tale esigenza. In questo contesto – mostrando marcata sensibilità verso i diritti individuali – una peculiare attenzione è stata serbata a ragioni di tipo umanitario: le istanze del processo cedono rispetto all’interesse del minore e al diritto alla salute. Solo eccezionali esigenze cautelari giustificano la custodia rispetto al genitore di un minore di età non superiore ai (tre anni prima ed ora) sei anni o ad una persona in età avanzata o colpita da gravi patologie.
È al giudice che viene riservata ogni decisione volta a sacrificare la libertà, eccezion fatta per il vincolo provvisorissimo delle misure precautelari, ove l’intervento giurisdizionale viene assicurato dalla convalida successiva. Veicolato in un sistema di carattere accusatorio, il procedimento cautelare si articola in una struttura triadica: la richiesta dell’inquirente è rivolta ad un soggetto terzo e imparziale, garante del principio di legalità.
I diritti dell’imputato – sempre incastonati nella tradizionale fattispecie dell’atto a sorpresa – riflettono il catalogo dettato nell’art. 5 C.e.d.u. Fermo restando, infatti, che il provvedimento restrittivo della libertà personale viene emesso inaudita altera parte, il legislatore del 1988 ha assicurato il diritto di difesa nel procedimento cautelare tramite la previsione di una serie di garanzie miranti ad informare l’imputato dei motivi che fondano la misura e a consentire al medesimo di esporre le proprie ragioni davanti ad un giudice in un momento quasi immediatamente successivo all’esecuzione del provvedimento.
In particolare, con la consegna brevi manu all’imputato, contestualmente alla sua cattura (ovvero con la notificazione nei casi previsti dal comma 2 dell’art. 293 c.p.p.), dell’ordinanza cautelare (che ex art. 292 c.p.p. deve essere assistita a pena di nullità da una articolata motivazione), si è voluto garantire una immediata informazione al diretto interessato dei motivi della restrizione della sua libertà, in coerenza con l’art. 5 § 2 C.e.d.u., là dove si prescrive che la persona arrestata debba essere informata delle ragioni dell’arresto e di ogni accusa a suo carico « promptly» ovvero « dans le plus court délai»7. Inoltre, con il c.d. interrogatorio di garanzia ex art. 294 c.p.p. si è istituito un momento di controllo giurisdizionale indefettibile e pressoché immediato sul provvedimento restrittivo 8 (restando salvi i successivi controlli in sede di impugnazione, nonché il potere di revoca sollecitabile dalle parti in ogni tempo, oltreché esercitabile d’ufficio nelle ipotesi espressamente previste), in aderenza, tra l’altro, con le prescrizioni derivanti dall’art. 5 § 3 C.e.d.u., là dove questa disposizione impone che ogni persona arrestata o detenuta debba essere tradotta « promptly» ovvero « aussitôt» dinanzi ad un giudice o ad un altro magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie.
Ed ancora, il diritto al ricorso previsto sulla scorta dell’art. 5 § 4 C.e.d.u., si sgrana nel codice di procedura penale del 1988 in una molteplicità di strumenti di impugnazione che consentono all’imputato (ma pure al pubblico ministero che non sia soddisfatto del provvedimento del giudice), di contestare legittimità e merito dello stesso provvedimento. Per l’imputato, il diritto di difesa si esplicita altresì nella possibilità di richiedere al giudice procedente la revoca o la sostituzione della misura tutte le volte in cui ritenga che, anche per fatti nuovi, la misura sia inadeguata.
Quale estremo lembo del diritto di difesa, successivo alla lesione del diritto che l’ordinamento non abbia saputo evitare, a colui che – condannato o prosciolto – abbia subito una detenzione cautelare “ingiusta”, sulla scorta della previsione di cui all’art. 5 § 5 C.e.d.u., il legislatore ha riconosciuto infine una somma pecuniaria a titolo di riparazione 9.
L’assetto così conquistato, riflettente la scaletta di presìdi dettata in chiave minima dalle carte dei diritti rappresentava ben più di un catalogo di “buone intenzioni”, delineando – per opinione diffusa – un sistema di straordinaria raffinatezza e di cospicui punti fermi 10. Nondimeno pur pregevole per la sua «ammirevole architettura» e per «lo spessore concettuale dei principi recepiti» 11, la normativa italiana segnava un equilibrio precario, rivelandosi ben presto manifestamente carente sotto il profilo della parità delle armi e necessitando di una sostanziale implementazione del diritto di difesa. Punto debole – nella nuova concezione della fase preliminare – proprio quel giudice che nel corso delle indagini avrebbe dovuto garantire, tra l’altro, i diritti di libertà, intorno al quale pubblico ministero e persona sottoposta alle indagini agivano essendo dotati di strumenti fortemente sperequati.
Ciò fu ben presto evidente, complice un turbolento periodo di conflitto tra politica e magistratura, sfociato in un intervento legislativo di riforma a largo raggio del sistema cautelare. Alla legge 8 agosto 1995, n. 332 – intervenuta nel clou delle polemiche sviluppatesi intorno ad una cronaca giudiziaria costellata da suicidi di detenuti più o meno eccellenti – si devono una serie copiosa di interpolazioni della disciplina codicistica: prevalentemente incentrate sul libro concernente le misure cautelari, esse si inarcavano dalle condizioni di applicabilità, alle cadenze del procedimento applicativo della misura cautelare, fino alla revisione dei meccanismi di impugnazione.
D’altro canto, intorno all’assetto primigenio cristallizzato in un codice di ispirazione accusatoria sarebbero sopravvenute rilevanti mutazioni di contesto. Non più relegate a principi ispiratori del sistema, le garanzie del giusto processo europeo sarebbero state dapprima riscritte – con impostazione parzialmente originale – nel nostro quadro costituzionale, per poi acquisire ben diversa consistenza nell’ambito del sistema delle fonti interno al nostro ordinamento, grazie alla giurisprudenza costituzionale dei primi anni del terzo millennio. Le prospettive del giusto processo italian style hanno così cominciato a convivere, arricchendosene, con i princìpi della “grande Europa”, incessantemente interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo; mentre di lì a poco epocali cambiamenti nella “piccola Europa” avrebbero attratto il legislatore italiano nell’orbita di una legiferazione coatta sotto l’egida della armonizzazione delle legislazioni legate dal vincolo unitario.
L’esplicitazione a livello costituzionale nell’ordinamento italiano dei principi del giusto processo attraverso la l. cost. 23 novembre 1999, n. 2 ha richiamato l’attenzione sui nessi tra il coagulo di garanzie di importazione europea e le restrizioni della libertà, rinnovando la domanda di quanti – ancora ragionando sull’ an della restrizione – evidenziavano come la stessa caratterizzazione accusatoria del processo italiano dovesse condurre a ritenere la custodia cautelare non solo come non necessaria ma anche come «dannosa all’accertamento della verità per il tramite del contraddittorio» 12.
Ma soprattutto la riscrittura per tabulas di principi, pur già espressione della tutela giurisdizionale sancita nell’art. 24 comma 2 Cost., aveva fornito un ulteriore impulso ad un iter di progressivo affinamento delle garanzie, che già era stato incentivato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e poi sarebbe stato successivamente sospinto dalla legislazione eurounitaria.
Alla Corte europea si deve il riconoscimento – dopo antiche incertezze 13 – della pertinenza alla sfera cautelare delle garanzie dettate per l’accusato dall’art. 6 C.e.d.u. 14: un approccio soft ordito sulla consapevolezza di un necessario bilanciamento tra esigenze di celerità 15 e garanzie di fair trial16. Secondo tale approccio, tempi e modi del diritto di difesa, variamente modulabili, devono essere improntati al principio di parità delle parti 17: ne sono immediati corollari l’attribuzione delle precondizioni per l’effettività della difesa (quali la piena cognizione del compendio probatorio, non scevra da eventuali deroghe a tutela del segreto investigativo 18, e adeguati tempi per la difesa) e il diritto di interloquire dinanzi al giudice, quando la medesima possibilità sia riconosciuta al pubblico ministero, previa conoscenza delle conclusioni avanzate da quest’ultimo 19.
Sulle coordinate così tracciate fin dai primi anni ’90 dello scorso secolo e alla luce del basket of rights come importato, alla fine del medesimo decennio, nell’art. 111 comma 3 Cost., possono incastonarsi molti dei provvedimenti riformatori della disciplina codicistica.
Tra i primi e i più significativi, quelli volti a garantire – dando risposta alla esigenza di rivedere i rapporti di forza instaurati al riguardo – le precondizioni per il diritto di difesa. È alla già citata legge n. 332 del 1995 che si deve – nel contesto di una molteplicità di interventi non tutti significativi 20 – il diritto del difensore di prendere cognizione, in un momento immediatamente successivo alla esecuzione del provvedimento, non solo – come in precedenza – dell’ordinanza applicativa emessa dal giudice ma anche della richiesta del pubblico ministero nonché del compendio probatorio a supporto della stessa. Veniva così imposta una anticipazione della discovery degli atti di indagine – limitatamente a quelli selezionati dal pubblico ministero in funzione della decisione de libertate – prima rinviata alla fase della impugnazione, con il proposito e l’effetto di rendere funzionale la conoscenza così acquisita ad una immediata realizzazione del contraddittorio sulla cautela. Ci sarebbe peraltro voluto un decennio perché la giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione desse corpo alla garanzia affermando il carattere necessariamente prodromico della conoscenza degli atti rispetto all’interrogatorio di garanzia: ne risultò ribadito che «l’omesso deposito dell’ordinanza applicativa di una misura cautelare, della richiesta del pubblico ministero e degli atti allegati, compromette ingiustificatamente il debito esplicarsi del diritto di difesa e pertanto determina la nullità dell’interrogatorio dell’indagato o dell’imputato ai sensi degli artt. 178 comma 1 lett. c, 180 e 182 c.p.p.» 21, con la conseguente perdita di efficacia della misura.
Un contestuale intervento, volto ad assicurare un maggiore equilibrio tra le parti di fronte ad un giudice privo di poteri istruttori, si tradusse in un onere di allegazione del pubblico ministero (tenuto a farsi carico della necessità di informare il giudice chiamato ad applicare la misura degli elementi a favore dell’imputato) e in un’embrionale regolamentazione delle investigazioni del difensore che, solo dopo ancora un lustro, avrebbe trovato più articolata definizione nell’ambito della normativa codicistica, a seguito della l. 7 dicembre 2000, n. 397.
Sarebbero passati ancora circa due decenni, inoltre, perché il legislatore operasse per il recupero di un altro caposaldo del diritto di difesa, finendo per ridurre drasticamente la disciplina delle deroghe al diritto ad un immediato colloquio del detenuto con il proprio difensore, di cui all’art. 104 c.p.p. Subito segnalato come indefettibile conseguenza delle garanzie del riformato art. 111 comma 3 Cost. 22, l’intervento per la riaffermazione del diritto alla difesa tecnica avrebbe atteso ancora quasi un ventennio. Solo con la l. 23 giugno 2017, n. 103 il legislatore avrebbe inciso sulle disposizioni derogatorie di cui all’art. 104 c.p.p., riconducendo una normativa da tempo discussa e discutibile 23 ad un ambito applicativo più ortodosso, sulla scorta di indicazioni da tempo individuate dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Ad una stagione non troppo lontana risalgono pure ulteriori messe a punto del diritto di difesa; il legislatore – questa volta su input eurounitari – ha garantito il diritto alla informazione sui diritti e il diritto all’interprete. Più esattamente, in attuazione della direttiva 2012/13/UE, il d. legisl. 1° luglio 2014, n. 101 ha, tra l’altro, modificato il testo dell’art. 293 stabilendo che l’autorità incaricata dell’esecuzione debba consegnare all’imputato una comunicazione scritta, redatta in forma chiara e precisa e, per la persona che non conosce la lingua italiana, tradotta in una lingua a lei comprensibile, con cui lo informa di una variegata serie di chances a lui riservate dalla normativa processuale. Ancora in attuazione di una direttiva europea, i diritti linguistici, già in qualche misura garantiti dalla disciplina codicistica e dalla giurisprudenza, sono stati pure ridefiniti, dopo il formale riconoscimento del diritto all’interprete tra i principi costituzionali 24. Nel riformulare il testo dell’art. 143 c.p.p., accanto ad un ampio riconoscimento all’imputato che non conosce la lingua italiana del diritto a farsi assistere da un interprete, il d. legisl. 4 marzo 2014, n. 32, con il quale è stata data attuazione alla direttiva 2010/64/UE, ha regolato il diritto alla traduzione di un nucleo di atti tra i quali i «provvedimenti che dispongono misure cautelari personali».
È ancora in itinere, invece, il decreto legislativo con il quale viene tardivamente data attuazione alla direttiva in tema di presunzione di innocenza, che disciplina con alcuni ritocchi codicistici, tra l’altro il diritto dell’imputato destinatario di un provvedimento diverso «da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato» a non apparire colpevole: attraverso un nuovo art. 115 bis comma 2 c.p.p., si vorrebbe stabilire al riguardo che nei provvedimenti che «presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza» – tra i quali è facile individuare il riferimento ai provvedimenti de libertate – l’autorità giudiziaria debba limitare «i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento» 25.
Tra i temi ineludibili posti all’attenzione di studiosi e operatori dalla implementazione delle garanzie del giusto processo, di matrice europea prima e nostrana poi, si stagliava netto quello delle forme di confronto tra accusato detenuto e autorità inquirente. Il nuovo testo del comma 2 dell’art. 111 Cost., nel delineare le coordinate essenziali del processo giusto, aveva iscritto per tabulas la garanzia di un contraddittorio “argomentativo”, apparentemente senza temperamenti: il tenore normativo - «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti..» - sembrava evocare un confronto dialettico indefettibile rispetto ad ogni provvedimento da adottarsi.
Di fronte al nuovo testo potevano, dunque, ancora dirsi legittimi quei procedimenti strutturati nel senso di metter capo ad una decisione senza un previo ascolto delle parti ? Poteva dirsi ancora compatibile con il testo costituzionale un contraddittorio asincrono, postulante un intervento postumo della risposta difensiva? La risposta positiva fornita, in linea generale, dalla dottrina e dalla giurisprudenza 26, non ha impedito di ragionare su quale forma di confronto potesse garantire al destinatario della misura strumenti di difesa più soddisfacenti rispetto al modello tradizionale di procedimento cautelare. Ne risultò rinfocolato, in particolare, un discorso già da tempo intavolato tra gli addetti ai lavori circa la appetibilità di un sistema fondato sul contraddittorio “anticipato”, sulla falsariga del débat contradictoire nell’ordinamento francese.
Nondimeno, la vivace attenzione dottrinale per il tema non si è tradotta in innovazioni normative: forse perché – questa sembra convinzione se non diffusa, acclarata dalla stasi legislativa in materia – una attenta analisi ne aveva posto in luce i punti deboli: la necessità di una precautela che non avrebbe risparmiato il contatto con il sistema detentivo all’imputato, i tempi ristrettissimi in cui sarebbe stata compressa la difesa, la delicatezza dei rapporti che si sarebbero instaurati – non potendosi ignorare, sul piano della concreta attuabilità, la ristrettezza delle risorse – tra un nuovo procedimento applicativo garantito e il diritto all’impugnazione 27.
D’altro canto, anche in sede europea la configurazione del diritto di difesa non imponeva – né impone – soluzioni a rime obbligate: al contrario la Corte europea sembra forgiare un modello dotato di garanzie indefettibili ma ad articolazione flessibile. Il profilo che risalta dalla lettura combinata delle disposizioni della C.e.d.u. e delle decisioni che sulle stesse disposizioni si imperniano è quello di una tutela assicurata attraverso procedure di “controllo” ex post sulla detenzione, essendo evocato chiaramente uno scenario che colloca quella udienza (ritenuta garanzia minimale ed indefettibile) in un momento successivo alla privazione della libertà 28. Da questo punto di vista, la tutela ruotante intorno al diritto al ricorso riconosciuto nel § 4 dell’art. 5 C.e.d.u., se non sembra pretendere garanzie anticipate rispetto all’adozione del provvedimento, non sembra neanche imporre che sia accordato all’imputato un diritto di doglianza qualora l’intervento di un giudice risulti garantito nel momento applicativo della misura 29; né qualora il soggetto sia stato tradotto davanti ad una autorità giurisdizionale ai sensi del § 3 ed il relativo controllo sia sfociato in una decisione di conferma o applicazione della limitazione della libertà 30 (salvi gli ulteriori controlli periodici sulla protrazione della misura, imposti dall’art. 5 § 3 C.e.d.u.).
Ciò che viene più volte ribadito è il principio secondo il quale – comunque modulato il procedimento di controllo – talune garanzie non debbano difettare, essendo necessario che esse siano parimenti riconosciute nei gradi di impugnazione eventualmente previsti dall’ordinamento. A tal riguardo, muovendo dalla premessa che i principi dell’art. 6 C.e.d.u. devono trovare applicazione pure nelle fasi anteriori al dibattimento – la Corte ha più volte affermato che gli ordinamenti nazionali possono rispettare quei principi in diversi modi, purché il metodo adottato garantisca che la parte avversa sia a conoscenza del deposito di memorie e abbia una effettiva possibilità di replicare 31. Emerge di rado, poi, cosa debba intendersi per “effettiva possibilità di replicare” e che tipo di garanzie debbano essere reputate indefettibili sotto il profilo del diritto alla prova. In una occasione, tuttavia, la Corte sembra spingersi fino a riconoscere il diritto ad una istruzione probatoria orale, con escussione dei testimoni nella udienza: in una circostanza «nella quale può essere in gioco un lungo periodo di reclusione e dove elementi inerenti alla personalità ed al grado di maturità del detenuto sono importanti per decidere sulla sua pericolosità, l’art. 5 § 4 richiede un’udienza contraddittoria nell’ambito di un procedimento che comporta la rappresentanza di un difensore e la possibilità di citare e interrogare testimoni» 32.
Quanto alle garanzie di contesto che devono connotare quella possibilità di confronto assunta come nucleo indefettibile, più in generale, facendo leva sulla nozione di “tribunale” di cui all’art. 5 § 4, la Corte ha in più occasioni affermato che il giudice investito del controllo sulla restrizione della libertà personale debba godere di talune fondamentali caratteristiche (al primo posto delle quali si pone l’indipendenza dall’esecutivo e dalle parti) 33, e che, inoltre, i relativi procedimenti debbano essere caratterizzati dalle garanzie di un procedimento giudiziario 34. Circa l’individuazione di tali garanzie, la Corte sottolinea come esse non debbano coincidere in toto con quelle che l’art. 6 § 1 prescrive per le controversie civili e penali 35. Ciò che deve essere senz’altro garantito è la possibilità dell’imputato di aver accesso ad un tribunale e di essere ascoltato personalmente 36 o, se necessario, mediante una certa forma di rappresentanza 37 e su basi di parità con l’organo di accusa.
In sintesi, la difesa dell’imputato deve essere assicurata tramite la convocazione di una udienza nel corso della quale si svolga il contraddittorio tra le parti 38, non necessariamente pubblica 39, svolgentesi davanti ad un giudice imparziale, indipendente e costituito per legge, cui l’imputato abbia diritto di partecipare 40, essendo assistito e rappresentato da un avvocato quando le peculiarità del caso richiedano l’intervento della difesa tecnica 41. Sotto il profilo temporale, particolare attenzione è prestata al tema del breve spazio temporale 42: il controllo sul profilo detentivo deve corrispondere ai requisiti di celerità richiesti dall’art. 5, § 4 ma la celerità della procedura va valutata con approccio flessibile ed un apprezzamento globale.
Non eversivo, dunque, né dei principi ormai scolpiti al livello supremo delle fonti né delle linee tracciate dalla Corte europea, il nostro ordinamento ha continuato ad individuare nei meccanismi di impugnazione – dopo l’immediata garanzia dell’interrogatorio del giudice ex art. 294 c.p.p. – il baricentro del diritto di difesa. A seconda del tipo di misura applicata, il riesame o l’appello costituiscono la sede di un contraddittorio postumo dai tratti garantistici più o meno stringenti 43; il ricorso per cassazione – oltre che rimedio successivo – può essere il mezzo alternativo al riesame per contestare la legittimità di un provvedimento applicativo di una misura coercitiva.
Su questo strumentario articolato ma non sempre impeccabile di chances difensive si sono incentrate le principali azioni di riforma mosse dall’aspirazione ad un irrobustimento delle garanzie di tutela della libertà: a cominciare dalla celerità della procedura. Protagonista assoluto del campo e oggetto delle attenzioni legislative è sempre stato in particolare il riesame, strumento concepito come funzionale ad un controllo immediato sul provvedimento che dispone una misura coercitiva, mentre fin troppo in ombra sono rimasti i diritti dell’appellante, sulla scorta di una non del tutto centrata gerarchia della afflittività tra misure coercitive e interdittive.
Sulla premessa della più grave lesione dei diritti provocata dalle misure coercitive, il legislatore – intervenendo a più riprese, anche in opposizione ad una giurisprudenza riottosa – ha cadenzato il procedimento di riesame secondo scansioni rigorose con l’obiettivo di assicurare effettività alla garanzia di immediatezza della verifica sulla restrizione della libertà. L’ iter appena segnalato ha preso le mosse dalla già menzionata legge n. 332 del 1995 44, per trovare ulteriore definizione nel più recente intervento di segno garantistico operato dalla legge 16 aprile 2015, n. 47 45. Il procedimento di riesame si snoda ora in attività da svolgersi in termini brevi e di carattere perentorio: alla presentazione della domanda (pur essa cadenzata a pena di inammissibilità della impugnazione), seguono segmenti temporali rigidamente regolati: la trasmissione degli atti al tribunale chiamato a decidere, la decisione, il deposito della motivazione e, i tempi per l’eventuale giudizio di rinvio, sono ormai stabiliti a pena di perdita di efficacia della misura. A suggello della tutela garantita dalla rigida predeterminazione temporale del procedimento, il legislatore ha infine irrigidito le condizioni per la rinnovazione del provvedimento, quando la misura abbia perso efficacia a causa della mancata osservanza dei termini stabiliti per il procedimento.
Inoltre, così come era accaduto rispetto al termine per la impugnazione, dove la possibilità di un rinvio del colloquio tra difensore e assistito detenuto aveva suggerito la necessità di introdurre una regola come quella trasfusa nell’art. 309 comma 3 bis c.p.p., il legislatore ha mostrato di tener conto che l’interesse alla prontezza del giudizio di controllo confligge con l’interesse alla difesa, lasciando allo stesso imputato (e al suo difensore, visto il carattere tecnico dei presupposti dell’opzione) di calibrarne in concreto il bilanciamento: l’art. 309 comma 9 bis, attribuisce ora all’imputato il diritto di chiedere un rinvio della data di udienza, incidendo nel contempo sul termine stabilito per la decisione e per il deposito dell’ordinanza.
Alla legge n. 47 del 2015 si deve infine un riconoscimento del diritto alla partecipazione personale alla udienza di riesame (non di appello); da un canto, l’art. 309 comma 6 primo periodo c.p.p. stabilisce che «con la richiesta di riesame» l’imputato «può chiedere di comparire personalmente», dall’altro, il comma 8- bis secondo periodo del medesimo articolo dispone che l’imputato il quale «ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma 6 ha diritto di comparire personalmente». Risulta così espressamente sancito un principio che, fino agli ultimi tempi, era stato in balia di una ambigua riaffermazione da parte della giurisprudenza della Corte costituzionale, e che pur a seguito della cristallizzazione normativa non ha mancato di provocare incertezze e oscillazioni interpretative sulla sua effettiva portata 46.
Sebbene la progressiva messa a punto di molteplici profili della disciplina codicistica abbia fatto registrare la conquista al procedimento de libertate di tratti garantistici qualificanti, deve evidenziarsi come non si sia trattato di un trend né lineare né risolutivo.
Sotto il primo profilo, il legislatore non si è sottratto all’andamento pendolare in qualche misura fisiologico della materia del processo penale, perseguendo ora politiche di stampo securitario indotte da reali o supposte situazione di emergenza, ora da politiche garantiste 47.
Cifra costante degli interventi di natura securitaria è stata la reintroduzione dei meccanismi presuntivi, la cui eliminazione aveva costituito il principale vessillo della codificazione riformata. Emblematica la vicenda dell’art. 275 comma 3 c.p.p. 48, disposizione che ha accolto – insieme al principio che vi campeggiava ab origine predicando la custodia cautelare come extrema ratio – un elefantiaco elenco di deroghe che hanno significativamente contribuito ad eroderne le fondamenta. Da subito dimostratasi terreno appetibile per più o meno necessari interventi di contrasto alla grande criminalità, si è rivelata disciplina dalle sorti alterne ed è infine caduta sotto la scure della Corte costituzionale. E tuttavia una teoria di sentenze di illegittimità hanno solo edulcorato i contenuti della disposizione, legittimando la sopravvivenza di schemi presuntivi sia pur nella forma attenuata della presunzione relativa.
Il legislatore, a sua volta, pressato dai richiami provenienti dalla Corte europea alla riduzione del sovraffollamento carcerario, non ha saputo cogliere l’occasione per una reale revisione della materia, limitandosi a recepire le scelte compromissorie della Corte costituzionale, senza riuscire a rimediare alle anomalie ereditate dalle redazioni antecedenti della disposizione e men che meno a ritrovare quella purezza di forme, e quel rigore di scelte, proprie dell’impostazione originaria 49. Alla seconda novella garantista approvata nel 2015, è sopravvissuto il duplice regime derogatorio già insediato nell’art. 275 comma 3° c.p.p., modulato su una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze, accompagnata, per alcuni reati da una presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare e, per altri, da una presunzione solo relativa circa la adeguatezza della stessa misura, suscettibile di essere smentita quando siano acquisiti elementi dai quali risulti che, «in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».
Il regime più rigido è stato riservato – oltre che all’unico reato (art. 416 bis c.p.p.) passato indenne al vaglio di costituzionalità (ord. n. 450 del 1995) – a due fattispecie (artt. 270 e 270 bis c.p.) delle quali, la seconda rappresenta una novità nel novero dei reati trattati meno favorevolmente (rispetto ai due reati in questione occorrerebbe interrogarsi, tra l’altro, sull’esito di un nuovo incidente di legittimità costituzionale che li riguardasse). Invece, nell’ambito del regime edulcorato dalla relatività della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare vengono ricondotti ed assoggettati tutti i reati già contemplati dalla medesima norma nel testo anteriore alla novella: ne risulta che quel regime resta applicabile ad una pletora eterogenea di reati, indicati, in parte specificamente, e in parte con un rinvio all’art. 51 comma 3 bis e quater c.p.p., prospettando «un elenco, defatigante e disordinato», che «aggrega al suo interno ipotesi diversissime, per caratteristiche intrinseche, beni offesi, severità del trattamento sanzionatorio, grado della condotta» 50. Si tratta di un panorama sconfortante – se si pensa che il precipitato normativo lascia sul fondo libertà personale e diritto di difesa – sul quale occorrerebbe compiere un attento ripensamento alla luce dei canoni di ragionevolezza e di uguaglianza sanciti dall’art. 3 Cost. 51.
Per tutti i reati considerati, la legge continua dunque ad invertire i termini essenziali della grammatica costituzionale: l’art. 13 Cost. richiede un atto motivato dell’autorità giudiziaria che limiti la libertà personale dell’imputato sulla scorta di casi e modi fissati dalla legge. Mentre, secondo la disciplina che qui si perpetua, pubblico ministero e giudice continuano ad essere sollevati dall’onere dell’allegazione e della motivazione sui più elementari presupposti che legittimano la restrizione: essendo il giudice chiamato a motivare, semmai, in ordine alla scelta della libertà o del regime meno afflittivo.
Quel che più val la pena di notare, davanti alla ultima sistemazione normativa, è che il declassamento della presunzione non incide in maniera eclatante sulle opportunità di difesa dell’imputato. Riguardato dal punto di vista del destinatario della misura, non può dirsi che il suo diritto di difesa ne risulti davvero rigenerato. Pure in rapporto al meno gravoso dei regimi qui considerati, il giudice continua a non dover motivare: basterà che nel provvedimento limitativo della libertà ci si limiti a dichiarare che dagli atti non risultano elementi idonei a dimostrare l’assenza delle esigenze di cui all’art. 274 c.p.p. o che non risulta che le stesse possano essere fronteggiate con altre misure. Inoltre, se è ben vero che il carattere relativo della presunzione lascia all’imputato la possibilità di scalzare gli assunti del pubblico ministero, ottenendo che il giudice applichi una misura meno grave, è anche vero che la possibilità per l’imputato di fornire elementi che scardinino le presunzioni si realizza su un percorso irto. Difficilmente quegli elementi saranno forniti in tempo perché il giudice possa tenerne conto ai fini del provvedimento applicativo: è infatti la stessa struttura del procedimento cautelare a proiettare alle fasi successive all’applicazione della misura la possibilità di ogni deduzione favorevole da parte dell’imputato (salvo il previo deposito di atti di indagine difensiva, forniti al pubblico ministero o al giudice, «al buio» rispetto ad una successiva richiesta ed applicazione di misura). Si tratterà dunque il più delle volte di chances difensive che potranno trovare attuazione in sede di revoca o di impugnazione. Dopo di che, l’inversione dell’onere della prova pone l’imputato (salvo che non si contesti l’imputazione, riuscendo a sottrarsi al regime derogatorio, magari in forza del riconoscimento di una circostanza) di fronte alla difficile impresa di provare la «non sussistenza» delle esigenze cautelari ovvero la «non inadeguatezza» di altre misure, addossandogli, in negativo, un onere che – già difficile da assolvere in positivo da parte dell’organo d’accusa – assume sfumature di impossibilità.
Premesso che lo stesso approccio non risolutivo – unito ad una non impeccabile tecnica normativa – connota le soluzioni relative alla presunzione di adeguatezza della sola custodia nei casi di comportamenti trasgressivi (art. 276 comma 1° ter c.p.p.) e in relazione al divieto di concessione degli arresti domiciliari (art. 284 comma 5 bis c.p.p.) 52, non si può che concludere per una opacità anche dell’ultimo legislatore “garantista”, rivelatosi in definitiva non troppo attento ai diritti dell’imputato e agli equilibri del sistema 53.
Una sorte in parte analoga ha segnato gli interventi sui termini massimi di custodia condotti soprattutto (ma non solo) in chiave di doppio binario, rispetto a fattispecie di criminalità organizzata, i quali sono stati interpolati a più riprese dai vari “pacchetti sicurezza” che hanno esteso, anche grazie a contorti meccanismi, gli originari termini di durata massima, già di una ampiezza più che esorbitante: qui, tuttavia, dopo un primo intervento risalente alla legge n. 332 del 1995, il legislatore delle garanzie ha osservato un silenzio rigoroso e assordante.
A voler fare un bilancio ad oltre trent’anni dall’avvento della codificazione repubblicana, appaiono sicuramente incisivi gli interventi di stampo securitario, più flebilmente efficaci quelli di natura opposta, per ragioni non tutte riconducibili ad uno stesso ordine di difficoltà. All’efficacia tagliente delle opzioni normative implicanti una sostanziale soppressione dei diritti dell’imputato si sono contrapposte risposte compromissorie – mai tali da pervenire ad una restitutio in integrum delle scelte originarie – o inadeguate, in quanto insistenti su scelte già compiute con l’intento di richiamare gli operatori a prassi conformi. Quando poi i nuovi provvedimenti sembravano librarsi sopra il livello di consueta inutilità, all’insuccesso ha provveduto una altra costante della nostra legislazione: operare senza un preventivo controllo di fattibilità, in primo luogo sotto il profilo dei costi. Così, per esempio, i ricorrenti tentativi di assicurare un controllo costante di natura virtuale (c.d. braccialetto elettronico) si sono infranti a più riprese con inspiegabilmente irrisolvibili ragioni di natura pratica legate alla disponibilità delle attrezzature necessarie.
Un rilievo centrale in entrambi i divergenti approcci dettati dall’alternanza delle scelte politiche, è stato sempre rivestito dal ruolo del giudice. Ed è forse questo il tema rispetto al quale la sperequazione di efficacia dei divergenti approcci appare più eclatante. Sollevare il giudice dall’onere di motivare su nodi cruciali spiana la strada al richiedente la misura, lasciando – lo si è visto – al destinatario del provvedimento al più la chance di una probatio diabolica e posticipata; al contrario, cercare di imprimere movenze fisiologiche alla discrezionalità del giudice, ostinandosi ad infierire sulla disciplina dei presupposti e della motivazione del provvedimento, è misura dagli effetti meno sicuri e prevedibili.
È, ad ogni modo un dato di fatto che la scommessa del legislatore repubblicano, incentrata su un giudice garante della personalizzazione del regime cautelare secondo indicazioni normative già da subito improntate al criterio del sacrificio minimo, si è rivelata un percorso arduo. Il giudice, esautorato nel suo ruolo di tutore delle libertà fondamentali (e per giunta sulla scorta di valutazioni per nulla ragionevoli) quando serve mostrare durezza a tutela dell’ordine pubblico, viene invece sospettato di costituire flebile garanzia dei diritti dell’individuo per inclinazione a raccogliere le istanze dell’accusa o per negligenza nel dar conto delle ragioni che giustificano la privazione della libertà. Di più: portatore insano della tendenza a sostituire con la cautela una sanzione che non verrà o verrà troppo tardi.
Alla presunta “leggerezza” del giudice, appiattito sulle richieste dell’inquirente, e svogliato nel motivare, il legislatore ha ripetutamente risposto con una esasperazione della tassatività delle regole in tema di esigenze cautelari (art. 274 c.p.p.) e dettagliando parossisticamente il modello di motivazione, che aveva ricevuto già in partenza disciplina particolarmente attenta nell’art. 292 c.p.p. 54. Una prima volta ciò era accaduto nel 1995, non raccogliendo gli entusiasmi dei commentatori, né rivelando alcuna efficacia rispetto all’obiettivo.
A vent’anni esatti di distanza, e nonostante le evidenze non lo avessero consigliato, il legislatore si è rivolto nella medesima direzione, con il dichiarato obiettivo di porre un freno a interpretazioni giurisprudenziali troppo disinvolte: il catalogo annovera ancora nuovi interventi sul già contorto testo dell’art. 274 c.p.p., per insistere, questa volta, sulla “attualità” del pericolo nel definire le esigenze cautelari fondate sul pericolo di fuga e sulla prevenzione speciale; e ancora modifiche dell’art. 292 c.p.p. per precisare che nel dettagliato modello di motivazione debba rientrare altresì la “autonomia” della stessa. 55.
Quanto a quest’ultimo profilo, più esattamente, interpolato nuovamente, l’art. 292 lett. c e c bis pretende ora accanto alla esposizione, altresì l’autonoma motivazione delle esigenze cautelari, degli indizi di colpevolezza (entrambi accompagnati dalla indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti, e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza, tenuto conto anche del tempo trascorso dalla commissione del reato), dei motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa, nonché, nel caso di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’art. 274 non possono essere soddisfatte con altre misure. È opinione sostanzialmente unanime che la nuova disposizione non abbia aggiunto “nuovi contenuti” a quanto già previsto originariamente (e successivamente chiosato dal legislatore del 1995) ma si limita a sottolineare la necessità che il giudice prenda visione degli elementi necessari e dia conto delle ragioni che essi esprimono, per rispondere all’obbiettivo non sottaciuto del legislatore: quello di far fronte a carenze motivazionali, escludendo motivazioni appiattite su quelle del pubblico ministero richiedente. Il quid novi dell’intervento normativo del 2015, rispetto a quello che lo aveva preceduto due decenni prima, sta nell’aver agito contestualmente sui poteri del giudice del riesame incidendo sulla antica querelle concernente il potere di integrazione della motivazione da parte di quest’ultimo giudice. Stando al riformulato art. 309 comma 9 c.p.p.: il tribunale ha l’obbligo di «annulla[re] il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa». Bisogna tuttavia osservare che – pur a seguito della nuova manovra – la giurisprudenza ha continuato a esprimere un indirizzo sostanzialmente costante.
Con riguardo alle esigenze cautelari, si è operato su entrambe le lettere espressive delle due ragioni di cautela già menzionate attraverso una analoga interpolazione: da un lato, si è puntualizzato che il pericolo di fuga o di reiterazione del reato per poter giustificare la misura deve essere non solo «concreto» ma anche «attuale» e dall’altro, si è precisato che le situazioni di concreto e attuale pericolo di fuga di cui alla lett. b «non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede»; similmente, si è operato sulla lett. c, sul cui testo si è inciso per sottolineare che le situazioni di concreto e attuale pericolo di reiterazione di un reato «anche in relazione alla personalità dell’imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede» 56. Nel suo complesso la giurisprudenza ha dato mostra di prendere atto dei profili di novità recati dalla novella in punto di esigenze cautelari, intravvedendo la ratio dell’intervento normativo nell’obbligo di una specifica valutazione dell’attualità. Nondimeno è sull’oggetto di quell’obbligo (o meglio sul significato del requisito «attuale») che non casualmente, si riaffaccia il contrasto che vede contrapposti due indirizzi della giurisprudenza di legittimità 57, confermando la sensazione che la valutazione prognostica richiesta, in linea generale in rapporto ad ogni esigenza cautelare e in particolare in ordine alla pericolosità dell’imputato resta terreno scosceso e sfuggente 58.
Ancora una volta, insomma, il legislatore non ha voluto tener conto che «l’adozione di una misura cautelare, proprio perché funzionale al soddisfacimento delle specifiche esigenze selezionate dalla legge processuale, è forse più di qualsiasi altra decisione giudiziaria ancorata alle particolarità del caso concreto, il che rende incomprimibile uno spazio autonomo di valutazione del giudice e sostanzialmente inutili regole calibrate su fattispecie tipologiche inidonee ad abbracciare un orizzonte applicativo caratterizzato da variabili pressoché infinite» 59.
Quale apporto potrà addurre l’uso della tecnologia al riguardo è scenario ancora da monitorare con attenzione: a detta degli studiosi del tema, l’uso della intelligenza artificiale sembra annoverare, tra i molti rischi, quelli derivanti da spazi discrezionali che si innestano nei criteri di selezione dei casi e infine nella valutazione dei risultati, accanto a non minori difficoltà per assicurare il rispetto delle garanzie difensive 60.
Resta sullo sfondo la vexata questio della incompatibilità, in radice, della esigenza cautelare fondata su esigenze di prevenzione speciale. Com’è ben noto, tuttavia, da tempo, con l’avallo della Corte costituzionale, tali esigenze non sono disconosciute dal nostro ordinamento. La tutela della vittima, poi, fortemente promossa dagli atti internazionali sembra costituire – così come attuata nel nostro ordinamento – una macroscopica ipotesi di uso delle cautele in funzione di prevenzione speciale nella prospettiva di evitare il ripetersi di atti lesivi nei suoi confronti (ma forse anche una conferma della difficoltà di garantire la medesima protezione in altro modo e in diversa sede) 61. Per prevenire la commissione di atti delittuosi nei confronti del soggetto già individuato come vittima, continuando a trattare l’aggressore come un presunto innocente, bisognerebbe pesantemente incidere sui diritti della stessa vittima limitandone la libertà di circolazione – come un testimone di giustizia, si legge nelle cronache – e forse non sarebbe abbastanza; quale bilanciamento, ci si potrebbe chiedere, tra i diritti degli individui contrapposti nella vicenda ? e – sempre che non si acceda alla idea che sia sempre la vittima a dover patire ulteriori sconquassi alla propria vita – quale altra sede, diversa da una procedura giurisdizionale ampiamente garantita – come il processo penale – potrebbe meglio assicurare i diritti del presunto innocente, nei casi di conflitto tra i suoi diritti e quelli della vittima ?
Sennonché i dubbi intorno alla difficile convivenza della lett. c con il testo costituzionale restano e il rinnovarsi delle doglianze ha preso ora le sembianze di un quesito referendario 62, e non è detto che una società oltremodo pronta alla rivendicazione dei diritti individuali – ma troppo spesso dimentica del risvolto della medaglia – chiamata ad esprimersi sulla lett. c dell’art. 274 c.p.p., non riesca in un’impresa che ha visto sconfitte generazioni di dottrina dotta e avveduta 63.
Lungo lo scorrere di politiche legislative male orientate o perdenti, nel desolante tapis roulant legislativo sul quale operatori e interpreti hanno fin qui marciato malfermi, le maggiori tensioni, inutile dirlo, si sono accentrate sulla custodia cautelare in carcere, misura rispetto alla quale la pena in sé rilevante della privazione della libertà si accompagna alle condizioni di sovraffollamento – endemiche nel nostro ordinamento al pari della irragionevole durata del processo – e di generale degrado dei luoghi di detenzione. Di fatto, e nonostante il largo ventaglio di misure cautelari alternative, la misura custodiale è rimasta il perno del sistema cautelare: la sua incisività e il suo uso diffuso sul piano quantitativo sono stati oggetto di costante dibattito, sfociato ciclicamente in confronti dai toni accesi, coinvolgenti accademia, operatori e mondo politico.
Il tema dunque resta tutto intatto e nelle solite coordinate dinanzi agli occhi degli operatori e, per quanto fin qui osservato, è ragionevole ritenere che nessuna ulteriore rivisitazione di settore sia in grado di sistemare un meccanismo cronicamente inefficiente, essendo necessario non tanto un ulteriore sforzo di fantasia – e men che meno pedissequi innesti di esperienze altrui – quanto una seria ristrutturazione ab imis della giustizia penale.
Non si può ignorare, infatti, che il sistema cautelare è un ganglio sensibile di un meccanismo processuale più ampio di cui è pronto ad assorbire ogni tensione e a recepire ogni stortura 64. Tanto più che la funzione cautelare trova per sua natura una statistica prevalenza nelle indagini preliminari, fase in cui risulta più difficile comporre i confliggenti interessi garantendo, se non l’eguaglianza tra i soggetti quanto meno la parità delle armi. Si pensi, per restare agli ultimi eventi legislativi, al complicato intreccio tra disciplina delle intercettazioni e divieto di pubblicazione dei relativi atti: disciplina volta ad impedire la circolazione di contenuti investigativi lesivi della privacy, normalmente – bisogna aggiungere – veicolati sui mass media tramite il testo di ordinanze cautelari. La singolare vicenda legislativa che ha riguardato la riforma della disciplina delle intercettazioni è esemplificativa delle difficoltà generate dal voler garantire pienamente il diritto di difesa nel procedimento cautelare, contemperando istanze confliggenti: approvata ma rimasta inefficace per circa un biennio, la legge ha mutato la pelle insieme alla temperie politica, mentre l’aspirazione alla tutela della privacy, difficilmente traducibile in regola, ha finito per restare depotenziata a beneficio dei diritti di difesa dell’imputato 65.
Ma il nodo essenziale di tutta la vicenda fin qui esaminata è il riflesso del tema monstre del processo penale italiano di oggi e dei decenni passati: la irragionevole durata del processo penale, acclarata dalle numerose condanne ricevute dal nostro Paese dalle autorità europee 66. È quasi superfluo ripetere che i tempi lunghi del processo penale non possono che riflettersi rovinosamente sulle dinamiche cautelari, rendendo fatalmente destinato ad insuccesso ogni tentativo di approntare soluzioni legislative accettabili, forgiate sulla sola disciplina di settore: una tensione netta si pone tra termini di custodia e durata del processo, ed è difficile comporre le istanze contrapposte senza ledere irrimediabilmente l’uno o l’altro dei valori in gioco. Ed è vero che la disciplina attualmente vigente finisce per far ridondare a danno del detenuto ogni variabile fisiologica ed ogni disfunzione del processo: ciò vale in via ordinaria per le regole dettate negli artt. 303 e seguenti del codice di procedura ed è stato confermato dai riflessi giudiziari della difficile emergenza sanitaria dell’ultimo biennio 67.
Più in generale, poi, la lunghezza del processo finisce per ripercuotersi sulle stesse valutazioni del giudice, al quale, chiamato a decidere su una detenzione suscettibile di protrarsi a lungo, si richiedono valutazioni severe che tendono a trascendere la prospettiva cautelare. Ne sono una riprova – accanto alla accentuazione della necessità di applicazione delle ordinarie regole sulla prova 68 – i ricorrenti tentativi – senza grande successo come si è visto – di irrigidire i parametri che presidiano le finalità cautelari 69. Se la durata del processo fosse contenuta in tempi plausibili, molte delle criticità – teoriche e pratiche – che affliggono il tema perderebbero di drammaticità.
Se è vero che una disciplina codicistica ben congegnata e numerose riforme legislative settoriali non sono riuscite ad assicurare, nel corso dell’ultimo trentennio, un esercizio del potere cautelare scevro da tensioni e prassi critiche, il quesito che ci si pone è se la inedita congiuntura politica – che sembra insieme richiedere necessità di rilancio dell’economia e attenzione ai diritti dell’individuo – rappresenti il momento per una svolta da tanto tempo attesa.
Ci sono motivi per sperare che l’intensa tensione verso prospettive di riforma a largo raggio sfoci in risultati più apprezzabili delle precedenti iniziative legislative annoveranti tentativi abortiti o compromissori quando non spinti da irragionevoli obiettivi di forze politiche in cerca di legittimazione popolare. Che le innovazioni richiesteci a gran voce dalle istituzioni europee siano legate a stretto filo a prebende di natura economica (la cui elargizione è condizionata al raggiungimento di precisi obiettivi di riforma) consente quanto meno di auspicare, da un canto, che le forze politiche convergano verso soluzioni condivise – lasciando da parte consuete rissosità molto spesso funzionali a risultati dell’urna – e dall’altro che i fondi ottenuti siano utili (e utilizzati) per una effettiva realizzazione delle strutture necessarie.
La c.d. riforma Cartabia – una legge delega ancora in fase di approvazione – volta ad incidere su alcuni snodi topici ha l’intento di far fronte, ancora una volta, agli obblighi assunti con le autorità europee e si rivolge verso l’obiettivo di fondo di ridurre i tempi del processo per recuperare efficienza nel contesto di un ordinamento di aspirazione accusatoria attento alle garanzie individuali.
Anche in questa vicenda il progetto più organico e pregevole offerto dalla commissione di studio ministeriale è passato per il setaccio della politica con esiti chiaroscurali, che solo potranno essere definitivamente soppesati quanto i criteri di delega avranno ricevuto attuazione normativa. Ridurre l’input attraverso la revisione dei meccanismi incidenti sull’obbligatorietà dell’azione penale; e propiziare l’output attraverso un (per verità ennesimo) tentativo di rivisitazione dei riti speciali costituiscono linee di intervento apprezzabili i cui risultati obiettivi andranno attentamente monitorati. In questo contesto, tuttavia, provoca qualche perplessità – accanto all’abbandono di un meccanismo flessibile come l’archiviazione “meritata” proposto dalla Commissione di studio – la scelta di prevedere la definizione di criteri di priorità dell’azione penale in capo al Parlamento.
Ed ancora, qualche disappunto desta la (non) riforma delle impugnazioni che – accanto a una serie di scelte semplificative e al contestato tema della improcedibilità – persegue la via di una selezionata riduzione dell’appello, senza mettere mano ad una compiuta revisione della materia. Ciò che avrebbe posto un tassello ab origine mancante per fare del nostro ordinamento processuale un sistema a miglior titolo annoverabile tra i processi accusatori: valorizzando l’oralità e l’immediatezza, e ponendo l’accento su un dibattimento che si postula ad immediato ridosso del fatto, il ruolo di un controllo in sede di impugnazione dovrebbe limitarsi ad aspetti molto circoscritti, da definirsi sulla premessa della esecutività della sentenza di primo grado.
Su altro piano, attenzione alle forme (processo telematico) e alle strutture (ufficio del processo) sembrano finalmente percorrere le vie di una sostanziale innovazione della macchina giudiziaria.
Se tanto basterà per restituire al sottosistema cautelare un funzionamento ortodosso è presto per dirlo: facendo due conti con i numeri che ci si offrono, tuttavia (e pur non volendo indulgere a letture eccessivamente dietrologiche) 70, l’obiettivo della riduzione del carico giudiziario del 25 per cento in cinque anni 71 - quand’anche fosse centrato - spinge in avanti nel tempo risultati che solo affievoliscono il sovraccarico degli uffici giudiziari con le sue conseguenze nefaste.
Non serve un vaticinio per immaginare che ci si ritroverà ancora una volta a discutere di efficienza del processo e custodia cautelare.