Criminal Execution
La mediazione in fase esecutiva nel sistema italiano: il quadro normativo e le dinamiche applicative
The victim-offender mediation in the post-sentencing stage within the Italian system: an overview on legal framework and case law
La mediazione in fase esecutiva nel sistema italiano: il quadro normativo e le dinamiche applicative
Revista Brasileira de Direito Processual Penal, vol. 7, no. 3, pp. 2285-2310, 2021
Instituto Brasileiro de Direito Processual Penal
Received: 22 July 2021
Accepted: 02 September 2021
Abstract: Nel sistema italiano, la vittima, sebbene abbia assunto un ruolo di crescente importanza, resta ai margini della fase di esecuzione della pena. All’indifferenza legislativa se ne aggiunge un’altra: il tema della mediazione – al centro di diffuse analisi sul piano delle possibili alternative al rito ordinario – risulta esaminato in modo superficiale nel quadro delle dinamiche esecutive. L’articolo intende offrire un contributo utile a colmare questa lacuna. Nelle linee di fondo, il tratto distintivo della mediazione in executivis è rappresentato dall’intervenuta irrevocabilità della sentenza: un fattore che si palesa ambivalente, nella misura in cui può agevolare percorsi a valenza conciliativa ma anche renderli più ostici. In simile scenario, diventa centrale il nesso tra la giustizia riparativa e gli scopi di risocializzazione sottesi alla pena, tali da esplicarsi nell’impegno dell’autore a rivisitare in chiave critica l’illecito commesso e ricostruire il rapporto con la persona offesa. Stabilita questa premessa, l’accento va posto sulla logica del dialogo: le parti sono chiamate a sviluppare, con l’aiuto del mediatore, una trama relazionale che permetta di sanare la frattura originata dal reato. Tali canoni – già sfuggenti nella dimensione normativa dell’affidamento in prova (art. 47 comma 7 ord. penit.) e del lavoro all’esterno (art. 21 comma 4- ter ord. penit.) – sono del tutto obliterati sul versante applicativo. Appare, quindi, indispensabile un deciso cambio di rotta al fine di introdurre, nella fase esecutiva, forme di mediazione a carattere individualizzato e comunicativo.
Parole chiave: Esecuzione penale, mediazione, giustizia riparativa, affidamento in prova, lavoro all’esterno.
Abstract: Within the Italian criminal justice system, the role of the victim has become increasingly important. Despite this trend, the victim still stands on the edge of the post-sentencing stage. This is reflected in the fact that the topic of the victim-offender mediation has been analysed deeply as a kind of diversion to the trial but not, or at least far less, in relation to the issues concerning the enforcement of penalty. The paper is aimed at filling this gap. As a starting point, it is to be highlighted that the irrevocability of the conviction poses advantages but also critical aspects in the perspective of reconciliation. In this context, surely the effort of the convicted person to review his/her criminal past critically and rebuild his/her relationships with the victim plays a central role. However, according to the restorative justice model, an interaction between the victim and the offender shall take place. This means that both parties have to assume a proactive role in the attempt of mutually rectifying, with the assistance of a mediator, the conflict originated by the commission of the offence. The analysis of both the provisions and the case law on probation (article 47 comma 7 ord. penit.) and volunteer work (art. 21 comma 4-ter ord. penit.) points out that the mentioned key-principles are not abided. Against this background, a radical change is proposed in order to introduce a mediation model based on individualized and relational elements in the post-sentencing stage.
Keywords: Enforcement of penalty, victim-offender mediation, restorative justice, probation, volunteer work.
Sommario: 1. Premessa: gli angusti spazi normativi; 2. La mediazione nella fase esecutiva: tratti distintivi; 3. Un quadro ambivalente: vantaggi e ostacoli; 4. Il nesso con il finalismo rieducativo della pena; 5. Un panorama applicativo deludente; 6. Conclusioni; Bibliografia.
1. Premessa: gli angusti spazi normativi.
Sono molteplici gli interrogativi che circondano l’idea di calare, all’interno della fase esecutiva, modelli ascrivibili al paradigma della mediazione 2: le distanze sembrerebbero tali da rendere impraticabile ogni forma di osmosi. In questo senso, non è un caso – potrebbe sostenersi – che la dottrina, almeno in Italia, abbia mostrato per il tema un interesse solo parziale, soprattutto se il termine di paragone sono le diffuse analisi dedicate ai rapporti tra il procedimento di cognizione e gli istituti a valenza mediativa.
Anche la crescente valorizzazione del ruolo da riconoscere alla vittima ha lasciato labili tracce. Come testimonia un rapido sguardo d’insieme, permane una diffusa indifferenza: la persona offesa è un «vero “convitato di pietra”» 3 a fronte degli snodi nei quali si articola l’esecuzione della pena.
Il panorama normativo è apparso incurante delle molteplici istanze che si collocano nell’alveo delle dinamiche riparative, suscettibili di essere sviluppate secondo una pluralità di schemi: il tratto unitario si rinviene nella spinta a instaurare, allo scopo di favorire la ricerca di una ritrovata armonia, relazioni comunicative tra le parti antagoniste del conflitto la cui genesi è dovuta alla commissione del reato 4.
In quest’ottica, sul piano delle ricadute interne, anche la direttiva 29/2012/UE 5 si è rivelata sterile: nel recepirla, il legislatore italiano non ha neppure sfiorato la fase esecutiva 6. E, da ultimo, è rimasta inattuata – se non con riguardo all’ambito minorile 7 – la legge delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario 8 nella parte in cui poneva le basi di un nuovo corso, sensibile all’esigenza di arricchire, in una prospettiva organica, i contenuti dei percorsi funzionali al recupero sociale del condannato 9.
Il quadro, nel complesso, è deludente. Tuttavia, sebbene angusti 10, non mancano gli spazi per ospitare forme di giustizia riparativa: sono due, per l’espresso riferimento alla vittima, le disposizioni di rilievo 11.
Una, di centrale importanza sistematica, è quella dell’art. 47 comma 7 ord. penit.: nel verbale descrittivo delle prescrizioni imposte dal giudice nel concedere il beneficio dell’affidamento in prova, deve stabilirsi che il condannato «si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del […] reato» 12. Lo sfondo è quello del probation penitenziario, le cui origini riposano sulla rinuncia dello Stato all’indefettibilità della pena in vista della rieducazione del reo 13. E’ nel contesto della misura alternativa al carcere che s’innesta un vincolo di solidarietà nei confronti della vittima 14.
L’altra, di più recente introduzione 15, s’inserisce nella cornice del lavoro all’esterno: i detenuti possono essere assegnati a prestare attività a titolo volontario e gratuito in chiave di sostegno alle famiglie delle vittime dei reati commessi (art. 21 comma 4- ter ord. penit.) 16.
Delineato lo scenario a cui guardare, il nodo da sciogliere è se gli strumenti citati, per fondamento e schema operativo, rispondano ai tratti salienti nella mediazione, declinata nella logica della restorative justice. Per rispondere al quesito, è indispensabile definire taluni principi cardine che, nel tentativo di coniugare l’esecuzione della pena e le pratiche mediative, vanno tenuti a mente.
2. La mediazione nella fase esecutiva: tratti distintivi.
Brevi riflessioni preliminari sono utili a delimitare il campo d’indagine. In senso stretto, può parlarsi di mediazione in executivis solo dopo l’irrevocabilità della sentenza di condanna 17. Le dinamiche situate in tale frangente, nel muovere da un definitivo accertamento della colpevolezza, trovano terreno fertile entro il perimetro dei benefici penitenziari e, in specie, delle alternative alla pena detentiva.
Questo dato segna un importante divario rispetto ai percorsi che si esplicano in pendenza della fase di cognizione. L’ipotesi emblematica è quella della sospensione con messa alla prova 18, la cui fisionomia può risultare funzionale all’obiettivo di ricomporre la frattura che ha origine nel reato 19. Sul piano teorico, tuttavia, va evidenziato un fattore distintivo: l’eventuale ricorso alle pratiche mediative si colloca in una parentesi dell’ iter ordinario, che è suscettibile di riprendere corso ove l’epilogo della prova non sia favorevole 20.
Ne deriva un diverso inquadramento dei due fenomeni: il probation penitenziario e gli altri benefici hanno come referente una pena inflitta; restano da stabilirne solo le modalità esecutive. I congegni sospensivi, invece, operano in chiave di fuoriuscita dal processo, del quale si auspica – ma non è detto che ciò avvenga – la chiusura con una declaratoria di estinzione del reato. Per tale motivo, sebbene caratterizzata da una componente sanzionatoria 21, la messa alla prova risente, in un panorama segnato da instabili equilibri 22, della logica sottesa ai riti speciali e non può ascriversi al paradigma dell’esecuzione, con il relativo bagaglio di alternative alla pena detentiva 23.
3. Un quadro ambivalente: vantaggi e ostacoli.
Posta questa premessa, va detto che, nella fase dell’esecuzione, si riscontrano indici congeniali all’avvio di un percorso mediativo.
A. Nelle riflessioni dedicate al possibile innesto di simili schemi nel processo penale, uno dei temi centrali riguarda il rischio di attriti e ricadute negative sul versante di irrinunciabili garanzie 24.
Emerge, in primis, il difficile rapporto con la presunzione d’innocenza (art. 27 comma 2 Cost.). Su questo terreno, la ricerca di un approdo conciliativo genera, se non un’aporia 25, quanto meno delle tensioni: il pericolo è che, nell’ottica di sanare un conflitto, ne venga obliterata la base logica, vale a dire l’accertamento di responsabilità 26. Inoltre, vi è l’esigenza di evitare che, nel caso in cui il tentativo non vada a buon fine, le attività compiute influenzino il processo penale. Si pensi, in particolare, a un eventuale uso delle dichiarazioni rese dall’imputato, con l’effetto di eludere il diritto al silenzio e, in termini più generali, scalfire quello di difesa 27.
Ebbene, con il passaggio al contesto dell’esecuzione, i problemi sopra evidenziati svaniscono. Il motivo è molto semplice: come già detto, il tema della colpevolezza risulta “blindato” dalla sentenza irrevocabile. La forza vincolante della presunzione d’innocenza e delle altre garanzie che devono guidare la verifica sulla fondatezza dell’accusa si è ormai esaurita. Non serve, quindi, interrogarsi sui presidi necessari per impedire l’aggiramento di fondamentali principi costituzionali. Da questo punto di vista, il campo si presenta libero da possibili interferenze.
B. Sempre per i risvolti positivi della res iudicata, la strada verso forme di conciliazione è, sul piano operativo, meno irta di ostacoli.
Si ritiene che, per il lieto fine del dialogo tra le parti antagoniste, siano indispensabili alcune condizioni. Tra queste, rileva in modo significativo la disponibilità dell’autore del reato a riconoscere la propria colpa: se non nei termini di una confessione, almeno ammettendo il nucleo fondante dell’illecito 28. Inoltre, in un’ottica che abbracci anche la vittima, il compito del mediatore è agevolato ove sui fatti principali della vicenda vi sia una convergenza di vedute 29.
Se questi sono i capisaldi di un confronto funzionale a ricucire la trama dei rapporti interpersonali, non vi è dubbio che la fase dell’esecuzione offra notevoli margini di manovra. Di fronte a una sentenza definitiva, crescono le chanches che il condannato, nell’intraprendere un percorso di responsabilizzazione, riconosca l’offesa arrecata e la necessità di ripararla. Al tempo stesso, lo scambio comunicativo è favorito dalla ricostruzione storica che l’accertamento giudiziale ha cristallizzato. Tale circostanza giova al mediatore, che può far leva su solide basi di partenza per muovere alla ricerca di una soluzione del conflitto.
Infine, una volta chiusa la fase cognitiva del processo, diventa naturale valorizzare le componenti personologiche dell’episodio criminoso, in modo da porre l’accento sul «reato come vicenda personale, fatto di una comunicazione interrotta, di legami sociali infranti, di conflittualità psicologiche articolate e di ragioni profonde» 30.
Agli innegabili vantaggi sopra evidenziati fanno, però, da contraltare alcuni nodi problematici, che rendono difficile il connubio tra la sfera esecutiva e la mediazione.
A. Lo scarto temporale che separa il reato e l’entrata in scena del mediatore nuoce all’approccio di tipo conciliativo. Di frequente, può verificarsi che la situazione conflittuale risulti «ormai “incancrenita”» 31; nel ricomporla, è quindi inevitabile andare incontro a maggiori resistenze 32: un dato che fa scemare le possibilità di successo 33. Trascorsi molti anni dal fatto, inoltre, è più probabile che la vittima, nel superare il trauma patito, abbia raggiunto un equilibrio esistenziale; in simili casi, dal tentativo di mediazione potrebbe scaturire una nuova violenza 34.
Il rilievo offre lo spunto per una riflessione di più ampio respiro. Sul piano delle opzioni di sistema, la scelta di relegare al solo momento esecutivo le pratiche mediative sarebbe senz’altro miope e, nel complesso, non potrebbe che avere un impatto modesto. Se il disegno è quello d’incentivare gli istituti a sfondo riparativo, l’esecuzione della pena deve essere l’ultimo frangente utile, nell’ottica – cioè – di offrire un’opportunità ulteriore rispetto a percorsi che si sviluppino entro le coordinate della fase cognitiva 35. In caso contrario, nel quadro d’insieme, il ruolo della mediazione apparirebbe fortemente svilito.
B. Requisito indefettibile delle forme di giustizia conciliativa è il consenso delle parti, da intendersi quale assenza di pressioni e spinte coercitive 36. Per l’autore del reato, tale necessaria spontaneità può risentire, fino ad essere alterata, dell’influenza che la condanna ormai da espiare esercita. Negli stadi anteriori, la pena resta una minaccia, sebbene – di pari passo all’evolversi del procedimento – sempre più intensa; nelle dinamiche dell’esecuzione, diventa una realtà che incombe sul condannato. Non è facile stabilire in quale grado il dato possa incidere sulla libera adesione al dialogo con la persona offesa. Sembra, tuttavia, evidente il pericolo di vedere snaturata l’essenza dello schema riparativo 37, anche a causa della posizione di forza in cui viene a trovarsi la vittima: si pensi agli effetti distorsivi che l’impulso a evitare la pena detentiva potrebbe avere sul quantum di un eventuale ristoro economico.
Poche battute sono sufficienti per tirare le somme dell’analisi svolta. Nel quadro dei rapporti tra l’esecuzione della pena e i meccanismi della restorative justice si colgono luci e ombre. A risultare ambivalente è un tratto di fondo: l’irrevocabilità della sentenza di condanna. E’ intorno al carattere stabile dell’accertamento che ruotano quelle circostanze capaci di agevolare un esito conciliativo; la mediazione, però, oltre a rivelarsi più ostica in quanto sul piano temporale lontana dall’offesa, risente degli effetti sanzionatori che la res iudicata implica.
4. Il nesso con il finalismo rieducativo della pena.
Delineato lo scenario, è fondamentale interrogarsi sulla ratio che, nella fase esecutiva, deve animare gli strumenti normativi ispirati al paradigma della mediazione.
Anche su questo versante, emergono significative differenze rispetto agli istituti che operano entro l’area del processo di cognizione. Per questi ultimi, sebbene il panorama si presenti composito, una nota distintiva può cogliersi nelle finalità di economia processuale: se i meccanismi mutano, lo sbocco auspicato resta identico, vale a dire la fine anticipata della vicenda giudiziaria. Pertanto, la ricorrente chiave di lettura, pur non immune da rilievi critici 38, tende a collocare le pratiche mediative nel solco della diversion39.
Per evidenti motivi, tale imprinting è destinato a svanire nello stadio di esecuzione della pena; di riflesso, vanno ricercati altrove gli scopi sottesi ai percorsi dalla potenziale valenza mediativa.
Invero, politiche d’indole pragmatica potrebbero tornare in gioco nell’ambito dei rimedi a quel ciclico e irrisolto male che affligge il sistema penitenziario italiano: il sovraffollamento 40. In tal senso, l’ottica – come nel caso dell’art. 47 comma 7 ord. pen. – sarebbe quella d’incentivare il ricorso alla restorative justice per favorire l’accesso alle misure alternative al carcere; ne deriverebbero, infatti, vantaggi in termini di decremento della popolazione detenuta. Tale impostazione è da rifiutare, in quanto troppo angusta e incapace di fornire solide basi concettuali alle pratiche mediative. Non si nega che queste ultime possano avere ricadute apprezzabili sul piano della deflazione carceraria; si tratta, però, di effetti secondari, da ritenersi estranei al fondamento teleologico delle stesse.
La tensione a riparare il danno derivante dal reato e, più in generale, a intraprendere un cammino riconciliativo deve inserirsi in un programma che miri al reinserimento sociale del condannato 41. La cornice entro la quale sviluppare lo schema della mediazione è quella rieducativa, segnata dallo stimolo affinché il soggetto rivisiti in chiave critica l’illecito commesso 42 e torni ad aderire alle regole della convivenza civile 43.
In questa concezione progettuale della pena 44 emerge la centralità della vittima 45. Nella fase cognitiva, a catalizzare gli interessi rivali sono l’accertamento della responsabilità e la commisurazione della pena. L’esperienza del processo finisce per “separare” autore del reato e persona offesa: a tale logica la giustizia riparativa ne sostituisce una opposta, che guarda all’“inclusione”. Il fulcro sta nel soddisfare, attraverso la tessitura di rapporti intersoggettivi, la domanda di riconoscimento che proviene dalle parti. Pertanto, assumono un rilievo preminente il vissuto criminale e quello di vittimizzazione 46: affiorano così fatti nuovi, rimasti fuori o ai margini del fenomeno processuale. Questa strada conduce a individualizzare non solo il trattamento del reo, ma anche quello della persona offesa 47.
Proprio nell’ottica appena considerata, bisogna chiedersi se e, nel caso, in quali termini la tipologia del reato debba incidere sulla sfera di operatività che, in executivis, è opportuno assegnare alla mediazione.
L’interrogativo presenta molteplici sfumature, legate alle scelte di fondo a cui ispirare la geometria delle relazioni tra condannato e vittima. In termini generali, va sposata la linea secondo cui «non si ravvisano gli estremi per la compilazione di un elenco di reati o di condannati» da escludere a priori 48. A rilevare non sono la pena edittale o il nomen juris del reato, ma le concrete circostanze dell’episodio criminoso 49: è da queste ultime che dipendono il conflitto interpersonale e, quindi, «la realistica possibilità di un suo superamento attraverso adeguate “terapie comunicative”» 50. Del resto, sono in special modo i delitti che minano le radici di una comunità a mettere in luce la «valenza profonda» della giustizia riparativa 51.
5. Un panorama applicativo deludente.
Da un autentico modello di restorative justice l’attuale realtà applicativa è, con rare eccezioni 52, molto lontana.
In prima battuta, è sin troppo facile rimarcare la mancanza di una figura che possa agire nella veste di arbitro. Non bisogna cadere – per evidenti motivi – nell’equivoco di elevare il giudice a protagonista dei rapporti tra il reo e la vittima 53; e nemmeno può farsi leva, in quanto soggetti sforniti della necessaria imparzialità e formazione 54, sugli operatori penitenziari 55. Poco consono è anche il ruolo degli addetti agli uffici locali di esecuzione penale esterna (U.E.P.E.): le funzioni istituzionali (art. 72 ord. penit.) non favoriscono un approccio neutrale 56.
In linea più generale, nell’esperienza italiana, il modello del probation si è rivelato inidoneo a recepire input di natura riparativa. A pesare è stata la crisi d’identità che ha caratterizzato la storia dell’affidamento in prova. Tale misura, nel disegno originario, mirava a soddisfare obiettivi di riabilitazione del condannato: sulla base di questo scopo era ritagliata la cerchia dei destinatari, vale a dire persone socialmente disagiate, responsabili di illeciti non gravi 57. Nel corso del tempo, questa idea finalistica è stata erosa. Due i fattori, tra loro sinergici: le carenze strutturali del sistema, incapace di attuare il paradigma dell’art. 27 comma 3 Cost.; il trend legislativo nel senso di estendere la sfera applicativa dell’affidamento in prova 58.
E’ a quest’ultimo profilo che si salda la “scoperta” delle prescrizioni ex art. 47 comma 7 ord. penit. Alla fine degli anni novanta, al vaglio dei tribunali di sorveglianza sono giunti casi dai tratti peculiari 59: la particolare rilevanza dell’offesa cagionata dal reato (in specie, delitti contro la pubblica amministrazione e il patrimonio); lo status dei colpevoli, fin troppo integrati nel tessuto sociale e, di certo, non bisognosi di interventi riabilitativi 60. In tali fattispecie, era inevitabile che l’affidamento in prova, la cui tensione rieducativa risultava già svilita, si rivelasse «una scatola vuota, priva di qualsiasi contenuto risocializzante» 61. Così, in simile scenario, si è affermato l’indirizzo incline a rendere più pregnante la misura alternativa attraverso obblighi che, in nome di asserite istanze riparative, imponessero forme di risarcimento della vittima ovvero lavori di pubblica utilità 62. Alla base vi era la tesi – sostenuta da alcuni tribunali di sorveglianza – secondo cui le prescrizioni dell’art. 47 comma 7 ord. penit. potrebbero avere quale beneficiaria anche la collettività 63. A frenare simili opzioni è poi stata la giurisprudenza di legittimità, che ne ha messo in luce l’errore di fondo: l’impronta esclusivamente afflittiva, tale da tradursi in un carico sanzionatorio supplementare, non giustificato dalla condotta criminosa 64.
Sul punto, per evitare che la giustizia riparativa diventi la «maschera» 65 di un approccio solo in apparenza ispirato al modello rieducativo, è bene fare chiarezza. Non va escluso che la restorative justice possa caratterizzarsi per una dimensione collettiva 66. E’ indispensabile, però, che si esplichi la logica del dialogo 67: la comunità non può essere mera destinataria di una riparazione; deve anche partecipare nella veste di «attore sociale» al percorso di riconciliazione 68.
In tal senso, apre uno spiraglio la recente previsione dei progetti di pubblica utilità nel cui ambito i detenuti possono chiedere di lavorare a titolo gratuito (art. 20- ter comma 1 ord. penit. 69). Tale attività è annoverata tra gli elementi fondamentali del trattamento rieducativo (art. 15 ord. penit.) e deve svolgersi in modo idoneo a garantirne l’attuazione (art. 20- ter comma 6 ord. penit.). Alla luce di questo nesso, fulcro del public work penitenziario diventa l’“impegnarsi per gli altri”, che si traduce in un contributo al «progresso materiale o spirituale della società» (art. 4 comma 2 Cost.) 70. Sebbene manchi un espresso richiamo alla giustizia riparativa, l’impostazione di fondo si presta, in linea teorica, a recepirne i dettami.
In tema di lavoro, nessun passo in avanti si registra, invece, sul versante dei conflitti di origine intersoggettiva. L’art. 21 comma 4- ter ord. penit., la cui applicazione è risultata molto circoscritta 71, consente – come detto – l’impiego dei detenuti, in forma volontaria e gratuita, a sostegno delle famiglie vittime dei reati da loro commessi. Tale risorsa patisce un ostacolo che è difficile da superare: lo schema incentrato sul lavoro relega ai margini la componente comunicativo-relazionale 72. Nell’ottica di estendere la mediazione al contesto familiare, la strada maestra è un’altra: il ricorso al c.d. family group conferencing, modalità che rimane fedele al criterio metodologico dell’“incontro” 73.
Il disorientamento concettuale si rinviene, inoltre, nella tendenza a sovrapporre due piani distinti: le iniziative riparatorie e il risarcimento del danno. Le prime hanno una valenza molto più ampia e abbracciano svariate forme; non possono, dunque, ridursi alla monetizzazione dell’offesa subita dalla vittima, sulla falsariga degli obblighi sanciti dall’art. 185 c.p. 74. Sul punto, non aiutano a mettere ordine le oscillazioni della giurisprudenza circa il peso da attribuire al ristoro del danno nell’economia dello scrutinio sulla concedibilità della misura alternativa. Non mancano, infatti, pronunce secondo le quali «l’ingiustificata indisponibilità del condannato a risarcire la vittima […] rientra pur sempre tra gli elementi di segno negativo valutabili per il diniego» del beneficio ex art. 47 ord. penit. 75.
6. Conclusioni.
Il panorama complessivo denota l’assenza dei requisiti minimi indispendabili per declinare, in modo genuino, l’archetipo della riparazione. Sulla base di una palese confusione nominalistica, sono ascritti al modello della restorative justice “impegni” che, insensibili allla forza empatica del dialogo, assumono la fisionomia di un dovere, il cui adempimento serve al reo per usufruire di un premio. Di pari passo, la vittima finisce per essere svilita e divenire il veicolo di logiche punitive.
Un cambio di rotta si deve al d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121, che ha varato la riforma dell’ordinamento penitenziario minorile: l’art. 1 comma 2 assegna all’esecuzione penale il compito di «favorire percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato» 76. La centralità sistematica della previsione trova riscontro nell’ampiezza dei confini applicativi, che spaziano dal trattamento intramurario alle misure alternative al carcere. Ne deriva che sono plurime le tecniche suscettibili di essere sfruttate; è così possibile calibrare l’intervento sulla specifica vicenda, la cui gravità – derivante dal titolo di reato o dalla pena inflitta – non comporta aprioristici limiti. Il punto debole, però, sta nella mancata disciplina delle procedure e delle regole da osservare: tale vuoto, che sottende una delega “in bianco” agli operatori, rischia di mettere un freno all’esplicarsi del paradigma riparativo e, forse, rivela il persistente scetticismo del legislatore. In ogni caso, è da rimarcare la scelta di valore, che ha un significato fortemente innovativo: l’aupicio è che nell’ambito minorile possano attecchire un diverso modello di esecuzione e prassi virtuose, poi da estendere – come avvenuto in altre occasioni – all’universo degli adulti 77.
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