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I criteri di ammissibilità probatoria
The evidence admission criteria
I criteri di ammissibilità probatoria
Revista Brasileira de Direito Processual Penal, vol. 7, no. 1, rbdpp.v7i1.517, 2021
Revista Brasileira de Direito Processual Penal
Abstract: La verità giudiziale, presupposto per una decisione giusta, non può perseguirsi senza limiti. Le norme probatorie mirano a tutelare sia diritti soprattutto fondamentali sia criteri di razionalità processuale, rispettando la durata ragionevole del processo. La valutazione di ammissibilità probatoria ha esito positivo quando il tema di prova sia verosimile e pertinente, nonché qualora il mezzo e/o la fonte di prova siano rilevanti nel triplice senso della loro necessità (ossia, della loro non ridondanza), della loro idoneità contenutistica (perché atti a verificare l’enunciato da provare) e della loro idoneità epistemologica (in quanto l’attività compiuta sia conforme ai parametri gnoseologici storicamente dati). Si chiarisce infine che pure l’impiego dell’intelligenza artificiale deve garantire un controllo umano significativo.
Parole chiave: Ammissione probatoria, Intelligenza artificiale, Pertinenza, Prova scientifica, Rilevanza, Verità giudiziale, Verosimiglianza.
Abstract: Judicial truth, a prerequisite for a just decision, cannot be pursued without limits. Evidentiary norms aim to protect chiefly fundamental rights and the criteria of procedural rationality, respecting the reasonable time duration of the trial. The assessment of evidence submission is successful when the evidentiary theme is possible and pertinent, and where the means and / or sources of evidence are relevant in the threefold sense of their necessity (i.e. of their non-redundancy), of their content fitness (in that they can serve to verify the statement to be proved) and of their epistemological fitness (as the activity performed complies with the historically given gnoseological parameters). Finally, it is clarified that the use of artificial intelligence must likewise guarantee meaningful human control.
Keywords: Artificial intelligence, Evidence admission, Judicial truth, Pertinence, Relevance, Scientific evidence, Verisimilitude.
1. Verità e giustizia
Può considerarsi indiscusso che una decisione giurisdizionale sia reputata giusta solo quando sia fondata su una ricostruzione del fatto originante il processo ritenuta vera. Ciò «indipendentemente dal criterio giuridico che si impiega per definire e valutare la giustizia della decisione», ossia dalla condivisione delle teorie procedurali o sostanziali di giustizia: una base fattuale ritenuta erronea o inattendibile non potrebbe comunque supportare una decisione con la suddetta qualifica.
Conseguentemente, appare agevole riscontrare come la verità non sia in sé e per sé, lo scopo ultimo del processo, bensì - «compatibilmente con gli altri valori implicati dal medesimo» - il presupposto per poter convenientemente decidere quale sia la norma adatta alla vicenda su cui emettere la pronuncia.
Una conferma della connessione, ma altresì della distinzione, tra verità e giustizia risalta nella formula del giuramento contemplata per i giudici popolari nei giudizi di assise (art. 30 comma 1 l. 10 aprile 1951 n. 287), dove sono scolpiti i requisiti necessari della sentenza, disponendo appunto che essa «riesca quale la società deve attenderla: affermazione di verità e di giustizia».
Quanto dunque attiene alla giurisdizione è una verità giudiziale, caratterizzata sia per la sua contestualità (cioè dipendenza dal sapere dato, pure metodologico, quando è perseguita, come accade in qualsivoglia settore di ricerca) sia per la sua funzionalità a quell’“obiettivo della giustizia” storicamente determinato dal vario comporsi dei valori presenti in mezzo al popolo nel cui nome (ai sensi dell’art. 101 comma 1 Cost.) la giustizia è amministrata. È il parallelogrammo delle forze (individuali e collettive) interagenti nel processo a consentire una ricostruzione fattuale fondante una decisione “giusta” perché conforme a una verità che non assurge a meta ultima e assoluta dell’attività giurisdizionale: la sua conclusione ottiene il consenso dei cittadini anche con il rispetto della totalità delle opzioni ordinamentali durante l’intero sviluppo del procedimento.
A questo, assiologicamente e normativamente governato, interessa, per così dire, più il metodo del risultato: «la caccia vale più della preda» () e «la giustizia della sentenza sta nel cammino seguito pel risultato» () o, meglio, il risultato che si consegue attraverso il processo è tale (hegelianamente espresso) «nel doppio senso di evento finale e di unità costituita dall’insieme degli altri eventi; i quali quindi ne sono e gli antecedenti e i momenti (aspetti particolari costitutivi)».
2. Fondamenti delle norme probatorie e limiti temporali alla ricostruzione giudiziale
In tema di ammissibilità (sebbene non solo rispetto a essa) emerge che il sistema probatorio si connota per essere il frutto di opzioni normative derivanti da due diversi ordini di motivi, tra loro connessi e distintamente evidenziati per scopi di analisi.
Le regole probatorie legali, infatti, hanno un fondamento sia epistemologico (o processuale) che politico (o sostanziale): essi riguardano le esigenze, per il primo, di definire esplicitamente «un metodo per guidare il giudice nella ricerca» (come accade per gli 197, 214 comma 1, 403 e 499 commi 1-3 c.p.p.) e, per il secondo, di tutelare determinati diritti (si pensi agli art. 103 commi 2, 5 e 6, 199, 200, 201, 202, 219 comma 4 e 245 comma 2 c.p.p.), spesso costituzionalmente salvaguardati (ad esempio, dagli art. 2, 13, 14, 15, 19, 21, 24 e 32 Cost.). Tali prescrizioni possono corrispondere tanto a massime d’esperienza sedimentate nella coscienza giuridica o a discrezionali scelte legislative quanto al generale patrimonio epistemologico storicamente dato.
In una prima prospettiva, le regole ammissive possono implicare divieti probatori, con cui si individuano modalità gnoseologiche incompatibili con l’ordinamento e pertanto si contemplano quelle che l’art. 190 comma 1 c.p.p. definisce «prove vietate dalla legge» (tipicamente riscontrabili negli art. 188 o 197 c.p.p.), talvolta collegandosi a impedimenti a compiere indagini su specifici argomenti (esemplificativamente, le «voci correnti nel pubblico» ex art. 194 comma 3 e 234 comma 3 c.p.p.) o a limitazioni negli strumenti di verifica attinenti a particolari temi (come avviene per la personalità dell’imputato, in riferimento alla quale possono acquisirsi i documenti inseriti nel catalogo dell’art. 236 c.p.p., ma, salve eccezioni, non può disporsi una perizia).
Relativamente alla sua derivazione da principi epistemologici, la disciplina probatoria è poi tendenzialmente immodificabile se questi non mutino: è ciò che accade per la garanzia del contraddittorio, non solamente inerente alla nozione di “giusto processo”, ma pure basata sulla convinzione che «il metodo dialettico rappresenta finora quello migliore escogitato dagli uomini per stabilire la verità di enunciati fattuali, in qualsiasi campo e specialmente in quello giudiziario». Non a caso, «il legislatore penale contempla che, antecedentemente all’emanazione di qualsiasi ordinanza dibattimentale comportante il diniego di acquisizioni probatorie, sia attuato il contraddittorio tra le parti (art. 190 commi 1 e 3, 495 commi 1 e 4, 603 comma 5 c.p.p.), che potranno così contrastare la riduzione dell’opera conoscitiva a vero e proprio ‘cerimoniale tautologico’ da cui venga rimossa la possibilità di conseguire risultanze gnoseologiche difformi dal ‘desiderato’».
E il contradditorio si rivela tanto più necessario quanto più si osservi che le valutazioni concernenti l’ammissibilità probatoria sono dirette al vaglio delle descrizioni delle parti per rispettare i più elementari criteri di razionalità processuale: nonostante dal punto di vista logico «l’inferenza giudiziale non [sia] rigorosamente deduttiva ed esiste quindi un sia pur minimo margine d’incertezza o possibilità d’errore … che in linea di principio [è innegabile] possa diminuire in seguito all’acquisizione di nuove prove», interest reipublicae ut sit finis litium e occorre conformarsi al canone della ragionevole durata del processo (art. 111 comma 2 Cost., 47 comma 2 Carta dir. fond. UE, 6 comma 1 Conv. eur. dir. uomo e 14 comma 3 lett. c Patto intern. dir. civ. pol.), per cui viene tra l’altro in considerazione, come peculiare espressione di «una gigantesca regola controepistemica», la previsione di termini e modi nella presentazione delle richieste probatorie a opera delle parti (v., emblematicamente, art. 468 comma 1 c.p.p.).
A proposito dell’ammissibilità probatoria affiora quindi una seconda prospettiva di ricerca. Essa afferisce alla scelta di cosa introdurre nel bagaglio conoscitivo del giudice e pertanto alla costellazione concettuale delle nozioni, spesso confuse, di verosimiglianza, pertinenza, rilevanza e concludenza probatorie, di cui occorre chiarire la portata semantica senza ignorare l’ausilio di “ridefinizioni”, che non sono evitabili nemmeno per determinare il più esattamente possibile le molteplici accezioni della parola “prova”, frequentemente adoperata in argomento (basti pensare alla locuzione “ammissione della prova”) senza un’adeguata attenzione discretiva.
3. La sequenza probatoria.
Il vocabolo prova può identificarsi in senso lato con quanto «destiné à établir une conviction sur un point incertain» riguardante la conoscenza del fatto all’origine della controversia giudiziaria, ossia con quell’insieme di elementi e attività, quel procedimento, quell’esito conoscitivo, aventi la funzione di consentire la verifica di uno degli enunciati fattuali integranti l’intero thema probandum.
Occorre tuttavia distinguere ciascuna delle componenti (spesso denominate “prova” senza specificazioni) strutturalmente costitutive della sequenza probatoria, le quali nel loro susseguirsi formano il fenomeno probatorio, analizzato, per così dire, in una prospettiva “statica”.
Considerata la sua centralità gnoseologica, la prima e più importante di esse è l’elemento di prova, rappresentato da ciò che, introdotto nel procedimento, può essere utilizzato come premessa della successiva inferenza (per esempio: dichiarazione testimoniale, caratteristica dell’oggetto sequestrato, espressione contenuta in un documento, e così via).
Il soggetto o l’oggetto da cui può derivare al procedimento almeno un elemento di prova è la fonte di prova, che a sua volta può essere tanto personale (come nel caso del teste) quanto reale (come nell’ipotesi del documento).
L’attività attraverso cui viene introdotto nel procedimento almeno un elemento di prova è il mezzo di prova (testimonianza, perquisizione, intercettazione telefonica, e così via), per la cui esecuzione possono essere coinvolte più fonti di prova (si pensi ai soggetti che partecipano a un confronto o alle persone e alle cose impiegate per effettuare un esperimento giudiziale).
Sulla base dell’elemento di prova conseguito (o di più elementi di prova; per esemplificare, nell’eventualità che vengano reperite impronte digitali sull’arma del delitto, sarà necessario ottenere anche quelle dell’imputato per poter procedere all’analisi dattiloscopica di comparazione), si svolgerà il procedimento intellettivo (o, detto altrimenti, l’inferenza), il cui esito sarà rappresentato da una proposizione costituente il finale e propriamente denominabile risultato di prova (che, se reputato persuasivo dal giudice - perché, ad esempio, sono state da lui positivamente valutate l’affidabilità del testimone o l’autenticità del documento -, corrisponde alla conclusione probatoria fondativa della pronuncia), eventualmente preceduto da uno o più passaggi, ciascuno concludentesi con ciò che potrebbe altresì estensivamente chiamarsi risultato di prova, però “intermedio”.
4. La verosimiglianza e la pertinenza probatorie
Proprio perché inerente alla valutazione giudiziale sulla persuasività dello strumento conoscitivo ormai acquisito, in vista del suo impiego per il definitivo giudizio assertorio sulla verità dell’affermazione rappresentativa della res in iudicium deducta posta a base della domanda giudiziale, esula dai criteri di ammissibilità probatoria la nozione di concludenza, cui si è precedentemente alluso.
Con riferimento poi agli oggetti dei rispettivi giudizi, differiscono tra loro quelli dei giudizi di verosimiglianza e pertinenza, da un lato, e di rilevanza, dall’altro. Nonostante la loro comune funzione sia di delimitare l’attività istruttoria, verosimiglianza e pertinenza concernono gli enunciati da verificare, cioè i temi (od oggetti) di prova, mentre la rilevanza attiene alle fonti (si pensi a testimoni e documenti) e/o ai mezzi (come testimonianza, perizia, ispezione, perquisizione, ecc.) di prova.
Verosimiglianza e pertinenza, infatti, vertono «sulla affermazione del fatto, cioè sulla allegazione (positio) del fatto proveniente dalla parte che chiede di essere ammessa a provarlo» o dall’autonoma attività di ricerca svolta dall’organo procedente (a seconda dell’assetto che ciascun sistema processuale riservi ai rapporti tra i poteri delle parti e quelli dell’autorità giurisdizionale per la formulazione dei temi di prova).
Relativamente al criterio di verosimiglianza, inoltre, gli oggetti di prova comunque individuati devono essere caratterizzati dalla loro ipotetica verificabilità, indispensabile per ogni orientamento assunto dall’indagine. Poiché «l’orizzonte istruttorio ha come limite l’epistemologia dominante», viene richiesto al giudice di valutare se il fatto asserito non sia in contrasto con l’insieme delle leggi logiche e scientifiche non probabilistiche o, detto altrimenti, se possa essere accaduto secondo quello che è il patrimonio gnoseologico storicamente dato (non si richiamino, ad esempio, eventi magici per sostenere l’accadimento di un fatto). Si tratta di un giudizio che afferisce all’aspetto specificamente storico dell’enunciato fattuale e che, non implicando un apprezzamento sulla plausibilità in concreto del tema di prova, non incorre in un’anticipazione della futura decisione, ma che va integrato da un’ulteriore disamina.
Poiché frustra probatur quod probatum non relevat, si deve ancora accertare se l’affermazione probatoria che si intende verificare è congruente con il thema decidendum.
Si tratta di applicare il criterio di pertinenza, in forza del quale - attraverso un giudizio necessariamente inserito in coordinate giuridiche - si postula che l’ammissione probatoria possa essere disposta solo nel caso in cui si riconosca la sussistenza di un “nesso decisorio” (astrattamente individuato nel nuovo sistema processuale penale dalle classi di cui all’art. 187 c.p.p.) tra singolo oggetto di prova e regiudicanda: è una valutazione a «carattere ipotetico nel senso che dà per provati i fatti [rectius: gli enunciati fattuali], di cui si chiede la prova, e si concentra nel controllare se sarebbero idonei a produrre le conseguenze giuridiche vagheggiate dalle parti». Ma giova precisare come non occorra che il rapporto tra thema probandum e decidendum «sia diretto ed immediato, potendo essere soltanto e perfino mediato (così una circostanza da provare può essere pertinente per stabilire la credibilità di un teste)», quest’ultima evenienza inerendo all’ammissione di una cosiddetta “prova sussidiaria”.
Ne deriva, in ottica giuridica, che, se tutto quanto è pertinente è pure verosimile, è scorretto l’enunciato contrario, non sempre conseguendo a un preliminare giudizio positivo di verosimiglianza quello di pertinenza.
Ma non va ignorato come ambedue dipendano dal momento processuale in cui vengano formulati: invero, se un’eventuale richiesta probatoria, anche per scongiurare attività superflue, va respinta quando «esprime delle circostanze già sufficientemente accertate ... [ovvero] ritenute inidonee a dare un nuovo indirizzo» alla ricerca, «l’esperibilità di nuove indagini diminuisce progressivamente col procedere l’accertamento verso la decisione»: e in proposito basti ricordare il restrittivo parametro della “assoluta necessità”, per il legislatore processuale penale costituente requisito per consentire “nuove” acquisizioni probatorie ai sensi degli art. 507 e 523 comma 6 c.p.p.
5. La rilevanza probatoria: a) non ridondanza e idoneità contenutistica
Il momento processuale nel quale viene formulato assume importanza pure per il giudizio di rilevanza probatoria, che però attiene alla delimitazione non degli oggetti, bensì delle fonti e/o dei mezzi di prova, di cui bisogna acclarare dapprima la necessità. Occorre che le fonti e/o i mezzi di prova siano non ridondanti, poiché non sarebbero acquisibili quando non assolvessero a una funzione diversa dal ribadire ciò che fosse già stato conseguito con prove precedenti (od ottenibile con successive, se il giudizio di rilevanza fosse compiuto in un unico contesto con riferimento a più richieste e si decidesse di accoglierne solo alcune).
Ma, per essere rilevanti, tali fonti e/o mezzi, devono altresì caratterizzarsi, rispetto alla verifica di un tema di prova ritenuto verosimile e pertinente, per la loro idoneità, sussistente anzitutto in una prospettiva contenutistica (per un altro profilo, v. il successivo paragrafo): essendo cioè atte a veicolare elementi di prova da cui inferire proposizioni in grado di confermare o smentire l’affermazione probatoria cui intendano rapportarsi. Si esige quindi un apprezzamento in concreto sulla congruenza tra quanto conseguibile in sede probatoria e l’enunciato che si intenda verificare, così da impedire uno sterile dispendio di tempo quando già si sappia che l’esperimento gnoseologico avrebbe un esito non fruibile pro o contra nessuna delle parti; né viene implicata un’anticipazione del compito decisorio, poiché si tratta di una valutazione vertente non sull’affidabilità, attendibilità o credibilità (cioè, comunque sulla forza persuasiva) dell’operazione probatoria, ma sulla assoluta inutilità di quest’ultima per la sua incapacità a fornire elementi di prova di cui potersi servire in sede deliberativa nel controllo dell’oggetto di prova considerato. Per esemplificare, sarebbe irrilevante per mancanza di idoneità contenutistica una ricognizione vocale, qualora sin dal momento della richiesta probatoria fosse nota e non contestata la totale sordità congenita della persona chiamata a effettuarla.
6. b) idoneità epistemologica e “nuova” prova scientifica
Il sistema processuale impone tuttavia che la rilevanza della fonte e/o del mezzo di prova da assumere possegga un’idoneità anche epistemologica, per l’esigenza che l’elemento (ipoteticamente) conoscitivo sia conseguito o manipolato in modo tale da permettere il controllo delle parti e della collettività sull’esercizio della giurisdizione e sulla sua conformità al principio di legalità processuale (cfr., per i singoli aspetti qui sintetizzati, art. 1 comma 2, 101, 102 comma 3, 111 commi 1 e 6 Cost.). Siccome difformi dai parametri epistemologici attuali e pertanto inidonei all’impiego nella trama logico-argomentativa del provvedimento, non possono avere ingresso nel processo attività dirette a verificare un tema di prova verosimile e pertinente, ma ispirate, per esemplificare, alla magia, all’oracolarità, alla rabdomanzia, allo spiritismo, alla grafologia.
È comprensibile come l’importanza di tale caratteristica sia emersa soprattutto con riguardo alla cosiddetta nuova prova scientifica, con cui - nell’ambito dei «mezzi di prova nei quali si usa uno strumento scientifico-tecnico che richiede specifiche competenze e quindi l’intervento di un esperto» - si denominano le operazioni probatorie utilizzanti apparati tecnico-scientifici reputati di generalmente elevata specializzazione e nuovi o controversi: giova quindi chiarire che la questione può concernere pure la prova scientifica, per così dire, tradizionale (riferita a conoscenze comunemente condivise al momento del loro uso nel processo e per le quali l’eventuale «problematicità dell’accertamento probatorio si concentra ... non sulla premessa nomologica, ma sul suo corretto impiego pratico»), quando ne fosse posta in dubbio la «reale ‘scientificità’» in seguito allo sviluppo degli studi che la concernano.
Il richiamo alla scienza, infatti, non è sufficiente a tacitare il timore che siano inserite nel quadro gnoseologico componenti di dubbio valore scientifico (la cosiddetta “scienza spazzatura”) per la preoccupazione di tralasciare indagini magari determinanti nella soluzione dei casi giudiziari. È stata così sostenuta in ambito penale la proposta, attraverso «un’interpretazione analogica» dall’art. 189 c.p.p. (disciplinante la prova atipica), di interpretare il sistema processuale penale in maniera da consentire in Italia comportamenti analoghi a quelli seguiti nel mondo anglosassone, dove è attribuita al giudice la scelta di procedere a un apprezzamento caso per caso sulla forza persuasiva della “nuova prova scientifica” prima di deciderne l’ammissione.
Tale impostazione, però, si scontra con alcuni ostacoli insormontabili.
In una prospettiva epistemologica, si assegna al giudice la responsabilità di assumere una posizione talvolta estremamente difficile (e forse impossibile) da giustificare e non rientrante nelle sue competenze, per poter decidere se seguire le usuali regole dell’ammissione probatoria o quelle speciali della “nuova prova scientifica”. Egli dovrebbe cioè selezionare ciò che non è incontestabilmente distinguibile, dato che «il dato acquisito al dibattito epistemologico, pure nelle sue proiezioni giuridico-processuali, per cui la scienza non è in grado di dare certezza incontrovertibili, non consente di tracciare una sicura e netta linea di demarcazione fra ‘conoscenze unanimemente accertate’ e conoscenze che tali non sono», appunto perché nuove (e conseguentemente non ancora sottoposte a un adeguato collaudo dagli studiosi della materia) o controverse.
In ottica giuridica, la soluzione ipotizzata, anzitutto, confligge con il principio di legalità processuale (statuito dall’art. 111 comma 1 Cost. e individuato tra i principi generali del diritto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo) per il richiamo all’analogia, per di più con il fine di applicare il regime della prova atipica (della cui legittimità costituzionale si dubita).
Inoltre, affidare al giudice il compito di formulare «un giudizio di prevalutazione dell’attendibilità o dell’efficacia della prova» violerebbe i requisiti di imparzialità, terzietà e, più specificamente, neutralità metodologica del giudice, poiché «non può ammettersi che l’organo giurisdizionale proceda alla verifica delle affermazioni delle parti tenendo comportamenti che siano influenzati da una delle prospettazioni inerenti alla regiudicanda o ne sottintendano l’accoglimento». Non a caso, nell’esperienza statunitense presa a modello, diversi sono i soggetti (rispettivamente, il giudice togato e la giuria) che esprimono la valutazione sull’ammissibilità probatoria e quella sul merito della regiudicanda, sebbene resti poi da giustificare la sottrazione dell’apprezzamento di persuasività probatoria di uno strumento conoscitivo al giudice chiamato a decidere sulla regiudicanda (ciò che in Italia parrebbe confliggere almeno con gli art. 25 comma 1 e 101 comma 2 Cost.). «La diversità tra i procedimenti di ammissione italiano e nordamericano, però, non esclude che vengano valorizzati anche nel primo i parametri emersi nella giurisprudenza del secondo e finalizzati all’esclusione dal processo della pseudo-scienza», ulteriormente raffinati dalla Cassazione senza ignorare l’esigenza di verificare la competenza dell’esperto del cui parere ci si intenda avvalere.
Infine, riguardo al rito penale (e senza ignorare ulteriori più specifiche considerazioni), questo già contiene norme in cui sarebbero agevolmente inquadrabili le innovazioni tecnico-scientifiche, in relazione alle quali varrebbe l’ordinaria disciplina dell’art. 190 c.p.p.: si pensi alle ricognizioni di «voci, suoni o … quanto altro può essere oggetto di ricognizione sensoriale» (art. 216 comma 1 c.p.p.), alle perizie ex art. 220 ss. c.p.p., per le quali «la natura particolare ed inconsueta degli accertamenti non vale a determinarne la traslazione al novero delle prove ‘atipiche’», o ai documenti, tra cui è annoverabile, oltre agli scritti, tutto quanto rappresenti «fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo» (art. 234 comma 1 c.p.p.).
Dunque, pure per la “nuova prova scientifica” va attribuita all’organo giurisdizionale l’esecuzione non di un giudizio anticipato sulla sua affidabilità, attendibilità o credibilità, bensì (come per ogni altra ipotesi di ammissione probatoria) di una stima sull’idoneità per lo strumento utilizzato a conseguire un esito concretamente fruibile (anche perché razionalmente controllabile e giustificabile) per la verifica del singolo enunciato costituente il tema di prova. L’eventuale controversia sulla scientificità della prova richiesta sarebbe risolubile altresì attraverso lo sviluppo del contraddittorio nel suo momento ammissivo, magari usufruendo di prove sussidiarie per accertare controllabilità e giustificabilità dei procedimenti e dei risultati relativi all’apparato tecnico-scientifico: andrebbe comunque «evita[to] di addossare al proponente l’onere di provare la rilevanza di quanto richiesto, garantendogli l’ammissione dell’esperimento conoscitivo, salva la sua irrilevanza», nel dovuto rispetto dell’art. 190 c.p.p.
Solo nel successivo momento valutativo il giudice - dotato non di una cultura scientifica “di merito”, ma di una “cultura di criteri, consistente in schemi concettuali intesi a scrutinare la validità delle leggi scientifiche e delle tecnologie usate dall’esperto e la loro corretta applicazione” - potrà argomentativamente dire se l’esperimento gnoseologico ha effettivamente adempiuto o no la sua funzione di convincimento e ha quindi conclusivamente consentito il formarsi, sulla sua base, di un epilogo conoscitivo «comprensibile da chiunque, conforme a ragione ed umanamente plausibile».
7. Intelligenza artificiale e controllo umano significativo
Il valore delle conclusioni fin qui raggiunte non è da porre in dubbio nemmeno rispetto a un argomento che sempre più viene affrontato in ambito giudiziario: l’impiego in esso della cosiddetta intelligenza artificiale, la cui complessità di profili non può essere affrontata in questa sede e la cui stessa novità rende difficile fornirne una nozione univoca.
Un minimo livello di consenso è forse ottenibile riconoscendo quali caratteristiche principali dell’intelligenza artificiale «a) l’uso di grandi quantità di dati e informazioni; b) una elevata capacità logico-computazionale; c) l’uso di nuovi algoritmi, come quelli del deep learning e dell’auto-apprendimento, che definiscono metodi per estrarre conoscenza dai dati per dare alle macchine la capacità di prendere decisioni corrette in vari campi di applicazione», senza escludere una modifica degli algoritmi originari «man mano che ricevono più informazioni su quello che stanno elaborando».
Inoltre, giova riprendere e adattare al contesto giudiziario la proposta, sorta durante il dibattito internazionale sviluppatosi nell’ambito dell’ONU sulle armi autonome (si pensi ai velivoli da combattimento senza pilota), di spostare l’attenzione dalla forse insuperabile difficoltà di una loro definizione alla «necessità di assicurare che gli attacchi sferrati da tutti i sistemi d’arma siano soggetti a un ‘controllo umano significativo’».
Dopo aver rammentato la regola generale sull’osservanza dei diritti fondamentali, con la conseguenza che non sarebbe mai ammissibile una cosiddetta prova digitale se violatrice di essi (il principio del nemo tenetur se detegere, ad esempio, potrebbe essere leso da una profilazione personologica), occorre perciò evidenziare che ostacolo all’utilizzabilità della prova è la sua «opacità». Come già altrove sostenuto, andrebbe pertanto sancito che l’impiego della “macchina” (secondo la convenzionale denominazione abbreviata del “sistema [o sinonimicamente: dell’apparato] di intelligenza artificiale”) in sede giurisdizionale fosse assoggettato a un controllo umano significativo costituito dalle seguenti imprescindibili condizioni: 1) pubblicità e vaglio conforme ai criteri di peer review riguardo al suo funzionamento; 2) informazione sul potenziale tasso di errore; 3) adeguate spiegazioni traducenti la “formula tecnica” rappresentativa dell’algoritmo nella sottesa regola giuridica, in tal modo resa leggibile e comprensibile dal giudice, dalle parti e dai loro difensori; 4) garanzia del contraddittorio sulla scelta degli elementi archiviati, sui loro raggruppamenti e sulle correlazioni dei dati elaborati dall’apparato di intelligenza artificiale, specialmente con riferimento all’oggetto della controversia; 5) giustificazione da parte del giudice del loro accoglimento alla luce di quanto emerso in giudizio e valutato secondo il principio del libero convincimento.
Il controllo umano significativo, dunque, andrebbe altresì garantito qualora, come prospettato, l’intelligenza artificiale fosse impiegata al momento dell’ammissione probatoria, in cui non dovrebbe mancare, rispetto all’uso della macchina, il suo apprezzamento e la corrispondente motivazione da parte del giudice.
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Notes
Author notes
Corresponding author: Giulio Ubertis , Università Cattolica del Sacro cuore di Milano, Italia. Email: giulio.ubertis@unicatt.it.