Dossiê: “Personal freedom and precautionary measures in criminal proceedings”
Received: 30 July 2021
Accepted: 04 October 2021
DOI: https://doi.org/10.22197/rbdpp.v7i3.631
Abstract: Il contributo è dedicato all’analisi del cosiddetto “doppio binario cautelare”, e dunque della disciplina speciale, racchiusa nel secondo e terzo periodo dell’art. 275 comma 3 c.p.p. (oltre che nell’art. 12 comma 4- bis d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286), che prevede alcune deviazioni dalla regolamentazione generale concernente le condizioni applicative e i criteri di scelta delle misure cautelari personali. Il saggio esordisce descrivendo la normativa prevista per i reati comuni, per poi concentrarsi sul regime derogatorio previsto per particolari categorie di delitti. A tale ultimo proposito, dopo aver descritto la travagliata evoluzione che ha contrassegnato la disciplina speciale dal 1991 ad oggi, l’A. si sofferma sulle criticità che tuttora connotano questo dispositivo di particolare rigore, nelle sue diverse declinazioni, anche alla luce della posizione espressa al riguardo dalla Corte costituzionale.
Parole chiave: Misure cautelari personali, Custodia cautelare in carcere, Strategia del doppio binario, Criminalità organizzata, Terrorismo, Delitti che destano particolare allarme sociale, Presunzioni di pericolosità.
Abstract: By analyzing the twin-track strategy applied to precautionary measures, the paper focusses on the precept enclosed in the second part of the Art. 275, para 3, Code of Italian Criminal Procedure (as well as in Art. 12, para 4- bis, d. lgs. 25 July 1998, n. 286) which establishes some exceptions to the general rules concerning the application of pre-trial detention. The essay begins by describing the rules applying where common crimes are under investigation and then addresses the requirements established for certain serious crimes. In particular, after a detailed account of the legislative evolution (from 1991 to date) of the provision in issue, the paper dwells on its unresolved critical aspects, also taking into account the Italian Constitutional Court’s stance on the matter.
Keywords: Precautionary measures, Pre-trial detention, Twin-track strategy, Organized crime, Terrorism, Crimes arising special social alarm, Presumptions of dangerousness.
Sommario: 1. Premessa. – 2. La disciplina comune. – 3. Il “doppio binario cautelare” e la sua storia travagliata: gli anni ’90. – 4. La “tela di Penelope”: il Pacchetto sicurezza del 2009 e la risposta della Corte costituzionale. – 5. La riforma del 2015. – 6. Uno sguardo complessivo all’assetto oggi in vigore.
1.Premessa.
La disciplina del “doppio binario cautelare” identifica un oggetto di osservazione formidabile, poiché, se analizzata in chiave diacronica, consente di cogliere in modo esemplare il pendolarismo che ha segnato un settore normativo – quello concernente l’incidente de libertate – ripetutamente deformato dalla volontà di assecondare istanze contrapposte, securitarie e garantistiche a seconda del momento.
Prima di concentrarvisi, sembra opportuno partire da una premessa (senz’altro superflua per il giurista italiano ma forse utile a chi si trovi per la prima volta dinanzi a questo specifico sistema nazionale), dando velocemente conto delle condizioni generali prescritte dalla legge per poter attivare la tutela cautelare personale.
Il regime scolpito dall’art. 275 comma 3, secondo e terzo periodo, c.p.p. (nonché dall’art. 12 comma 4- bis d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286) – sul quale concentreremo le nostre riflessioni – stabilisce infatti alcune vistose deroghe alle regole comuni ove si proceda per determinati delitti; descrivere queste ultime consentirà quindi di inquadrare meglio il livello di “scarto” tra la disciplina speciale e quella valevole per la generalità dei procedimenti.
2. La disciplina comune.
Le condizioni ordinarie per poter disporre le misure cautelari personali sono governate da un rigido principio di tassatività, diretta conseguenza della riserva di legge prescritta dal secondo comma dell’art. 13 Cost. per le limitazioni della libertà personale.
Stando alle regole generali, oltre al ricorrere di precisi requisiti di gravità del delitto per il quale si procede (requisiti che sono stati a più riprese resi più rigorosi con specifico riferimento alla custodia cautelare in carcere, oggi applicabile solo là dove si proceda per un delitto punito con la pena non inferiore nel massimo a cinque anni 2), il codice (all’art. 273 c.p.p.) richiede la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza. Diretta espressione del principio di proporzionalità, tale nozione limita il possibile ricorso alle misure cautelari personali (tutte: e dunque non solo quelle coercitive, ma anche quelle interdittive 3) ai casi in cui risulti altamente probabile la colpevolezza dell’imputato.
Nel passaggio dal codice previgente a quello attuale, il legislatore è significativamente intervenuto sulla definizione normativa del cosiddetto fumus commissi delicti: se prima del 1988 per disporre le misure cautelari personali erano necessari sufficienti indizi di colpevolezza, tali indizi devono oggi essere gravi. Non è superfluo segnalare quanto possa essere delicata e “precaria” questa valutazione, per sua natura allo stato degli atti: infatti, non soltanto le misure cautelari trovano in genere applicazione nella fase delle indagini preliminari, quando il pubblico ministero non ha ancora formulato l’accusa, e dunque sulla base di un’attività investigativa magari ancora in fieri (e non necessariamente spendibile anche nel giudizio); in tal senso vengono infatti in gioco anche i connotati del procedimento applicativo delle misure cautelari, che vede un dialogo a due tra pubblico ministero e giudice, senza l’intervento della difesa, che potrà far sentire la propria voce – eventualmente smentendo la ricostruzione dell’accusa – solo dopo l’esecuzione dell’ordinanza applicativa della misura restrittiva (e non prima, così da non frustrarne l’effetto sorpresa).
Sul piano funzionale, si può ricorrere alle misure cautelari personali per finalità ben precise, la cui descrizione normativa, assente nel testo costituzionale, si ritrova però nell’art. 274 c.p.p.: una disposizione più volte rimaneggiata dal legislatore onde scongiurare l’eccessivo ricorso alle misure coercitive (su tutte la custodia in carcere) riscontrabile nella prassi.
La prima esigenza cautelare viene ravvisata nel rischio di inquinamento probatorio, riconducibile alla sussistenza di «specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a situazioni di concreto ed attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova» (lettera a dell’art. 274 c.p.p.). Tra tutti i pericula libertatis, questo è senz’altro il più ortodosso se confrontato con i principi costituzionali (in particolare con la presunzione di non colpevolezza), essendo posto a tutela della funzione cognitiva del processo.
La seconda esigenza cautelare è data dal pericolo di fuga, che si realizza «quando l’imputato si è dato alla fuga o sussiste il concreto ed attuale pericolo che egli si dia alla fuga». Lo scopo della previsione di cui alla lettera b) dell’art. 274 c.p.p. è chiaramente quello di impedire che la persona sottoposta al procedimento possa sottrarsi all’esecuzione di un’eventuale condanna; in questo caso si intende dunque salvaguardare non più la funzione cognitiva del processo ma la – non meno essenziale – funzione della pena che debba eventualmente scaturirne 4.
La terza esigenza cautelare (cui la legge-delega si riferisce parlando di «esigenze di tutela della collettività») viene invece ricondotta al «concreto e attuale pericolo» che l’imputato possa commettere gravi delitti, tra i quali si colloca anche il rischio di commissione di reati della stessa specie rispetto a quello per il quale si procede 5.
Tra le esigenze cautelari, quella appena menzionata è senz’altro la più ardua da conciliare con la presunzione d’innocenza; a differenza delle altre due, essa non ha uno scopo rivolto al processo, ma risponde piuttosto a una delle funzioni tipiche della pena: pur non potendo perseguire compiti di prevenzione generale, la sua finalità è infatti dichiaratamente specialpreventiva 6.
Quelli appena descritti – e non altri – sono gli unici pericula libertatis idonei a sorreggere, anche isolatamente, l’applicazione di una misura cautelare personale nel sistema processuale penale italiano; se questo è vero, è altrettanto vero, però, che nella prassi continua a registrarsi un diffuso impiego delle cautele per finalità diverse da quelle indicate dal legislatore: naturalmente, non nel senso che i giudici ammettono esplicitamente di applicare la misura per queste diverse finalità, ma nel senso che le esigenze cautelari positivamente previste dalla legge vengono in concreto ritenute sussistenti anche quando non lo sono. Queste, in particolare, le distorsioni funzionali più comuni, che persistono nonostante più volte siano state denunciate dalla dottrina: la tendenza ad impiegare le misure restrittive della libertà personale ad eruendam veritatem, che ha addirittura indotto il legislatore a reagire introducendo la specificazione (pleonastica) secondo cui «le situazioni di concreto ed attuale pericolo non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti 7»; l’altrettanto surrettizia assegnazione alla custodia cautelare di funzioni che dovrebbero essere proprie della pena: tanto che non solo la custodia cautelare anticipa, ma, in molti casi (quando le pene irrogate con la condanna sono non troppo elevate) addirittura sostituisce la pena 8; infine, lo scopo di sedare l’allarme sociale (con una deformazione che ha spesso influenzato innanzitutto il legislatore, in particolare – ma non solo – proprio inducendolo ad estendere l’ambito operativo di quel “doppio binario cautelare” cui dedicheremo le prossime pagine).
Ciò precisato – e dunque al netto delle puntualizzazioni appena svolte –, stando al nudo dato positivo possiamo comunque concludere che, per poter attivare un qualsiasi presidio cautelare (dal più al meno severo), è necessaria la coesistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine a un delitto che soddisfi determinate soglie di gravità (variabili in funzione della misura in concreto disposta) e di una o più fra le esigenze cautelari tipizzate dall’art. 274 c.p.p.
A seguire, la decisione cautelare si articola su un ulteriore passaggio logico-giuridico, solo apparentemente meno delicato: quello concernente la scelta della misura da applicare.
Tale scelta è gravida di conseguenze concrete, così come si può cogliere osservando l’ampio ventaglio di possibilità offerte al giudice (che, dopo la legge 16 aprile 2015, n. 47, può anche decidere di cumulare tra loro le prescrizioni caratteristiche di diverse misure). Il codice appronta infatti una serie variegata di presidi, taluni coercitivi, cioè restrittivi della libertà personale 9, e altri interdittivi 10, che a differenza dei primi non incidono sulla libertà fisica di movimento, quanto piuttosto sulla sfera giuridica dell’interessato, limitando temporaneamente l’esercizio di determinate potestà, facoltà, diritti 11.
Per orientare il giudice, il legislatore ha stabilito alcuni criteri, che, dapprima declinati in termini molto generali, nel corso degli anni si sono arricchiti di una serie cospicua di specificazioni e deroghe (alcune tra le quali investono proprio la disciplina del “doppio binario cautelare”).
Tali parametri trovano tuttora la loro descrizione nel corpo dell’art. 275 c.p.p.; limitandosi qui a un resoconto didascalico e parziale, i criteri in questione sono quelli di proporzionalità e adeguatezza.
Stando al primo – espresso nella sua formulazione generale dal secondo comma dell’art. 275 c.p.p. – il giudice dovrà tener conto della congruità della misura da applicare rispetto alla gravità del caso concreto; ciò evidentemente sulla scorta di un provvisorio giudizio sull’entità del fatto per il quale si procede 12.
In forza del principio di adeguatezza, il giudice è invece tenuto a optare per la misura meno gravosa tra quelle astrattamente idonee a soddisfare le esigenze cautelari. Ciò significa, dunque, che la misura “adeguata” non coincide con quella che garantisce nella maniera più efficace il soddisfacimento delle esigenze cautelari, quanto piuttosto con la misura in grado di fronteggiarle al minor prezzo in termini di limitazione della libertà personale.
Una specificazione del principio di adeguatezza è stabilita dal comma 3 prima parte c.p.p. (norma già dettata dal legislatore del 1988, e ritoccata nel 2015), secondo cui «la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate »13.
Quanto alla disciplina dinamica, ci troviamo di fronte a una fattispecie necessariamente complessa, che vede nel pubblico ministero l’unico soggetto legittimato a sollecitare l’esercizio del potere cautelare e che al contempo assegna il monopolio del relativo esercizio al solo giudice (a norma dell’art. 279 c.p.p., il giudice procedente, o, prima dell’esercizio dell’azione penale, il giudice per le indagini preliminari). Le scansioni del procedimento applicativo sono anch’esse molto rilevanti per inquadrare la disciplina del “doppio binario cautelare”, poiché ci consegnano una fase – quella di prima applicazione della misura – che non riconosce alcun diritto di intervento della difesa atto a contrastare la richiesta del pubblico ministero; come già segnalato più sopra per non frustrare le esigenze cautelari, tale intervento viene infatti rimandato a un momento successivo all’esecuzione della misura disposta 14.
Anche a causa dell’assenza di contraddittorio anticipato, l’ordinanza impositiva della misura cautelare personale si caratterizza per un apparato motivazionale particolarmente ricco, specie a seguito delle numerose interpolazioni operate dal legislatore (in particolare nel 1995 e nel 2015); interpolazioni indotte, oltre che dalla volontà di scongiurare un ricorso eccessivo alle misure coercitive, anche da quella di sopperire al silenzio “necessitato” della difesa, priva di voce nella fase precedente all’esecuzione della misura.
3. Il “doppio binario cautelare” e la sua storia travagliata: gli anni ’90.
Tratteggiata a grandi linee la disciplina comune, valevole per la generalità dei procedimenti, ci si può ora concentrare sull’oggetto specifico di questo scritto: e dunque sulle deviazioni da tale paradigma previste per determinati delitti, che, ritenuti sintomatici di un particolare livello di pericolosità, hanno indotto il legislatore a imporre un regime differenziato e improntato a un’applicazione pressoché automatica delle misure cautelari personali, e segnatamente della custodia in carcere.
Come anticipato in premessa, la parabola evolutiva che ha contraddistinto questo particolare istituto rispecchia in modo antologico la tensione tra valori contrapposti, e come tale merita di essere riepilogata nelle sue singole tappe.
Inizialmente, il codice del 1988 non contempla alcuna deroga ispirata alla logica del doppio binario: il giudice decide dunque senza subire vincoli, verificando la sussistenza delle condizioni applicative delle misure cautelari personali e seguendo i principi di proporzionalità e adeguatezza così come formulati in termini generali dal tenore originario dell’art. 275 c.p.p. 15.
Il ripudio della cosiddetta cattura obbligatoria – espressamente menzionato nella direttiva n. 59 della legge delega (e anticipato dalla legge 5 agosto 1988, n. 330 16) – costituisce del resto uno dei più significativi elementi di rottura rispetto al sistema previgente, viceversa caratterizzato dalla presenza di una disciplina improntata all’applicazione automatica della carcerazione in presenza di indizi di colpevolezza (in allora definiti «sufficienti») rispetto a delitti di particolare gravità 17.
Tuttavia, quella scelta originaria – ispirata a una fiducia massima nella discrezionalità valutativa del giudice, e così coraggiosamente innovativa rispetto al passato – sarebbe stata sconfessata nel volgere di poco. Già sul finire del 1990, infatti, con un nugolo di decreti-legge (reiterati ma non convertiti), il Governo decide di reintrodurre il “doppio binario cautelare”, immettendo nel sistema un regime fondato su due presunzioni combinate tra loro 18. All’inizio si tratta di una doppia presunzione semplice, concernente tanto la sussistenza dei pericula libertatis quanto l’idoneità della sola custodia cautelare in carcere ad affrontare tali pericula19. Tuttavia, con il decreto-legge 9 settembre 1991, n. 292, convertito con legge 8 novembre 1991, n. 356, la doppia presunzione inizialmente declinata come semplice rimane iuris tantum (e dunque superabile) solo in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari, trasformandosi in assoluta relativamente alla idoneità della sola custodia carceraria a contrastare i pericula libertatis (oggetto della prima presunzione).
Questo peculiare congegno avrebbe in seguito vissuto alterne vicende. E’ però utile sin d’ora coglierne esattamente il modus operandi, che – sia pure con un ambito applicativo a geometria variabile – sarebbe rimasto in vigore anche negli anni successivi e che tuttora contraddistingue una delle due attuali declinazioni del “doppio binario cautelare” (quella prevista dall’art. 275 comma 3 secondo periodo c.p.p. per tre delitti associativi ritenuti sintomatici di una particolare pericolosità 20): se osservata da una prospettiva dinamica, che guardi ai contenuti dell’ordinanza applicativa della misura cautelare, sulla scorta della disciplina introdotta per la prima volta nel 1992 il giudice vede un sensibile alleggerimento dei propri obblighi motivazionali, che restano gravosi soltanto in ordine alla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza circa la commissione di un delitto compreso nel catalogo del “doppio binario”; in mancanza di elementi in grado di smentire le esigenze cautelari (oggetto di una presunzione iuris tantum), l’automatismo prescritto dalla legge gli impone di disporre la custodia in carcere sulla scorta di una presunzione assoluta di adeguatezza di tale sola m isura.
Stando all’impostazione adottata nel 1991-1992, l’elenco dei delitti in allora interessati dalla deroga descrive un «associazionismo criminoso ad alto tasso di violenza» 21: sebbene il catalogo sia piuttosto esteso, la deroga alla disciplina generale è comunque contrassegnata da una qualche omogeneità; una omogeneità che si sarebbe viceversa totalmente smarrita nella storia successiva dell’istituto (in particolare a far data dal cosiddetto “Pacchetto sicurezza” del 2009).
In seguito sarebbe intervenuta la legge 8 agosto 1995, n. 332. Nell’ambito di un’ampia novella ispirata dall’intento di limitare il ricorso alla custodia cautelare in carcere e di irrobustire le garanzie della difesa, il legislatore decide infatti di por mano anche alla «cattura quasi obbligatoria» 22. Senza mettere completamente in discussione l’automatismo consolidatosi dal 1992 (ormai dato per acquisito al sistema), in quel frangente la scelta operata è di tipo contenitivo: in particolare, il catalogo di reati cui riferire la doppia presunzione viene sensibilmente ristretto, trovando applicazione ai soli procedimenti relativi a delitti di matrice mafiosa 23.
Ed è proprio dopo la riforma del 1995 che sul doppio binario cautelare ex art. 275 comma 3 c.p.p. verrà chiamato a esprimersi, per la prima volta, il Giudice delle leggi 24, nell’ambito di una vicenda concernente alcuni delitti aggravati dalla finalità di agevolazione di associazioni di tipo mafioso.
Inaugurando un’impostazione poi replicata più volte, la porzione di disciplina sottoposta al vaglio della Corte è quella concernente la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere; i parametri evocati sono invece quelli racchiusi negli artt. 3, 13 comma 1 e 27 comma 2 Cost.: il primo sul presupposto della irragionevole disparità di trattamento nel preordinare una risposta cautelare omogenea rispetto a «situazioni obiettivamente e soggettivamente diverse»; gli artt. 13 comma 1 e 27 comma 2 Cost. in quanto «parametri […] dalla cui lettura combinata emerge l’esigenza di circoscrivere allo strettamente necessario le misure limitative della libertà personale».
In risposta alle censure, la Corte confeziona un’ordinanza molto asciutta (la n. 450 del 1995), dove si può leggere, fra l’altro, questa frase: «una volta rilevato il rispetto della riserva di legge a norma dell’art. 13 della Costituzione, il residuo riferimento dell’ordinanza di rinvio alla presunzione di non colpevolezza ex art. 27 della Costituzione si rivela manifestamente non conferente, data l’estraneità di quest’ultimo parametro all’assetto e alla conformazione delle misure restrittive della libertà personale che operano sul piano cautelare, che è piano del tutto distinto da quello concernente la condanna e la pena» 25.
Al di là di questo passaggio sorprendente (e che sarà fatto oggetto di un doveroso ripensamento nelle numerose pronunce che sarebbero poi intervenute sul tema), il Giudice delle leggi “salva” la compatibilità costituzionale della disciplina osservando come il suo spazio operativo circoscritto alla criminalità organizzata di stampo mafioso renda manifesta la non irragionevolezza della scelta legislativa, «atteso il coefficiente di pericolosità per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere è connaturato». Tale concisa presa di posizione condizionerà anche la successiva giurisprudenza costituzionale, che si diffonderà in maggior misura sul punto restando comunque tendenzialmente fedele alla linea 26; essa poggia sull’assolutizzazione di una massima di esperienza che viene spinta fino ad accettare il rischio di applicare un trattamento cautelare estremo (la detenzione in carcere) a tutti i casi in cui i pericula libertatis si prestano ad essere affrontati con misure meno restrittive.
Malgrado i suoi limiti, la pronuncia racchiude però anche un’importante precisazione, là dove – e a differenza da quanto già ritenuto in ordine alla “cattura obbligatoria” di cui al codice del 1930 – la Corte ha mostrato di ammettere che possa essere oggetto di una valutazione legale insuperabile unicamente l’adeguatezza del solo carcere, ma non anche la sussistenza del periculum libertatis27.
In seguito, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo sarebbe stata chiamata ad esprimersi sulla disciplina dell’art. 275, comma 3, seconda parte, c.p.p. (CEDU, 6 novembre 2003, Pantano c. Italia): ma, in scia con quanto già ritenuto dalla Corte costituzionale, anche il Giudice di Strasburgo deciderà di salvare il doppio binario cautelare, ponendo l’accento sul suo circoscritto perimetro applicativo, che, allora riservato ai soli delitti di matrice mafiosa, giustifica la deroga alla disciplina generale sulla scorta del fatto che solo la carcerazione provvisoria «tende a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine, al fine di minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano nel frattempo commettere delitti» 28.
4. La “tela di Penelope”29: il Pacchetto sicurezza del 2009 e la risposta della Corte costituzionale.
A quasi tre lustri dall’intervento contenitivo operato nel 1995, e in una stagione fortemente condizionata da istanze securitarie, con l’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (convertito con legge 23 aprile 2009, n. 38), il meccanismo a duplice presunzione vede un nuovo e imponente ampliamento del proprio ambito di operatività 30.
Sennonché, l’operazione condotta dal legislatore del 2009 è molto più maldestra di quella del 1991-1992; mossa da motivi contingenti e propagandistici, indicati nell’esigenza di contrastare l’allarme suscitato da alcuni crimini amplificati dalla stampa in un caldo clima pre-elettorale, come spesso accade essa neppure consegue a una reale necessità: la pretesa “esplosione” degli episodi di violenza sessuale rappresentata dai mass media in quel particolare frangente risulta infatti del tutto smentita dalle statistiche 31.
Segnatamente, con l’intervento del 2009, il catalogo dei reati cui si riferisce la doppia presunzione (inalterata nel suo funzionamento, ma decisamente più estesa quanto a spazio operativo) diventa molto poco razionale, sia per i suoi contenuti sia per la tecnica di redazione normativa impiegata: accanto ad un’estensione “nominale”, con esplicita menzione dei singoli delitti cui applicare questa particolare forma di “doppio binario” (delitti in materia sessuale, specie quando ne sia vittima un minore), il legislatore colloca un rinvio ai commi 3- bis e 3- quater dell’art. 51 c.p.p., concernenti le attribuzioni della procura distrettuale antimafia 32.
Del resto, è questa un’abitudine antica, giustamente stigmatizzata dalla dottrina più accorta: «la creazione di binari doppi, tripli o quadrupli, operata mediante rimandi a liste preformate per tutt’altri scopi e trasfigurate in norme-simbolo di angosce collettive, è uno dei mali peggiori che affligge la nostra legislazione processuale» 33. E’ infatti chiaro quanto sia audace la pretesa di impiegare un catalogo ideato per agevolare lo svolgimento delle indagini per fini così distanti ed eterogenei da quelli che ne hanno animato la creazione; tanto più considerando che gli scostamenti dalla disciplina generale dovrebbero essere improntati all’eccezionalità.
Le critiche all’intervento legislativo del 2009 34 hanno trovato un riscontro (parziale e timido) nella giurisprudenza costituzionale, che, nel periodo compreso tra il 2010 e la successiva riforma in tema (che si deve alla legge n. 47 del 2015), è intervenuta per ben nove volte sull’istituto.
La prima pronuncia ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275 comma 3 seconda parte c.p.p. (con specifico riferimento ai delitti di prostituzione minorile, violenza sessuale e atti sessuali con un minorenne) per contrasto con gli artt. 3, 13 e 27 comma 2 Cost. 35.
Come unanimemente riconosciuto, la ricostruzione assiologica operata dalla sentenza n. 265 del 2010 è preziosissima; ma nonostante l’importanza del richiamo a tutti e tre i parametri azionati dal giudice rimettente, la Corte ha tuttavia voluto interferire il meno possibile con le scelte del legislatore: lungi dal dichiarare incostituzionale l’applicazione della doppia presunzione ai procedimenti per tali delitti (con una declaratoria di illegittimità “secca”), il Giudice delle leggi si è infatti limitato a mutare da assoluta ( iuris et de iure) a relativa ( iuris tantum) la presunzione di adeguatezza della sola custodia in carcere.
In particolare, con questa prima pronuncia – fondamentale punto di partenza della successiva serie di decisioni intervenute volta a volta per smantellare l’edificio normativo edificato nel 2009 – la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, c.p.p., nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 600- bis, primo comma, 609- bis e 609- quater c.p., «è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».
Come anticipato, la decisione presenta sia luci che ombre. Se è infatti vero che la sentenza – oltre ad escludere che l’automatismo possa «rinvenire la sua fonte di legittimazione nell’esigenza di contrastare situazioni causa di allarme sociale, determinate dalla asserita crescita numerica di taluni delitti» 36 – riconosce a chiare lettere la rilevanza della presunzione d’innocenza in materia cautelare, così superando l’opposta affermazione racchiusa nell’ordinanza n. 450 del 1995 (oltre alle ambiguità riscontrabili anche nella giurisprudenza più risalente 37), va però rimarcato che, come già in precedenza, non è stato invece sviluppato il confronto con l’art. 13, comma 2, Cost. (parametro che del resto non era stato specificamente evocato dai giudici remittenti): “assorbendo” gli obblighi motivazionali del giudice cautelare, l’automatismo nella valutazione dei presupposti e dei criteri di scelta delle misure descritto dall’art. 275 comma 3 c.p.p. implica infatti una frizione con la disciplina costituzionale dedicata alla libertà personale, che, oltre a sancire la riserva di legge, pretende anche un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria 38.
Inoltre, la circostanza che il devolutum fosse circoscritto alla sola presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere ha forse contribuito a determinare la timidezza della soluzione adottata dalla Corte, che ha sostanzialmente recuperato l’opzione normativa già sperimentata con la prima decretazione d’urgenza del 1991.
Anche se il forte nesso tra gli ultimi due passaggi logici che scandiscono la decisione cautelare – la verifica della sussistenza delle esigenze cautelari e la valutazione di adeguatezza, che investono rispettivamente l’esistenza e l’intensità del periculum libertatis – ben avrebbe potuto suggerire di valutare l’ortodossia costituzionale anche della presunzione relativa concernente l’ an della cautela 39, ciò non è avvenuto, e il vaglio di ragionevolezza (vero fulcro della sentenza n. 265 del 2010, come pure di tutta la “gemmazione” giurisprudenziale successiva) è rimasto circoscritto al solo secondo tassello dell’automatismo, purgato esclusivamente del suo carattere assoluto; la soluzione concretamente adottata è dunque figlia del fatto che il Giudice delle leggi ha ritenuto costituzionalmente accettabile il meccanismo, meno cogente, della presunzione relativa, superabile da elementi di segno contrario. Fondamentali, a tal fine, le caratteristiche delle fattispecie incriminatrici oggetto del giudizio a quo, prive dei connotati propri di quella descritta dall’art. 416- bis c.p., la quale (riprendendo e sviluppando più diffusamente la posizione già espressa nell’ordinanza costituzionale n. 450 del 1995) viene assunta dalla Corte quale paradigma su cui tarare il vaglio di ragionevolezza 40.
La soluzione adottata dalla sent. n. 265 del 2010 è stata poi riprodotta da altre numerose pronunce, che ne hanno replicato lo schema logico e il tipo di sindacato, esaminando le caratteristiche dei singoli delitti volta a volta sottoposti allo scrutinio della Corte secondo la logica dell’ id quod plerumque accidit41.
Mutatis mutandis, le successive declaratorie di illegittimità costituzionale riproducono tutte lo schema della sentenza “madre”, la n. 265 del 2010: seguendo la medesima linea, la Corte non ha quindi mai negato radicalmente la ragionevolezza della presunzione di adeguatezza della sola cattività carceraria, ma unicamente il suo carattere assoluto.
La disciplina si è ritrovata dunque, per un lungo periodo, in continuo movimento, essendo stata demolita (e non del tutto) a più riprese. Del resto, sarebbe stato arduo ipotizzare un unico intervento risolutivo, a causa della caratteristica incidentalità propria del giudizio di legittimità costituzionale, che vede il Giudice delle leggi chiamato ad esprimersi volta a volta in funzione della concreta rilevanza della questione nel giudizio a quo (e dunque in funzione della natura degli addebiti volta a volta costituenti l’oggetto del procedimento principale) 42. Chiaro come un simile panorama, in costante evoluzione, abbia determinato il concreto pregiudizio per i soggetti attinti da procedimenti cautelari aventi ad oggetto addebiti non ancora interessati dalle declaratorie di illegittimità costituzionale. Ma la strada dell’esegesi costituzionalmente orientata – che pure è stata arditamente sperimentata dalla Corte di cassazione 43 (ancorché per ragioni tutt’altro che garantistiche 44) – non poteva comunque ritenersi praticabile: nella sua perentoria chiarezza, il testo dell’art. 275 comma 3 (seconda e terza parte) c.p.p. non lasciava infatti spazio alcuno a una simile operazione ermeneutica.
La situazione determinata dalle pronunce della Corte costituzionale ha dunque fissato l’esistenza di un regime triplice: accanto a quello, generale, in base a cui il giudice deve valutare e motivare in ordine alla sussistenza di tutti i presupposti e criteri di scelta delle misure cautelari, quello, introdotto dal legislatore, a doppia presunzione, semplice (in ordine all’esistenza dei pericula libertatis) e assoluta (in ordine all’adeguatezza della sola custodia in carcere), e infine quello ulteriore, “creato” dal Giudice delle leggi, a doppia presunzione semplice (in ordine tanto all’esistenza dei pericula libertatis quanto all’adeguatezza della sola custodia in carcere).
Un articolato (e artificioso) panorama che, al netto delle rilevanti modifiche nel frattempo intervenute (e di cui subito si dirà), tuttora contrassegna l’assetto vigente.
5. La riforma del 2015.
Su questa complessa (e ancora “mobile” 45) situazione è infine intervenuta la legge 16 aprile 2015, n. 47, con una soluzione conservativa che ha inevitabilmente tradito le ambizioni dell’originaria proposta di legge presentata alla Camera 46. Anzi: il dibattito parlamentare che ha condotto alla riscrittura dell’art. 275 comma 3 c.p.p. costituisce l’ennesimo sintomo di quanto la disposizione sia cruciale e travagliata.
L’iniziale proposta di legge si prefiggeva di circoscrivere il regime a doppia presunzione (semplice, concernente la sussistenza delle esigenze cautelari, e assoluta, circa l’idoneità della sola custodia in carcere a fronteggiare i rischi cautelari) ai delitti di cui agli artt. 270, 270- bis e 416- bis del codice penale. Alla riscrittura in questi termini del comma 3 secondo periodo avrebbe dovuto corrispondere l’eliminazione, dal tessuto codicistico, del regime a doppia presunzione relativa sagomata dal Giudice delle leggi a partire dalla sentenza costituzionale n. 265 del 2010. Ma già dal primo passaggio alla Camera, il congegno a doppia presunzione semplice sarebbe inesorabilmente ricomparso, per poi rimanervi in tutte le successive tappe della doppia navetta parlamentare sfociata nella legge n. 47 del 2015. L’esame dei lavori preparatori sul punto è interessante, perché denota uno scontro di opinioni davvero rimarchevole, tradottosi nella presentazione di emendamenti di segno radicalmente opposto tra loro: accanto a chi prospettava di confinare l’operatività del meccanismo presuntivo ai soli procedimenti per associazione a delinquere di stampo mafioso si collocava chi avrebbe voluto demagogicamente estenderlo ai delitti contro la pubblica amministrazione e l’amministrazione della giustizia 47.
Alla prova dei fatti, il Parlamento si è limitato a recepire l’insegnamento scaturito dalle numerose declaratorie di illegittimità abbattutesi sull’art. 275 comma 3 c.p.p.; così dunque riproponendo le stesse timidezze che già avevano permeato l’approccio della Corte costituzionale. Tanto che, malgrado la riforma del 2015 identifichi uno dei più corposi (sebbene troppo cauti 48) interventi sulla disciplina cautelare personale, «al tema delle presunzioni di adeguatezza della sola custodia viene dedicata una attenzione slavata e compromissoria, nessuna alla presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari» 49.
La fisionomia della “cattura semi-obbligatoria” uscita dalla novella del 2015 prevede infatti un doppio regime derogatorio alle regole comuni. In primo luogo, l’art. 275 comma 3 c.p.p. stabilisce che, ove si proceda per i delitti di cui agli artt. 270, 270- bis e 416- bis c.p., il giudice, una volta verificata la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, debba sempre applicare la custodia in carcere, a meno che non risulti l’insussistenza di esigenze cautelari.
In concreto, il regime applicabile a questi delitti è dunque oggetto di una dualità secca (del tutto analoga a quella inaugurata dal legislatore nel 1992): o l’imputato si vede attinto dalla più restrittiva tra le misure, oppure resta immune da qualsiasi trattamento cautelare (perché il giudice ha constatato l’insussistenza di tutte e tre le esigenze di cui all’art. 274 c.p.p.) 50. Il che (sia detto per inciso) non potrà non indurre, a monte, una marcata refrattarietà a superare la prima presunzione – vincibile – di sussistenza delle esigenze cautelari: se infatti la dicotomia è così oppositiva – l’imputato o finisce in carcere o resta a piede libero – in via di fatto sarà ancor più arduo che il giudice possa scegliere di dichiarare l’insussistenza di tutti e tre i pericula libertatis51.
Questo dispositivo – così rigoroso e irto – viene riservato a tre distinte fattispecie associative: e dunque non solo all’associazione a delinquere di stampo mafioso (rispetto a cui vigeva da tempo, avendo superato indenne il vaglio di costituzionalità risolto con la declaratoria di manifesta infondatezza del 1995 52), ma anche alle associazioni sovversive e a quelle con finalità di terrorismo o di eversione. Con una scelta, quella insita nell’inserimento della fattispecie di cui all’art. 270- bis c.p., che «rappresenta una new entry nel novero dei reati trattati meno favorevolmente» 53: infatti, se la fattispecie di cui all’art. 416- bis c.p. si ascrive al “doppio binario cautelare” inserito nel codice vigente sin dalla sua fondazione (nel 1991), e il delitto di cui all’art. 270 c.p. già partecipa del trattamento differenziato a partire dal 2009, fino al 2015 l’associazione con finalità di terrorismo è rimasta sempre soggetta alla disciplina comune, esente da qualsiasi automatismo («a ennesima dimostrazione della volubilità dei compilatori» 54).
In secondo luogo, il riformato art. 275 comma 3 c.p.p., al suo terzo periodo, prevede che, ove si proceda in relazione ad uno dei delitti compresi nella eterogenea categoria descritta dagli artt. 51, commi 3- bis e 3- quater c.p.p., nonché in relazione ai delitti di cui agli artt. 575, 600- bis, primo comma, 600- ter, escluso il 4° comma, 600- quinquies, e, quando non ricorrano le circostanze attenuanti contemplate, 609- bis, 609- quater, 609- octies c.p., il giudice, una volta verificata la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, debba applicare la misura della custodia cautelare in carcere a meno che non risulti l’insussistenza delle esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, queste ultime possono essere soddisfatte con altre misure 55.
In questo secondo gruppo di ipotesi, il giudice si ritrova comunque al cospetto di due diverse presunzioni, entrambe semplici: con riferimento tanto alla sussistenza di esigenze cautelari quanto all’adeguatezza della sola custodia in carcere 56.
Dinanzi alla riforma del 2015, la sensazione è quella di un meccanismo calibrato sulle scelte – non così coraggiose – operate dallo «sciame dei precedenti» 57 inaugurati dalla sentenza costituzionale n. 265 del 2010; meccanismo che pare costruito, più che su una reale attenzione alla tutela della libertà personale, ben più modestamente sulla volontà di evitare un radicale e indifendibile conflitto con i parametri costituzionali rilevanti in materia.
6. Uno sguardo complessivo all’assetto oggi in vigore.
Ripercorsa la tormentata storia dell’istituto – che replica un andamento pendolare già caratteristico della cattura obbligatoria regolata dal codice del 1930 – si possono ora svolgere alcune riflessioni sulla conformazione vigente del “doppio binario cautelare”.
Negli anni ’90, una fra le spiegazioni addotte all’introduzione dell’automatismo chiamava in causa la necessità di irrobustire la posizione del giudice, che, se vincolato nella sua valutazione in ordine alla pericolosità dell’imputato, sarà anche più difficilmente influenzabile dal contesto ambientale 58; tuttavia, se tale interpretazione (che sembra quasi isolare un “quarto” periculum libertatis59) può giustificare l’operatività dell’istituto al contesto mafioso 60, l’indiscriminato allargamento operativo del doppio binario cautelare (sia pure con una fisionomia oggi più “accettabile” di quanto non fosse nel 2009) finisce inevitabilmente per appannare questa ipotetica ratio originaria 61, soppiantata dall’intento di inserire «un mero spot elettorale mirato ad attribuire consenso al legislatore di turno» 62.
Per come si presenta oggi, il congegno non può che essere ricondotto a una palpabile diffidenza verso la discrezionalità del giudice: è la legge, a monte, a imporre il carcere a colui che sia gravemente indiziato della commissione di determinati delitti. In misura non così distante da quanto avveniva con la cattura obbligatoria disegnata dal codice del 1930, il titolo di reato acquista un ruolo dirimente all’interno della fattispecie cautelare. Se infatti è vero che il dispositivo odierno è stato costruito in modo accorto – senza rinnegare le condizioni ulteriori (rispetto al fumus commissi delicti) per poter applicare la cautela massima, che sono “solo” presunte e non apertamente sconfessate –, all’atto pratico il meccanismo non è così lontano dal suo progenitore, in particolare – ma non soltanto – per quanto concerne la disciplina riservata ai delitti di cui agli artt. 416- bis, 270 e 270- bis c.p. 63. Tanto che l’odierno automatismo, per come costruito, in concreto si presta comunque a sfruttare la coercizione cautelare quale forma di anticipazione della pena, esattamente come avveniva con la cattura obbligatoria di cui al vecchio sistema.
Non stupisce, allora, che la Corte costituzionale sia stata nuovamente chiamata ad esprimersi sull’istituto, anche dopo che la novella del 2015 ha scelto di assestarsi sulla posizione del Giudice delle leggi. Sennonché, ciò è avvenuto – in due distinte occasioni – unicamente in relazione alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere sancita per i delitti associativi di cui agli artt. 416- bis e 270- bis c.p.
Le due decisioni intervenute sul regime cautelare speciale disegnato per tali fattispecie ribadiscono l’orientamento della giurisprudenza costituzionale già consolidatosi prima del 2015; e questo malgrado le importanti aperture in materia di preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari che hanno recentemente caratterizzato la giurisprudenza della stessa Corte (e su cui subito si tornerà).
Innanzitutto, pronunciandosi per la prima volta direttamente sulla fattispecie descritta dall’art. 416- bis c.p., l’ordinanza n. 136 del 2017 ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione, così rifacendosi alla propria precedente posizione, come espressa (sebbene nel relativo giudizio a quo si discettasse di un delitto aggravato ai sensi dell’art. 7 d. l. 13 maggio 1991, n. 152) sin dall’ordinanza n. 450 del 1995, e più volte ribadita in seguito 64.
In proposito, non hanno fatto breccia i convincenti rilievi del Tribunale di Torino, che ha tentato di porre in discussione gli assiomi sui quali ha sempre fatto leva il Giudice delle leggi. Come già in precedenza, anche in questa occasione la Corte ha infatti scelto di mantenere fermo il riferimento all’ id quod plerumque accidit: la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria troverebbe infatti la propria ratio fondante su una «congrua base statistica» basata sul «dato empirico-sociologico» che fotografa la forza intimidatoria dell’associazione criminale. Ma, ammesso e non concesso che tale «congrua base statistica» sia di per sé dimostrata 65, il punctum dolens della disciplina resta la negazione di qualsiasi possibilità, per il giudice, di verificare in concreto se le esigenze cautelari possano essere fronteggiate con misure meno restrittive della cattività inframuraria. Come osservato dalla dottrina, infatti, la regola statistica posta a fondamento del congegno qui in esame non può essere intesa in modo così draconiano, e dunque sino a giustificare uno sbarramento insuperabile alla possibilità di valutare l’adeguatezza di misure diverse dal carcere 66.
Purtroppo, anche nell’ultima occasione in cui ha avuto modo di esprimersi sulla presunzione iuris et de iure – prendendo in esame quella prevista in ordine alla fattispecie associativa di cui all’art. 270- bis c.p. – la Corte costituzionale ha mostrato un analogo atteggiamento conservativo, dichiarando infondata la questione prospettata dalla Corte d’assise di Torino. E ciò sebbene (come già ricordato) la fattispecie in esame sia stata inclusa nel doppio binario cautelare solo nel 2015. In proposito, la dottrina ha giustamente rilevato la difficoltà di estendere a questa ipotesi associativa le considerazioni – di per sé tutt’altro che irresistibili – svolte dal Giudice delle leggi rispetto all’associazione a delinquere di stampo mafioso: infatti, la fattispecie di cui all’art. 270- bis c.p. si presta in realtà ad abbracciare una congerie assai varia di ipotesi, che va dalle associazioni terroristiche di stampo islamico (che possono connotarsi per la transnazionalità e per il numero assai ampio di partecipi) al «terrorismo di matrice anarchica, che può anche operare in un territorio ristretto e basarsi sull’apporto di poche persone» 67.
Nondimeno, pur dando atto della differenza tra associazione terroristica o eversiva e associazione di stampo mafioso, la sentenza costituzionale n. 191 del 2020 ha ritenuto ragionevole la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere, facendo leva sul «preciso collante ideologico» che contraddistingue l’appartenenza alla prima, rendendola – per così dire – “pervicace e ostinata”; e ciò tanto da segnare un «netto discrimine tra l’associazione terroristica e le altre associazioni criminose» di cui la Corte ha avuto sinora modo di occuparsi nella propria giurisprudenza sull’art. 275 comma 3 c.p.p., «dal momento che tali associazioni sono caratterizzate – al più – dalla convergenza delle attività dei partecipi rispetto all’obiettivo immediato dell’esecuzione di reati e dell’acquisizione dei relativi profitti: obiettivo già di per sé frustrato, o comunque gravemente scompaginato, dalle indagini penali e dalle misure cautelari che ne conseguono» 68. Queste ultime caratteristiche non sarebbero invece riscontrabili rispetto alla persona indiziata del delitto di cui all’art. 270- bis c.p., che, se sottoposta a una misura extramuraria, ben potrebbe riprendere i contatti con gli altri associati ancora in libertà attraverso l’uso di telefoni e di internet.
Come già era accaduto in precedenza, anche nelle due ultime occasioni appena menzionate – entrambe successive alla novella del 2015 – il Giudice della legalità costituzionale non è stato sollecitato a confrontare la disciplina portata alla sua attenzione con il secondo comma dell’art. 13 Cost. 69. Ancora una volta è mancato, quindi, il confronto con la riserva di giurisdizione stabilita dal capoverso del precetto costituzionale: il che ha dunque consentito alla Corte di ricorrere al medesimo apparato argomentativo, riproposto per l’ennesima volta rispetto all’associazione di stampo mafioso di cui all’art. 416- bis c.p. e adattato – pur con i limiti appena segnalati – all’associazione terroristica con la recente e inedita decisione dedicata all’art. 270- bis c.p.p.
Come anticipato, oltre a non convincere, tale impianto giustificativo risulta pure dissonante con il diverso atteggiamento di recente mostrato dalla Corte costituzionale a proposito di alcuni fra gli automatismi previsti dal diritto penitenziario. Si allude, in particolare, ai contenuti della sentenza costituzionale n. 253 del 2019 (ripercorsi anche dalla recente e nota pronuncia in tema di “ergastolo ostativo” 70), che ha riscontrato l’irragionevolezza della disciplina racchiusa nell’art. 4- bis ord. pen.; una disposizione, quest’ultima, che stabiliva un’equivalenza – automatica e insindacabile – tra la mancanza di collaborazione con la giustizia e la pericolosità del detenuto, impedendo ai condannati per i delitti contemplati dalla norma di accedere ai permessi premio.
La vicinanza tra le due questioni – entrambe concernenti preclusioni al potere di accertamento giudiziale in ordine alle peculiarità del caso singolo, soggetto a una disciplina generale e astratta che non ammette deviazioni da quanto insuperabilmente stabilito dal legislatore – è chiara; eppure, il Giudice delle leggi, che si è mostrato coraggioso rispetto alla fase esecutiva della pena, è contestualmente rimasto arroccato sulla propria risalente posizione in ordine al “doppio binario cautelare” 71.
Se le pronunce costituzionali n. 136 del 2017 e 191 del 2020 hanno avallato la novella del 2015 rispetto a due delle tre fattispecie associative cui si riferisce il “nucleo duro” dell’automatismo, va detto che – viceversa – il regime a doppia presunzione semplice non è mai stato sottoposto al controllo della Corte costituzionale: né prima, né dopo la riforma. E, dopo la riforma, né rispetto alla presunzione (semplice) di sussistenza delle esigenze cautelari, né rispetto a quella (parimenti semplice) di adeguatezza della custodia cautelare in carcere prevista dalla seconda parte del disposto (e operativa per una nutrita serie di delitti 72). Come già segnalato, infatti, l’automatismo è approdato al vaglio di costituzionalità solo rispetto alla presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, e solo nella sua fisionomia quale presunzione assoluta.
Il dato è solo apparentemente singolare, potendo essere spiegato alla luce di svariati fattori: da un lato, la già segnalata tendenza – da parte di tutti i giudici rimettenti – a trascurare l’importanza di un sindacato fondato sulla riserva di giurisdizione prescritta dal capoverso dell’art. 13 Cost.; dall’altro, la natura vincibile della presunzione di sussistenza dei pericula libertatis, sulla cui scorta, quando dagli atti a disposizione del giudice risulti l’insussistenza delle esigenze cautelari, si determina in radice il difetto di rilevanza di un’ipotetica questione di legittimità costituzionale, potendo appunto tale presunzione essere superata (e ciò del tutto analogamente a quanto avviene rispetto alla presunzione di adeguatezza della sola custodia in carcere, ove questa sia relativa) 73; su tutti, la piena consapevolezza dell’approccio “minimalista” della Corte costituzionale, che ha mostrato di ritenere censurabile (e non sempre) la sola presunzione assoluta di adeguatezza della custodia carceraria, dando prova di considerare ragionevoli le presunzioni che risultino vincibili 74.
Nondimeno, la mancata messa in discussione delle presunzioni relative (da parte tanto del legislatore quanto della Corte costituzionale) finisce per consegnare all’interprete un sistema comunque assai squilibrato.
Se ciò naturalmente vale per il nucleo “duro” delle fattispecie associative (cui è appunto riservato l’automatismo nella sua espressione più severa), lo stesso può dirsi anche per quella cospicua serie di delitti cui il meccanismo si applica in forma attenuata, a mezzo di una doppia presunzione semplice. Infatti, anche rispetto a tale seconda categoria di reati il legislatore del 2015 ha stabilito che la sussistenza della sola gravità indiziaria entri già in sé, sfavorevolmente, nella formulazione della prognosi cautelare; e ciò con un’eclatante deroga alla regola generale di cui all’ultimo periodo dell’art. 274 c.p.p. (introdotta dalla legge n. 47 del 2015), stando alla quale la pericolosità dell’imputato non può essere desunta «esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede» 75.
In particolare rispetto a tutte le ipotesi di presunzione relativa, in astratto c’è comunque spazio per tentare un’interpretazione il più possibile conforme ai canoni costituzionali: ad esempio, riconoscendo a chiare lettere che l’imputato non può ritenersi onerato di provare l’insussistenza dei pericula libertatis, come pure della possibilità di affrontare questi ultimi con misure meno gravose della cattività carceraria. Sulla carta, infatti, l’individuazione degli elementi – presenti in atti – su cui fondare la prognosi cautelare compete comunque al giudice; a monte, e sempre sulla carta, il reperimento dei medesimi resterebbe a carico del pubblico ministero, tenuto dall’art. 358 c.p.p. a svolgere «accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini» 76.
Tuttavia, la giurisprudenza si è da tempo assestata su una posizione ben meno “generosa”, affermando che il giudice destinatario della richiesta ex art. 291 c.p.p. possa limitarsi a dichiarare che dagli atti non risultano elementi idonei a dimostrare l’assenza delle esigenze di cui all’art. 274 c.p.p. (come pure l’adeguatezza di una misura più lieve del carcere) 77; il che naturalmente vanifica il rigoroso tenore dell’art. 292 c.p.p. (e in particolare dello specifico precetto racchiuso nel comma 2, lett. c) 78, testimoniando a maggior ragione il contrasto tra il doppio binario cautelare (in entrambi i suoi assetti, ancorché con intensità differente) e la riserva di giurisdizione ex art. 13 comma 2 Cost.
E’ dunque chiaro che, così presentandosi il diritto vivente, l’insussistenza delle esigenze cautelari – come pure, nei casi in cui vige l’automatismo nella sua forma attenuata, l’adeguatezza di misure meno severe della custodia in carcere, rispetto a tutti e tre i pericula libertatis in ipotesi non scalfiti da alcuna controprova idonea a vincere la relativa presunzione semplice – dovrà essere dimostrata dall’imputato.
Ma per quanto la giurisprudenza sembri accontentarsi di una semplice allegazione 79, si deve pur sempre considerare che il rito de libertate vede intervenire la difesa solo una volta che l’ordinanza cautelare ha trovato esecuzione. Né le difficoltà svaniscono dopo tale intervento: lo scarto temporale ridotto che marca le tappe cronologiche del cosiddetto “contraddittorio successivo” (in ordine tanto all’interrogatorio di garanzia quanto alla presentazione di un’impugnazione cautelare), unito alla difficoltà estrema di soddisfare una vera e propria probatio diabolica (quella insita nella dimostrazione dell’assenza di tutti e tre i rischi cautelari descritti dall’art. 274 c.p.p., come pure quella di comprovare l’adeguatezza di misure più lievi della cattività in carcere), rende il doppio automatismo pressoché insormontabile in concreto.
Un altro contesto procedimentale in cui potrebbe realizzarsi un qualche sforzo inteso a rendere la disciplina qui in esame più in linea con i principi costituzionali (e convenzionali 80) è quello che concerne i controlli in itinere, che investono il regime coercitivo in corso di esecuzione, attivabili ai sensi dell’art. 299 c.p.p. (sia su istanza di parte che d’ufficio).
In proposito, e pur nella consapevolezza che le Sezioni unite della Cassazione hanno riconosciuto la cogenza del regime presuntivo anche nel corso della vita della misura cautelare (e non soltanto nel momento in cui questa viene applicata) 81, sarebbe doveroso valorizzare l’insistenza – esplicitata in particolare dalle riforme del 1995 e del 2015 82 – sulla necessità di dimostrare l’attualità delle esigenze cautelari 83. Sul punto, deve in effetti riscontrarsi un’apprezzabile apertura giurisprudenziale 84, che mostra di assegnare rilevanza al cosiddetto “tempo silente” intercorso dai fatti; ma si tratta di un orientamento controverso, tuttora avversato da una folta schiera di pronunce che, segnatamente rispetto al delitto di cui all’art. 416- bis c.p.p. (fattispecie rispetto alla quale l’elaborazione pretoria in tema di “doppio binario cautelare” continua a rimanere la più copiosa), ritiene che la dimostrazione dell’insussistenza delle esigenze cautelari debba giocoforza passare per la prova della dissociazione dal sodalizio criminoso 85: una prova molto ardua da offrire in positivo, ove appunto si tenda ad escludere che a tali fini possa essere sufficiente il mero decorso di un notevole lasso cronologico dalle condotte contestate 86.
Pur talora mostrandosi la giurisprudenza più morbida rispetto alle fattispecie cui si riferisce l’automatismo in forma attenuata 87, il carattere relativo della seconda presunzione – e dunque l’assenza in questi casi della dicotomia carcere/libertà – non riesce comunque a produrre risultati soddisfacenti sul piano di un’interpretazione costituzionalmente orientata. Paradossalmente, infatti, e così come già preconizzato all’indomani della riforma del 2015, la risalente «univocità dell’elaborazione giurisprudenziale, incentrata sulla tenuta dei rapporti con le associazioni di stampo mafioso, sembra [...] rendere ancor più difficili i compiti dell’indiziato di reati diversi, giacché non è in questi casi altrettanto chiaramente individuata la ratio della presunzione» 88.
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Notes
Proprio per scongiurare questa eventualità, il decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92 (conv. con modificazioni con legge 11 agosto 2014, n. 117), ha inserito nel comma 2- bis dell’art. 275 c.p.p. il divieto (peraltro oggetto delle copiose deroghe ivi specificate) di applicare «la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni». Si tratta di una disposizione oltremodo problematica, che meriterebbe di essere esaminata nel dettaglio; in via di estrema sintesi, la si può inquadrare come un divieto che, ispirandosi al principio di proporzionalità, intende evitare che l’imputato debba patire a titolo cautelare una cattività carceraria che probabilmente non sarà chiamato a scontare a titolo di pena.
L’originario catalogo, già molto più corposo rispetto a quanto previsto in precedenza, è stato arricchito dall’innesto di nuove misure nel sistema: l’allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa (disciplinate rispettivamente dagli artt. 282- bis e 282- ter c.p.p., inseriti il primo dall’art. dall’art. 1, comma 2, della legge 4 aprile 2001, n. 154 e il secondo dall’art. 9, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11), nonché, con riferimento alle cautele interdittive, il divieto temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione (v. art. 289- bis c.p.p., inserito dall’art. 1, comma 4, lettera c della legge 9 gennaio 2019 n. 3).
Questo il tenore della seconda parte dell’art. 275 comma 3 c.p.p. scaturito dalla riforma del 1992: «quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 285, 286, 416- bis e 422 del codice penale, a quelli, consumati o tentati, di cui agli articoli 575, 628, terzo comma, 629, secondo comma, e 630 dello stesso codice, ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416- bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, ai delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni ovvero ai delitti di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine nonché di più armi comuni da sparo escluse quelle previste dall’articolo 2, comma terzo, della legge 18 aprile 1975, n. 110, ovvero ai delitti di cui agli articoli 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, comma 2, e 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari».
Molti anni prima, la sentenza costituzionale n. 64 del 1970 – chiamata ad esprimersi sul mandato di cattura obbligatorio – non aveva affatto escluso la possibilità di una presunzione legale insuperabile di sussistenza del periculum libertatis (anche se si deve comunque considerare che nel 1970 le esigenze cautelari non erano ancora state positivizzate mediante una definizione legislativa).
A tale innovazione viene affiancata anche quella extra codicem introdotta dall’art. 26 della (di poco successiva) legge 15 luglio 2009, n. 94, in relazione ai soggetti nei cui confronti sussistano gravi indizi di colpevolezza per aver promosso, diretto, finanziato o effettuato il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compiono altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente (art. 12 comma 4- bis d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286).
A queste pronunce, che hanno colpito l’art. 275 comma 3 c.p.p., va poi aggiunta la sentenza n. 331 del 2011, con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4- bis, d. lgs. n. 286/1998 (aggiunto dall’art. 1 comma 26 lett. f) legge n. 94/2009), che racchiudeva un analogo automatismo a proposito di alcune figure di favoreggiamento dell’immigrazione illegale (previste dal comma 3 del medesimo articolo 12 d. lgs. n. 286/1998).
Questa presa di posizione è stata poi superata dalla sentenza costituzionale n. 232 del 2013, che ha viceversa optato per la declaratoria parziale di illegittimità dell’art. 275 comma 3 c.p.p., così sconfessando la soluzione della Cassazione (già duramente – e giustamente – criticata dalla dottrina: v. per tutti Giuliani, Livia. Violenza sessuale di gruppo e discrezionalità del giudice de libertate: dalla Corte di cassazione una quinta declaratoria di incostituzionalità della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare. Cassazione penale. Milano, p. 921 ss., 2013 , nonché Giostra, Glauco. Carcere cautelare “obbligatorio”: la campana della Corte costituzionale, le “stecche” della Cassazione, la sordità del legislatore. Giurisprudenza costituzionale. Milano, p. 4897 ss., 2012 ).
In tali casi, sempre in virtù della struttura della norma, il giudice, per respingere la richiesta cautelare, si troverà gravato del medesimo onere di motivare l’insussistenza delle esigenze di cui all’art. 274 c.p.p. già riscontrato a proposito della declinazione più rigosa dell’automatismo. E là dove la presunzione di esistenza delle esigenze cautelari non possa essere superata, il giudice potrà comunque vincere la seconda presunzione, concernente l’idoneità della sola custodia in carcere, con relativo onere di motivare che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
A commento della riforma del 2015, analoghe perplessità (con considerazioni estese anche all’applicazione del congegno più antigarantistico pure alla fattispecie di associazione sovversiva di cui all’art. 270 c.p.) erano state già espresse, fra gli altri, da E. Marzaduri, Commento all’art. 4 l. 47/2015. Disponibile in <www.lalegislazionepenale.eu>, 1° dicembre 2015, p. 7 ss.
Peraltro, e così come segnalato dalla dottrina ( Marandola, Antonella. Verso un nuovo statuto cautelare europeo? Giurisprudenza costituzionale, Milano, p. 2169, 2011 ), è chiaro che, là dove effettivamente il pubblico ministero dovesse disporre di elementi idonei a scardinare la presunzione relativa di sussistenza di tutti e tre i pericula libertatis, con ogni probabilità eviterebbe in radice di presentare la domanda cautelare.
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