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La mediazione in fase esecutiva nel sistema italiano: il quadro normativo e le dinamiche applicative
The victim-offender mediation in the post-sentencing stage within the Italian system: an overview on legal framework and case law
Daniele Vicoli1 daniele.vicoli@unibo.it
Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, Italia
Revista Brasileira de Direito Processual Penal, vol. 7, no. 3, pp. 2285-2310, 2021
Instituto Brasileiro de Direito Processual Penal
Received: 22 July 2021
Accepted: 02 September 2021
Sommario: 1. Premessa: gli angusti spazi normativi; 2. La mediazione nella fase esecutiva: tratti distintivi; 3. Un quadro ambivalente: vantaggi e ostacoli; 4. Il nesso con il finalismo rieducativo della pena; 5. Un panorama applicativo deludente; 6. Conclusioni; Bibliografia.
1. Premessa: gli angusti spazi normativi.
Sono molteplici gli interrogativi che circondano l’idea di calare, all’interno della fase esecutiva, modelli ascrivibili al paradigma della mediazione
2: le distanze sembrerebbero tali da rendere impraticabile ogni forma di osmosi. In questo senso, non è un caso – potrebbe sostenersi – che la dottrina, almeno in Italia, abbia mostrato per il tema un interesse solo parziale, soprattutto se il termine di paragone sono le diffuse analisi dedicate ai rapporti tra il procedimento di cognizione e gli istituti a valenza mediativa.
Anche la crescente valorizzazione del ruolo da riconoscere alla vittima ha lasciato labili tracce. Come testimonia un rapido sguardo d’insieme, permane una diffusa indifferenza: la persona offesa è un «vero “convitato di pietra”»
3 a fronte degli snodi nei quali si articola l’esecuzione della pena.
Il panorama normativo è apparso incurante delle molteplici istanze che si collocano nell’alveo delle dinamiche riparative, suscettibili di essere sviluppate secondo una pluralità di schemi: il tratto unitario si rinviene nella spinta a instaurare, allo scopo di favorire la ricerca di una ritrovata armonia, relazioni comunicative tra le parti antagoniste del conflitto la cui genesi è dovuta alla commissione del reato
4.
In quest’ottica, sul piano delle ricadute interne, anche la direttiva 29/2012/UE
5 si è rivelata sterile: nel recepirla, il legislatore italiano non ha neppure sfiorato la fase esecutiva
6. E, da ultimo, è rimasta inattuata – se non con riguardo all’ambito minorile
7 – la legge delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario
8 nella parte in cui poneva le basi di un nuovo corso, sensibile all’esigenza di arricchire, in una prospettiva organica, i contenuti dei percorsi funzionali al recupero sociale del condannato
9.
Il quadro, nel complesso, è deludente. Tuttavia, sebbene angusti
10, non mancano gli spazi per ospitare forme di giustizia riparativa: sono due, per l’espresso riferimento alla vittima, le disposizioni di rilievo
11.
Una, di centrale importanza sistematica, è quella dell’art. 47 comma 7 ord. penit.: nel verbale descrittivo delle prescrizioni imposte dal giudice nel concedere il beneficio dell’affidamento in prova, deve stabilirsi che il condannato «si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del […] reato»
12. Lo sfondo è quello del
probation penitenziario, le cui origini riposano sulla rinuncia dello Stato all’indefettibilità della pena in vista della rieducazione del reo
13. E’ nel contesto della misura alternativa al carcere che s’innesta un vincolo di solidarietà nei confronti della vittima
14.
L’altra, di più recente introduzione
15, s’inserisce nella cornice del lavoro all’esterno: i detenuti possono essere assegnati a prestare attività a titolo volontario e gratuito in chiave di sostegno alle famiglie delle vittime dei reati commessi (art. 21 comma 4-
ter ord. penit.)
16.
Delineato lo scenario a cui guardare, il nodo da sciogliere è se gli strumenti citati, per fondamento e schema operativo, rispondano ai tratti salienti nella mediazione, declinata nella logica della
restorative justice. Per rispondere al quesito, è indispensabile definire taluni principi cardine che, nel tentativo di coniugare l’esecuzione della pena e le pratiche mediative, vanno tenuti a mente.
2. La mediazione nella fase esecutiva: tratti distintivi.
Brevi riflessioni preliminari sono utili a delimitare il campo d’indagine. In senso stretto, può parlarsi di mediazione
in executivis solo dopo l’irrevocabilità della sentenza di condanna
17. Le dinamiche situate in tale frangente, nel muovere da un definitivo accertamento della colpevolezza, trovano terreno fertile entro il perimetro dei benefici penitenziari e, in specie, delle alternative alla pena detentiva.
Questo dato segna un importante divario rispetto ai percorsi che si esplicano in pendenza della fase di cognizione. L’ipotesi emblematica è quella della sospensione con messa alla prova
18, la cui fisionomia può risultare funzionale all’obiettivo di ricomporre la frattura che ha origine nel reato
19. Sul piano teorico, tuttavia, va evidenziato un fattore distintivo: l’eventuale ricorso alle pratiche mediative si colloca in una parentesi dell’
iter ordinario, che è suscettibile di riprendere corso ove l’epilogo della prova non sia favorevole
20.
Ne deriva un diverso inquadramento dei due fenomeni: il
probation penitenziario e gli altri benefici hanno come referente una pena inflitta; restano da stabilirne solo le modalità esecutive. I congegni sospensivi, invece, operano in chiave di fuoriuscita dal processo, del quale si auspica – ma non è detto che ciò avvenga – la chiusura con una declaratoria di estinzione del reato. Per tale motivo, sebbene caratterizzata da una componente sanzionatoria
21, la messa alla prova risente, in un panorama segnato da instabili equilibri
22, della logica sottesa ai riti speciali e non può ascriversi al paradigma dell’esecuzione, con il relativo bagaglio di alternative alla pena detentiva
23.
3. Un quadro ambivalente: vantaggi e ostacoli.
Posta questa premessa, va detto che, nella fase dell’esecuzione, si riscontrano indici congeniali all’avvio di un percorso mediativo.
A. Nelle riflessioni dedicate al possibile innesto di simili schemi nel processo penale, uno dei temi centrali riguarda il rischio di attriti e ricadute negative sul versante di irrinunciabili garanzie
24.
Emerge,
in primis, il difficile rapporto con la presunzione d’innocenza (art. 27 comma 2 Cost.). Su questo terreno, la ricerca di un approdo conciliativo genera, se non un’aporia
25, quanto meno delle tensioni: il pericolo è che, nell’ottica di sanare un conflitto, ne venga obliterata la base logica, vale a dire l’accertamento di responsabilità
26. Inoltre, vi è l’esigenza di evitare che, nel caso in cui il tentativo non vada a buon fine, le attività compiute influenzino il processo penale. Si pensi, in particolare, a un eventuale uso delle dichiarazioni rese dall’imputato, con l’effetto di eludere il diritto al silenzio e, in termini più generali, scalfire quello di difesa
27.
Ebbene, con il passaggio al contesto dell’esecuzione, i problemi sopra evidenziati svaniscono. Il motivo è molto semplice: come già detto, il tema della colpevolezza risulta “blindato” dalla sentenza irrevocabile. La forza vincolante della presunzione d’innocenza e delle altre garanzie che devono guidare la verifica sulla fondatezza dell’accusa si è ormai esaurita. Non serve, quindi, interrogarsi sui presidi necessari per impedire l’aggiramento di fondamentali principi costituzionali. Da questo punto di vista, il campo si presenta libero da possibili interferenze.
B. Sempre per i risvolti positivi della
res iudicata, la strada verso forme di conciliazione è, sul piano operativo, meno irta di ostacoli.
Si ritiene che, per il lieto fine del dialogo tra le parti antagoniste, siano indispensabili alcune condizioni. Tra queste, rileva in modo significativo la disponibilità dell’autore del reato a riconoscere la propria colpa: se non nei termini di una confessione, almeno ammettendo il nucleo fondante dell’illecito
28. Inoltre, in un’ottica che abbracci anche la vittima, il compito del mediatore è agevolato ove sui fatti principali della vicenda vi sia una convergenza di vedute
29.
Se questi sono i capisaldi di un confronto funzionale a ricucire la trama dei rapporti interpersonali, non vi è dubbio che la fase dell’esecuzione offra notevoli margini di manovra. Di fronte a una sentenza definitiva, crescono le
chanches che il condannato, nell’intraprendere un percorso di responsabilizzazione, riconosca l’offesa arrecata e la necessità di ripararla. Al tempo stesso, lo scambio comunicativo è favorito dalla ricostruzione storica che l’accertamento giudiziale ha cristallizzato. Tale circostanza giova al mediatore, che può far leva su solide basi di partenza per muovere alla ricerca di una soluzione del conflitto.
Infine, una volta chiusa la fase cognitiva del processo, diventa naturale valorizzare le componenti personologiche dell’episodio criminoso, in modo da porre l’accento sul «reato come vicenda personale, fatto di una comunicazione interrotta, di legami sociali infranti, di conflittualità psicologiche articolate e di ragioni profonde»
30.
Agli innegabili vantaggi sopra evidenziati fanno, però, da contraltare alcuni nodi problematici, che rendono difficile il connubio tra la sfera esecutiva e la mediazione.
A. Lo scarto temporale che separa il reato e l’entrata in scena del mediatore nuoce all’approccio di tipo conciliativo. Di frequente, può verificarsi che la situazione conflittuale risulti «ormai “incancrenita”»
31; nel ricomporla, è quindi inevitabile andare incontro a maggiori resistenze
32: un dato che fa scemare le possibilità di successo
33. Trascorsi molti anni dal fatto, inoltre, è più probabile che la vittima, nel superare il trauma patito, abbia raggiunto un equilibrio esistenziale; in simili casi, dal tentativo di mediazione potrebbe scaturire una nuova violenza
34.
Il rilievo offre lo spunto per una riflessione di più ampio respiro. Sul piano delle opzioni di sistema, la scelta di relegare al solo momento esecutivo le pratiche mediative sarebbe senz’altro miope e, nel complesso, non potrebbe che avere un impatto modesto. Se il disegno è quello d’incentivare gli istituti a sfondo riparativo, l’esecuzione della pena deve essere l’ultimo frangente utile, nell’ottica – cioè – di offrire un’opportunità ulteriore rispetto a percorsi che si sviluppino entro le coordinate della fase cognitiva
35. In caso contrario, nel quadro d’insieme, il ruolo della mediazione apparirebbe fortemente svilito.
B. Requisito indefettibile delle forme di giustizia conciliativa è il consenso delle parti, da intendersi quale assenza di pressioni e spinte coercitive
36. Per l’autore del reato, tale necessaria spontaneità può risentire, fino ad essere alterata, dell’influenza che la condanna ormai da espiare esercita. Negli stadi anteriori, la pena resta una minaccia, sebbene – di pari passo all’evolversi del procedimento – sempre più intensa; nelle dinamiche dell’esecuzione, diventa una realtà che incombe sul condannato. Non è facile stabilire in quale grado il dato possa incidere sulla libera adesione al dialogo con la persona offesa. Sembra, tuttavia, evidente il pericolo di vedere snaturata l’essenza dello schema riparativo
37, anche a causa della posizione di forza in cui viene a trovarsi la vittima: si pensi agli effetti distorsivi che l’impulso a evitare la pena detentiva potrebbe avere sul
quantum di un eventuale ristoro economico.
Poche battute sono sufficienti per tirare le somme dell’analisi svolta. Nel quadro dei rapporti tra l’esecuzione della pena e i meccanismi della
restorative justice si colgono luci e ombre. A risultare ambivalente è un tratto di fondo: l’irrevocabilità della sentenza di condanna. E’ intorno al carattere stabile dell’accertamento che ruotano quelle circostanze capaci di agevolare un esito conciliativo; la mediazione, però, oltre a rivelarsi più ostica in quanto sul piano temporale lontana dall’offesa, risente degli effetti sanzionatori che la
res iudicata implica.
4. Il nesso con il finalismo rieducativo della pena.
Delineato lo scenario, è fondamentale interrogarsi sulla
ratio che, nella fase esecutiva, deve animare gli strumenti normativi ispirati al paradigma della mediazione.
Anche su questo versante, emergono significative differenze rispetto agli istituti che operano entro l’area del processo di cognizione. Per questi ultimi, sebbene il panorama si presenti composito, una nota distintiva può cogliersi nelle finalità di economia processuale: se i meccanismi mutano, lo sbocco auspicato resta identico, vale a dire la fine anticipata della vicenda giudiziaria. Pertanto, la ricorrente chiave di lettura, pur non immune da rilievi critici
38, tende a collocare le pratiche mediative nel solco della
diversion39.
Per evidenti motivi, tale
imprinting è destinato a svanire nello stadio di esecuzione della pena; di riflesso, vanno ricercati altrove gli scopi sottesi ai percorsi dalla potenziale valenza mediativa.
Invero, politiche d’indole pragmatica potrebbero tornare in gioco nell’ambito dei rimedi a quel ciclico e irrisolto male che affligge il sistema penitenziario italiano: il sovraffollamento
40. In tal senso, l’ottica – come nel caso dell’art. 47 comma 7 ord. pen. – sarebbe quella d’incentivare il ricorso alla
restorative justice per favorire l’accesso alle misure alternative al carcere; ne deriverebbero, infatti, vantaggi in termini di decremento della popolazione detenuta. Tale impostazione è da rifiutare, in quanto troppo angusta e incapace di fornire solide basi concettuali alle pratiche mediative. Non si nega che queste ultime possano avere ricadute apprezzabili sul piano della deflazione carceraria; si tratta, però, di effetti secondari, da ritenersi estranei al fondamento teleologico delle stesse.
La tensione a riparare il danno derivante dal reato e, più in generale, a intraprendere un cammino riconciliativo deve inserirsi in un programma che miri al reinserimento sociale del condannato
41. La cornice entro la quale sviluppare lo schema della mediazione è quella rieducativa, segnata dallo stimolo affinché il soggetto rivisiti in chiave critica l’illecito commesso
42 e torni ad aderire alle regole della convivenza civile
43.
In questa concezione progettuale della pena
44 emerge la centralità della vittima
45. Nella fase cognitiva, a catalizzare gli interessi rivali sono l’accertamento della responsabilità e la commisurazione della pena. L’esperienza del processo finisce per “separare” autore del reato e persona offesa: a tale logica la giustizia riparativa ne sostituisce una opposta, che guarda all’“inclusione”. Il fulcro sta nel soddisfare, attraverso la tessitura di rapporti intersoggettivi, la domanda di riconoscimento che proviene dalle parti. Pertanto, assumono un rilievo preminente il vissuto criminale e quello di vittimizzazione
46: affiorano così fatti nuovi, rimasti fuori o ai margini del fenomeno processuale. Questa strada conduce a individualizzare non solo il trattamento del reo, ma anche quello della persona offesa
47.
Proprio nell’ottica appena considerata, bisogna chiedersi se e, nel caso, in quali termini la tipologia del reato debba incidere sulla sfera di operatività che,
in executivis, è opportuno assegnare alla mediazione.
L’interrogativo presenta molteplici sfumature, legate alle scelte di fondo a cui ispirare la geometria delle relazioni tra condannato e vittima. In termini generali, va sposata la linea secondo cui «non si ravvisano gli estremi per la compilazione di un elenco di reati o di condannati» da escludere a priori
48. A rilevare non sono la pena edittale o il
nomen juris del reato, ma le concrete circostanze dell’episodio criminoso
49: è da queste ultime che dipendono il conflitto interpersonale e, quindi, «la realistica possibilità di un suo superamento attraverso adeguate “terapie comunicative”»
50. Del resto, sono in special modo i delitti che minano le radici di una comunità a mettere in luce la «valenza profonda» della giustizia riparativa
51.
5. Un panorama applicativo deludente.
Da un autentico modello di
restorative justice l’attuale realtà applicativa è, con rare eccezioni
52, molto lontana.
In prima battuta, è sin troppo facile rimarcare la mancanza di una figura che possa agire nella veste di arbitro. Non bisogna cadere – per evidenti motivi – nell’equivoco di elevare il giudice a protagonista dei rapporti tra il reo e la vittima
53; e nemmeno può farsi leva, in quanto soggetti sforniti della necessaria imparzialità e formazione
54, sugli operatori penitenziari
55. Poco consono è anche il ruolo degli addetti agli uffici locali di esecuzione penale esterna (U.E.P.E.): le funzioni istituzionali (art. 72 ord. penit.) non favoriscono un approccio neutrale
56.
In linea più generale, nell’esperienza italiana, il modello del
probation si è rivelato inidoneo a recepire
input di natura riparativa. A pesare è stata la crisi d’identità che ha caratterizzato la storia dell’affidamento in prova. Tale misura, nel disegno originario, mirava a soddisfare obiettivi di riabilitazione del condannato: sulla base di questo scopo era ritagliata la cerchia dei destinatari, vale a dire persone socialmente disagiate, responsabili di illeciti non gravi
57. Nel corso del tempo, questa idea finalistica è stata erosa. Due i fattori, tra loro sinergici: le carenze strutturali del sistema, incapace di attuare il paradigma dell’art. 27 comma 3 Cost.; il
trend legislativo nel senso di estendere la sfera applicativa dell’affidamento in prova
58.
E’ a quest’ultimo profilo che si salda la “scoperta” delle prescrizioni
ex art. 47 comma 7 ord. penit. Alla fine degli anni novanta, al vaglio dei tribunali di sorveglianza sono giunti casi dai tratti peculiari
59: la particolare rilevanza dell’offesa cagionata dal reato (in specie, delitti contro la pubblica amministrazione e il patrimonio); lo
status dei colpevoli, fin troppo integrati nel tessuto sociale e, di certo, non bisognosi di interventi riabilitativi
60. In tali fattispecie, era inevitabile che l’affidamento in prova, la cui tensione rieducativa risultava già svilita, si rivelasse «una scatola vuota, priva di qualsiasi contenuto risocializzante»
61. Così, in simile scenario, si è affermato l’indirizzo incline a rendere più pregnante la misura alternativa attraverso obblighi che, in nome di asserite istanze riparative, imponessero forme di risarcimento della vittima ovvero lavori di pubblica utilità
62. Alla base vi era la tesi – sostenuta da alcuni tribunali di sorveglianza – secondo cui le prescrizioni dell’art. 47 comma 7 ord. penit. potrebbero avere quale beneficiaria anche la collettività
63. A frenare simili opzioni è poi stata la giurisprudenza di legittimità, che ne ha messo in luce l’errore di fondo: l’impronta esclusivamente afflittiva, tale da tradursi in un carico sanzionatorio supplementare, non giustificato dalla condotta criminosa
64.
Sul punto, per evitare che la giustizia riparativa diventi la «maschera»
65 di un approccio solo in apparenza ispirato al modello rieducativo, è bene fare chiarezza. Non va escluso che la
restorative justice possa caratterizzarsi per una dimensione collettiva
66. E’ indispensabile, però, che si esplichi la logica del dialogo
67: la comunità non può essere mera destinataria di una riparazione; deve anche partecipare nella veste di «attore sociale» al percorso di riconciliazione
68.
In tal senso, apre uno spiraglio la recente previsione dei progetti di pubblica utilità nel cui ambito i detenuti possono chiedere di lavorare a titolo gratuito (art. 20-
ter comma 1 ord. penit.
69). Tale attività è annoverata tra gli elementi fondamentali del trattamento rieducativo (art. 15 ord. penit.) e deve svolgersi in modo idoneo a garantirne l’attuazione (art. 20-
ter comma 6 ord. penit.). Alla luce di questo nesso, fulcro del
public work penitenziario diventa l’“impegnarsi per gli altri”, che si traduce in un contributo al «progresso materiale o spirituale della società» (art. 4 comma 2 Cost.)
70. Sebbene manchi un espresso richiamo alla giustizia riparativa, l’impostazione di fondo si presta, in linea teorica, a recepirne i dettami.
In tema di lavoro, nessun passo in avanti si registra, invece, sul versante dei conflitti di origine intersoggettiva. L’art. 21 comma 4-
ter ord. penit., la cui applicazione è risultata molto circoscritta
71, consente – come detto – l’impiego dei detenuti, in forma volontaria e gratuita, a sostegno delle famiglie vittime dei reati da loro commessi. Tale risorsa patisce un ostacolo che è difficile da superare: lo schema incentrato sul lavoro relega ai margini la componente comunicativo-relazionale
72. Nell’ottica di estendere la mediazione al contesto familiare, la strada maestra è un’altra: il ricorso al c.d.
family group conferencing, modalità che rimane fedele al criterio metodologico dell’“incontro”
73.
Il disorientamento concettuale si rinviene, inoltre, nella tendenza a sovrapporre due piani distinti: le iniziative riparatorie e il risarcimento del danno. Le prime hanno una valenza molto più ampia e abbracciano svariate forme; non possono, dunque, ridursi alla monetizzazione dell’offesa subita dalla vittima, sulla falsariga degli obblighi sanciti dall’art. 185 c.p.
74. Sul punto, non aiutano a mettere ordine le oscillazioni della giurisprudenza circa il peso da attribuire al ristoro del danno nell’economia dello scrutinio sulla concedibilità della misura alternativa. Non mancano, infatti, pronunce secondo le quali «l’ingiustificata indisponibilità del condannato a risarcire la vittima […] rientra pur sempre tra gli elementi di segno negativo valutabili per il diniego» del beneficio
ex art. 47 ord. penit.
75.
6. Conclusioni.
Il panorama complessivo denota l’assenza dei requisiti minimi indispendabili per declinare, in modo genuino, l’archetipo della riparazione. Sulla base di una palese confusione nominalistica, sono ascritti al modello della
restorative justice “impegni” che, insensibili allla forza empatica del dialogo, assumono la fisionomia di un dovere, il cui adempimento serve al reo per usufruire di un premio. Di pari passo, la vittima finisce per essere svilita e divenire il veicolo di logiche punitive.
Un cambio di rotta si deve al d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121, che ha varato la riforma dell’ordinamento penitenziario minorile: l’art. 1 comma 2 assegna all’esecuzione penale il compito di «favorire percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato»
76. La centralità sistematica della previsione trova riscontro nell’ampiezza dei confini applicativi, che spaziano dal trattamento intramurario alle misure alternative al carcere. Ne deriva che sono plurime le tecniche suscettibili di essere sfruttate; è così possibile calibrare l’intervento sulla specifica vicenda, la cui gravità – derivante dal titolo di reato o dalla pena inflitta – non comporta aprioristici limiti. Il punto debole, però, sta nella mancata disciplina delle procedure e delle regole da osservare: tale vuoto, che sottende una delega “in bianco” agli operatori, rischia di mettere un freno all’esplicarsi del paradigma riparativo e, forse, rivela il persistente scetticismo del legislatore. In ogni caso, è da rimarcare la scelta di valore, che ha un significato fortemente innovativo: l’aupicio è che nell’ambito minorile possano attecchire un diverso modello di esecuzione e prassi virtuose, poi da estendere – come avvenuto in altre occasioni – all’universo degli adulti
77.
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Notes
Notes
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https://doi.org/10.22197/rbdpp.v7i3.623
2 La Raccomandazione (99) 19 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa definisce la mediazione «qualsiasi processo nell’ambito del quale la vittima e l’autore di un reato sono messi in condizione, se vi acconsentono liberamente, di partecipare alla soluzione delle questioni derivanti da un reato attraverso l’aiuto di un terzo imparziale (il mediatore)». Per un inquadramento di carattere generale, v.
Castelli, Stefano.
La mediazione. Teorie e tecniche, Milano: Raffaello Cortina, 1996, p. 5
;
Mannozzi, Grazia; Lodigiani, Giovanni Angelo.
La giustizia riparativa, Torino: Giappichelli, 2017, p. 249 s
.
4 Per un quadro dei principali strumenti della giustizia riparativa, si rinvia ai lavori degli Stati generali dell’esecuzione penale (istituiti con d.m. in data 8 maggio 2015 e articolatisi in diciotto tavoli tematici) e, in particolare, alla relazione conclusiva del Tavolo 13 “Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime”, Allegato 3. La relazione è consultabile, insieme a quelle degli altri tavoli e al documento finale redatto dal Comitato di esperti, all’indirizzo
https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_19_1_13.page. Accesso in: 5.2.2016.
5 La direttiva 2012/29/UE, che – nel sostituire la decisione quadro 2001/220/GAI – ha istituito norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime, definisce così la giustizia riparativa: «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi consentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale» (art. 2.1 lett.
d). Analoga è la definizione che compare al punto 3 Raccomandazione (18) 8 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.
7 V.
infra, § 6.
9 Il riferimento è al criterio direttivo sancito dall’art. 1 comma 85 lett.
f l. n. 103 del 2017: «previsione di attività di giustizia riparativa e delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative». E’, però, caduto nel nulla lo schema di decreto legislativo in materia di giustizia riparativa e mediazione reo-vittima (v. il
dossier all’indirizzo
https://documenti.camera.it/Leg18/Dossier/Pdf/gi0009.Pdf. Accesso in: 26.6.2018).
12 Nel testo originario, la disposizione era meno stringente, poiché configurava come facoltativa la prescrizione in esame, poi divenuta obbligatoria – sia pure con il limite rappresentato dall’inciso «in quanto possibile» – in seguito alle modifiche introdotte dalla l. 10 ottobre 1986, n. 663.
14 E’ proprio sull’onda delle prassi originate dalla previsione in esame che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha deciso, nel 2002, di istituire una Commissione di studio sulla “Mediazione penale e la giustizia riparativa”, dai cui lavori sono poi scaturite le “Linee di indirizzo sull’applicazione nell’ambito dell’esecuzione penale dei condannati adulti” (circolare in data 14 giugno 2005): ad essere evidenziati sono aspetti di «indubbia criticità», sulla base, in particolare, degli esiti di due monitoraggi (il secondo relativo all’analisi di 4.511 casi).
15 Ad opera del d.l. 1° luglio 2013, n. 78, conv. nella l. 9 agosto 2013, n. 94.
18 Nel sistema italiano, tale istituto, inizialmente previsto nel quadro del rito minorile (artt. 28-29 d.p.R. 22 novembre 1988, n. 448), è stato esteso dalla l. 28 aprile 2014, n. 67 a quello per adulti (art. 168-
bis c.p. s. e art. 464-
bis c.p.p. s.). Nei due contesti, la disciplina si caratterizza per un nucleo comune: il giudice può disporre la sospensione del processo e impartire all’imputato delle prescrizioni comportamentali, tra cui quelle dirette a promuovere la mediazione con la persona offesa; ove il percorso trattamentale abbia esito positivo, il reato viene dichiarato estinto con sentenza. Tra le numerose fonti, v.
Bartoli, Laura.
La sospensione del procedimento con messa alla prova. Milano: Wolters Kluwer-Cedam, 2020, p. 87 s.
;
Caraceni, Lina. Voce “Processo penale minorile”.
Enciclopedia del diritto. Aggiornamento, v. IV. Milano: Giuffrè, 2000, p. 1037 s.
;
Cesari, Claudia. Commento all’art. 28. In: Giostra, Glauco (a cura di),
Il processo penale minorile, 2ª ed., Milano: Giuffrè, 2007, p. 455 s.
;
CoLamussi, Margherita.
La messa alla prova. Padova: Cedam, 2010, p. 16 s.
;
Logli, Andrea, La sospensione del processo per messa alla prova tra equivoci dogmatici e limiti operativi. In Daniele, Marcello; Paulesu, Pier Paolo (a cura di),
Strategie di deflazione processuale e rimodulazioni del giudizio in absentia, Torino: Giappichelli, 2016, p. 161
;
Maffeo, Vania.
I profili processuali della sospensione con messa alla prova. Napoli: Esi, 2017, p. 155 s.
;
MIRAGLIA, Michela.
La messa alla prova dell’imputato adulto. Torino: Giappichelli, 2020, p. 111 s
.
19 V., anche per i rilievi critici sulla prevalenza degli aspetti afflittivi rispetto a quelli riparatori,
Bertolini, Benedetta. La messa alla prova per adulti sotto le lenti della giustizia riparativa. In: Marandola, Antonella; La Regina, Katia; Aprati, Roberta (a cura di),
Verso un processo penale accelerato, Napoli: Jovene, p. 25 s.
;
Bartoli, Laura.
La sospensione, cit., p. 184 s.
;
CoLamussi, Margherita.
La messa alla prova, cit., p. 10 s.
;
Maffeo, Vania.
I profili processuali, cit., p. 116 s.
;
MIRAGLIA, Michela.
La messa alla prova, cit. p. 165 s
.
21 V.
Bartoli, Laura.
La sospensione, cit., p. 340 s
.;
MIRAGLIA, Michela.
La messa alla prova, cit., p. 158 s
. Tale conclusione, in prima battuta respinta dalla Corte costituzionale (Corte cost., sent. 27 aprile 2018, n. 91), è poi affiorata nelle pronunce che hanno sottolineato le peculiarità della messa alla prova minorile, da ritenersi intrisa di finalità rieducative e quindi, a differenza di quella per adulti, scevra da connotati sanzionatori (Corte cost., sent. 29 marzo 2019, n. 68; sent. 6 luglio 2020, n. 139).
22 Il tema di fondo è quello dei rapporti con la presunzione di non colpevolezza (art. 27 comma 2 Cost.). Nell’escludere l’aggiramento di tale garanzia, Corte cost., sent. 27 aprile 2018, n. 91 ha valorizzato la base consensuale dell’istituto: «il trattamento programmato non è […] una sanzione penale, eseguibile coattivamente, ma dà luogo a un’attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato, il quale liberamente può farla cessare con l’unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso». Tra i numerosi commenti alla pronuncia, v.
CESARI, Claudia. La Consulta supera le perplessità e la messa alla prova si radica nel sistema.
Giurisprudenza costituzionale, 2018, p. 794 s
.;
MAFFEO, Vania. Novità sistematiche in tema di messa alla prova. Per una riconsiderazione, costituzionalmente compatibile, del rapporto tra pena e processo.
Cassazione penale, 2018, p. 3194 s
.;
Parlato, Lucia. La messa alla prova dopo il
dictum della Consulta: indenne ma rivisitata e in attesa di nuove censure.
Diritto penale contemporaneo, 2019, n. 1, p. 101 s
.
24 Il «vizio di origine» della mediazione nell’efficace sintesi di Mannozzi, Grazia.
La giustizia senza spada, Giuffrè, Milano, 2003, p. 240.
26 V.
Cesari, Claudia.
Le clausole di irrilevanza del fatto nel sistema processuale penale. Torino: Giappichelli, 2005, p. 102
. Secondo l’impostazione seguita da
Ciavola, Agata.
Il contributo della giustizia consensuale e riparativa all’efficienza dei modelli di giurisdizione. Torino: Giappichelli, 2010, p. 256
, «si può dire che la responsabilità dell’imputato è oggetto di accertamento, ma cambia la sede: non nel processo, bensì nel corso dell’attività di mediazione». Relativizza il problema
Orlandi, Renzo. La mediazione penale tra finalità riconciliative ed esigenze di giustizia. In: AA. VV.,
Accertamento del fatto, cit., p. 182
, ad avviso del quale «i principi fondamentali, quali, ad esempio, il
nemo tenetur se detegere e la presunzione d’innocenza, non irradiano qui loro effetti, giacché chi esperisce il tentativo di mediazione è solitamente disposto a condividere con la controparte una certa versione circa i motivi e le scaturigini del conflitto interpersonale», fermo restando che «l’“episodio” mediazione [...] va poi necessariamente coordinato con il processo penale».
27 Muove da queste premesse l’indirizzo che sostiene l’inutilizzabilità delle dichiarazioni (
Orlandi, Renzo. La mediazione penale, cit., p. 186;
Patanè, Vania. Ambiti di attuazione di una giustizia conciliativa alternativa a quella penale: la mediazione. In: Mestitz, Anna (a cura di),
Mediazione penale: chi, dove, come e quando, Roma: Carrocci editore, 2004, p. 29
). Per alcuni rilievi critici sull’adeguatezza di tale rimedio, v., con specifico riguardo al tentativo di conciliazione previsto nell’ambito del procedimento davanti al giudice di pace (art. 29 d. lgs. 28 agosto 2000, n. 274),
Cesari, Claudia.
Le clausole di irrilevanza, cit., p. 93
.
28 V.
Ceretti, Adolfo. Mediazione penale e giustizia. In: AA. VV.,
La mediazione penale in ambito minorile: applicazioni e prospettive, Milano: Franco Angeli, 1999, p. 99
. V. anche
Patanè, Vania. La mediazione. In: Giostra, Glauco; Illuminati, Giulio (a cura di),
Il giudice di pace nella giurisdizione penale, Torino: Giappichelli, 2000, p. 365
. Insistono su questo profilo anche l’art. 12.1 lett.
c direttiva 2012/29/UE (v.
Kilchling Michael; Parlato, Lucia. Nuove prospettive, cit., p. 4192) e il punto 30 Raccomandazione (18) 8.
33 In questo senso, le citate linee di indirizzo (v.
supra, nota 14) individuano l’arco temporale massimo tra il reato e l’inizio dell’opera di mediazione in cinque anni, a fronte dei dieci spesso registrati in sede di monitoraggio. In dottrina, v.
Di Chiara, Giuseppe. La premura e la clessidra: i tempi della mediazione penale.
Diritto penale e processo, 2015, p. 381
, il quale, nel distinguere «il tempo intercorso tra l’epoca del commesso reato e l’avvio dell’attività di mediazione» dal «fluire del tempo entro la conca della mediazione», osserva come il primo vada dosato in modo da risultare non troppo breve né troppo ampio.
34 Ne deriva la necessità, come sottolinea anche la Raccomandazione (18) 8 (punto 36 s.), di costruire un percorso normativo, deontologico e metodologico che delinei le modalità di approccio alla vittima del reato (v.
Mannozzi, Grazia. Le aperture, cit., p. 1534). In termini più generali, sul tema della c.d. vittimizzazione secondaria, v.
Allegrezza, Silvia. La riscoperta della vittima nella giustizia penale europea. In: AA. VV.,
Lo scudo e la spada, Torino: Giappichelli, 2012, p. 17 s
.
35 E’ in sintonia con questa logica l’ampiezza operativa che traspare dal punto 6 Raccomandazione (18) 8: «La giustizia riparativa può essere utilizzata in ogni fase del procedimento penale. Ad esempio, può essere associata a una forma di diversione dall’arresto, dall’esercizio dell’azione penale o dal perseguimento penale del fatto, può essere usata congiuntamente all’archiviazione di polizia o giudiziaria, può intervenire prima o parallelamente al perseguimento penale del fatto, può collocarsi tra l’accertamento di responsabilità e la comminazione di una pena, può costituire parte di una pena o intervenire dopo la comminazione o l’espiazione della stessa».
36 V. Ciavola, Agata.
Il contributo della giustizia consensuale, cit., p. 258; Patanè, Vania. Ambiti di attuazione, cit., p. 24. Le Raccomandazioni (99) 19 e (18) 8 nonché la direttiva 2012/29/UE sono categoriche nel fare riferimento all’esigenza di un libero consenso delle parti.
39 Ubertis, Giulio. Relazione, cit., p. 147. Nell’ordinamento italiano, il quadro si presenta eclettico in ragione della specificità che caratterizza i corpi normativi
extra codicem: il rito minorile e quello davanti al giudice di pace. La spinta ad aprire, nelle maglie del processo, canali comunicativi che coinvolgano l’autore del reato e la persona offesa riflette la tensione ideale di tali microsistemi (
Cesari, Claudia. Efficienza della giurisdizione penale e strategie di depenalizzazione processuale. In: Kostoris, Roberto E. (a cura di),
La ragionevole durata del processo, Torino: Giappichelli, 2005, p. 95-96
). In particolare, la ricerca del dialogo e l’importanza delle condotte riparatorie sono valori in linea con l’opzione per un diritto penale “mite”, soprattutto là dove ad assumere un ruolo centrale sono le esigenze rieducative e assistenziali dell’imputato minorenne.
42 A questa prospettiva si salda l’unico appiglio normativo che permette di coinvolgere la vittima nelle logiche trattamentali: in base all’art. 27 comma 1 d.p.R. 30 giugno 2000, n. 230 («Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà personale»), nel corso delle attività d’osservazione intramuraria, «va espletata, con il consenso del condannato […], una riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l’interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa». A tale previsione si affianca, per il trattamento in ambiente esterno, quella dell’art. 118 comma 8 lett.
d d.p.R. 30 giugno 2000, n. 230: gli interventi degli uffici di esecuzione penale esterna (U.E.P.E.) devono caratterizzarsi per la «sollecitazione a una valutazione critica adeguata, da parte della persona, degli atteggiamenti che sono stati alla base della condotta penalmente sanzionata, nella prospettiva di un reinserimento compiuto e duraturo».
46 «Se, per la vittima, la comunicazione del vissuto risponde ad una esigenza di “riconoscimento”, il racconto dell’esperienza criminale costituisce, per il reo, un tassello fondamentale per lavorare sul senso di colpa e perciò, in definitiva, su quei fattori criminogenetici connessi al ricorso alle c.d. “tecniche di neutralizzazione” che, se non affrontati, facilitano la ricaduta nel reato» (
Mannozzi, Grazia. La reintegrazione sociale, cit., p. 849).
47 Donini, Massimo. Il delitto riparato, cit., p. 244;
Mannozzi, Grazia. Le aperture, cit., p. 1533. In tal senso, s’impone un notevole salto di qualità: ad «essere culturalmente distante dal nostro ordinamento è la stessa idea di una presa in carico della vittima» (
Catalano, Elena Maria. La tutela della vittima nella direttiva 2012/29/UE e nella giurisprudenza delle corti europee.
Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2014, p. 1805
).
51 Mannozzi, Grazia. La reintegrazione sociale, cit., p. 850. Il dato teorico trova riscontro nei risultati empirici: alla maggiore gravità dei reati corrispondono più significativi effetti di contenimento della recidiva, che arrivano a svanire nel caso dei c.d. illeciti senza vittima (
Mannozzi, Grazia; Lodigiani, Giovanni Angelo.
La giustizia riparativa, cit., p. 365
). Sul piano sociologico, di particolare impatto è l’esperienza narrata da
BERTAGNA, Guido; CERETTI, Adolfo; MAZZUCCATO, Chiara.
Il libro dell’incontro. Milano: Il Saggiatore, 2015: un percorso iniziato nel 2007 e sviluppatosi in un arco temporale di sette anni segnati da incontri, in situazioni di vita comune, fra persone coinvolte nella c.d. lotta armata degli anni ’70 e vittime o familiari di vittime dei delitti di quel periodo storico.
52 Un caso virtuoso è quello deciso dal Tribunale di sorveglianza di Venezia (l’ordinanza è pubblicata in
Diritto penale e processo, 2012, p. 833): nell’ammettere alla semilibertà un condannato alla pena dell’ergastolo, si è tenuto conto anche di un progressivo riavvicinamento alle vittime dei reati grazie a una forma di mediazione “surrogata”, cioè con la vittima di reati analoghi a quelli commessi.
54 È significativo che il considerando 63 della direttiva 29/2012/UE insista sulla affidabilità dei servizi di assistenza, che devono essere in grado di fornire alle vittime un sostegno «rispettoso, sensibile, professionale e non discriminatorio».
64 Cass., sez. I, 23 novembre 2001, n. 410, in
C.E.D., n. 220439.
66 Sul tema, mentre la direttiva 2012/29/UE risente di una visione “tradizionale” (la vittima, ai sensi dell’art. 2.1 lett.
a, è «una persona fisica che ha subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono stati causati direttamente da un reato»), la Raccomandazione (18) 8 si caratterizza per esplicite aperture: il pregiudizio da riparare può riguardare la società (punto 13); tra gli interventi a carattere innovativo, sono annoverati i programmi riparativi di comunità (punto 59). Sulle c.d. vittime collettive, v.
Allegrezza, Silvia. La riscoperta della vittima, cit., p. 13. Per un quadro delle fonti sovranazionali che contemplano una definizione di vittima, v.
BELLUTA, Hervé. Quale ruolo per la vittima nel processo penale italiano?
Revista Brasileira de Direito Processual Penal, 2019, n. 1, p. 77 s
.
67 Lo strumento operativo è quello denominato
community group conferencing: v. la relazione conclusiva del Tavolo 13 “Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime”, Allegato 3.
68 Relazione conclusiva del Tavolo 13 “Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime”, Allegato 3.
69 Inserito dal d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 124. In base al comma 2, beneficiari dell’attività lavorativa possono essere amministrazioni dello Stato, regioni, province, comuni, comunità montane, unioni di comuni, aziende sanitarie locali, enti o organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato.
74 Va detto che a generare una certa confusione è anche il citato (v.
supra, nota 42) art. 27 comma 1 d.p.R. n. 230 del 2000: v.
Ciardiello, Patrizia. Riparazione e mediazione, cit., p. 100. Nell’ottica di ribadire il discrimine, è significativo che, nella disciplina di alcuni benefici penitenziari, figuri un espresso richiamo all’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato: è il caso della liberazione condizionale (art. 176 comma 4 c.p.) e della riabilitazione (art. 179 comma 6 n. 2 c.p.).
75 Cass., sez. I, 25 settembre 2007, n. 39474, Arnesano.
Cassazione penale, 2009, p. 1199, che segue l’orientamento già espresso da Cass., sez. I, 9 luglio 2001, n. 30785, Iegiani, in
C.E.D., n. 219606. Secondo l’indirizzo maggioritario, il risarcimento del danno rileva non quale prerequisito per accedere alla misura alternativa, ma sul piano del giudizio prognostico circa l’idoneità della stessa a soddisfare gli scopi rieducativi; di conseguenza, è nell’ambito di tale valutazione che entrano in gioco le prescrizioni
ex art. 47 comma 7 ord. penit., il cui rispetto è poi destinato a incidere sull’esito della prova (v., tra le altre, Cass., sez. I, 17 novembre 2009, n. 47126, Colatore, in
C.E.D., n. 245886; Cass., sez. I, 19 maggio 2009, n. 23047, Avanzi, in
C.E.D., n. 244070; Cass., sez. I, 27 maggio 2004, n. 37049, Zampolini, in
C.E.D., n. 230361; Cass., sez. I, 8 marzo 2001, n. 15098, Gammaidoni, in
C.E.D., 218405). Al riguardo, anche per ulteriori riferimenti giurisprudenziali, v.
Fiorentin, Fabio. Uscito dalla porta, rientra dalla finestra l’obbligo del risarcimento del danno per la concessione dell’affidamento in prova del servizio sociale?
Cassazione penale, 2009, p. 1200 s
.
77 A questo riguardo sono da menzionare le proposte di emendamenti al disegno di legge A.C. 2435 («
Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per una celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello») formulate dalla Commissione di studio nominata dal Ministro della giustizia con decreto del 16 marzo 2021 (il testo della relazione è consultabile all’indirizzo
https://www.sistemapenale.it/it/documenti/relazione-commissione-lattanzi-riforma-giustizia-penale. Accesso in: 16.7.2021). In particolare, l’art. 9-
quinquies contempla la delega a varare una disciplina organica della giustizia riparativa («quanto a nozione, principali programmi, garanzie, persone legittimate a partecipare») sulla base di puntuali criteri direttivi, con possibilità di usufruire dei relativi percorsi «senza preclusioni in relazione alla gravità dei reati» e in un’ottica di sistema («in ogni stato e grado del procedimento di merito, nell’ambito degli istituti previsti dal codice penale, dal codice di procedura penale, dall’ordinamento penitenziario, dall’ordinamento minorile e da leggi speciali»).
Conflict of interest declaration
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Author notes
1 Professore associato di Diritto processuale penale – Alma Mater Studiorum - Università di Bologna.
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