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Zone di lettura. Per una didattica dell’esperienza estetica

Simone GIUSTI
Università degli Studi di Perugia, Italia

Zone di lettura. Per una didattica dell’esperienza estetica

Versants, vol. 2, núm. 67, pp. 11-23, 2020

Universität Bern

Publicación: 31 Octubre 2020

Sommario: Nussbaum e Todorov, sia pure da posizioni diverse, hanno contribuito a sviluppare un’idea di insegnamento letterario basata sulla lettura simpatetica o immersiva, che consente di cambiare sé stessi e di sviluppare un’attitudine all’incontro con l’altro. Queste idee, che hanno trovato scarsa applicazione in ambito didattico, vengono approfondite e sviluppate alla luce degli studi sull’esperienza estetica e sulla narrazione, nel tentativo di fornire qualche indicazione utile a individuare modelli didattici in grado di valorizzare il ruolo educativo della lettura delle opere letterarie.

Parole: Esperienza estetica, Lettura, Didattica della letteratura, Writing and Reading Workshop, Apprendistato cognitivo.



Trovarsi di fianco qualcuno assorto nella lettura,
mi porta a domandargli: dove sei?
Per questo cerco di cercarti dentro,
di raggiungerti dentro quel dentro
da cui mi sento irrimediabilmente escluso.
Per questo mi viene da chiederti:
perché non mi porti con te?
Valerio Magrelli

L’ambito di ricerca della didattica della letteratura dovrebbe riguardare, grosso modo, quella particolare relazione educativa che è finalizzata all’apprendimento attraverso l’interazione dei discenti con le opere letterarie e, anche, con alcuni tra i concetti e gli strumenti operativi elaborati dagli studi letterari. Da questa constatazione, che è anche una specifica presa di posizione rispetto al problema dell’identità di un campo di studi ancora in via di definizione, discende la necessità di tenere desta l’attenzione sul «valore d’uso» della letteratura (Tonelli 2013: 17), sugli effetti della fruizione delle opere e sulle condizioni che rendono possibile conseguire quei risultati di apprendimento che una particolare istituzione educativa – per esempio, la scuola secondaria della Repubblica italiana – intende promuovere in modo intenzionale grazie all’insegnamento affidato a docenti laureati in Lettere. Da questa esigenza e da questo specifico punto di vista prende vita l’interesse dell’esperto di didattica della letteratura per quelle pratiche di lettura che consentono di «attivare le opere» (Schaeffer 2014: 23), rendendo così possibile quella relazione educativa che può produrre un cambiamento nella vita di ciascun discente.

Il problema degli effetti della lettura e del valore educativo dei classici della letteratura all’interno delle società democratiche è individuato chiaramente da Martha Nussbaum (1999) nel suo Coltivare l’umanità (prima edizione in lingua inglese del 1997), che a sua volta ricorre alle argomentazioni di Wayne C. Booth (1988). Dal libro di Booth (1988), Nussbaum (1999: 109) recupera una metafora usata per descrivere «l’interazione che ha luogo tra il lettore e l’opera letteraria»:

Questa [l’opera letteraria], per tutto il tempo in cui la si legge, si trasforma in una sorta di amico con il quale si sceglie di passare il proprio tempo. Il problema è quello di capire che tipo di trasformazioni occorrano nella mente del lettore in seguito a questa esperienza (Nussbaum 1999: 109).

Le letteratura, inquadrata da Nussbaum nel più generale sistema delle arti, «mediante la sua capacità di rappresentare le circostanze particolari e i problemi dei diversi personaggi» dà un contributo particolarmente significativo alla formazione del «cittadino del mondo» (1999: 100). Nello specifico, la lettura delle opere della letteratura dovrebbe essere praticata «facendo procedere di pari passo una lettura simpatetica con una lettura invece critica, in modo da poter valutare perché certi personaggi attirano e monopolizzano i nostri sentimenti» (110), e dovrebbe interessare, accanto ai testi canonici della letteratura occidentale, che vanno studiati con un atteggiamento critico (103), anche nuove opere «che diano voce alle esperienze di quei gruppi che sono presenti nella nostra società e che abbiamo più urgenza di comprendere, per esempio i membri di altre culture, le minoranze etniche e razziali, le donne, le lesbiche e i gay» (108). In estrema sintesi, Nussbaum propone un approccio centrato sull’attivazione e sull’esercizio dell’«immaginazione narrativa» (104), ovvero sulla «capacità di pensarsi nei panni di un’altra persona, di essere un lettore intelligente della sua storia, di comprenderne le emozioni, le aspettative e i desideri» (Nussbaum 2011: 111), basato su un’esperienza di immersione nel mondo narrato, mettendo a frutto la «valenza politica della letteratura», che «corrisponde alla possibilità che essa ci offre di farci penetrare, pur rimanendo noi stessi, nella vita di un’altra persona, di percepire somiglianze e anche profonde differenze tra la sua vita e la nostra, rendendo possibile, o per lo meno facilitando, la mutua comprensione» (Nussbaum 1999: 121).

A una analoga rivalutazione, in ambito scolastico, del potere conoscitivo della lettura immersiva dei classici della letteratura, giunge nel 2007 Tzvetan Todorov nel suo La letteratura in pericolo (2008), punto d’arrivo di un lungo percorso di ricerca iniziato nel 1978 con un breve saggio intitolato La lettura come costruzione (1995), nel quale è indagata la logica sottesa alla «lettura dei classici della narrativa, più esattamente dei testi detti rappresentativi».

Ciò che esiste, all’inizio, è il testo, e nient’altro che il testo; solo sottoponendolo a un tipo particolare di lettura costruiamo, a partire da esso, un universo immaginario. Il romanzo non imita la realtà, la crea: questa formula dei preromantici non è una semplice innovazione terminologica; solo la prospettiva della costruzione ci permette di comprendere il funzionamento del testo cosiddetto rappresentativo (Todorov 1995: 187).

La domanda che si pone Todorov – a cui cercheranno di dare una risposta, negli anni seguenti, le scienze cognitive e le neuroscienze – apre il varco a uno studio antropologico della lettura e della letteratura. Se è il testo, infatti, a contenere le istruzioni necessarie alla realizzazione dell’universo immaginario che si forma nella mente del lettore, è però il singolo lettore, donna o uomo in carne e ossa, a fornire i materiali da costruzione: i propri ricordi e le immagini già presenti nella sua memoria, grazie ai quali può costruire l’universo immaginario evocato nel testo dall’autore. La lettura dei testi rappresentativi è una vera e propria produzione, e come tale può essere indagata solo attraverso l’«introspezione» o il confronto con «i racconti che gli altri possono fare della loro lettura» (Todorov 1995: 187-188).

Nell’introduzione al suo saggio La vita comune (1998), è ancora Todorovche, allo scopo di fornire una giustificazione teorica all’uso della letteraturacome fonte per la sua ricerca antropologica, elabora e sviluppa il concetto di«pensiero letterario»:

Il pensiero letterario non soltanto è degno di essere accolto tra i discorsi conoscitivi,ha anche alcuni meriti specifici. Ciò che si esprime attraverso storie o formulepoetiche sfugge agli stereotipi che dominano il pensiero del nostro tempo e allavigilanza della nostra stessa censura morale, che si esercita anzitutto sulle asserzioniche arriviamo a formulare esplicitamente. Le verità sgradevoli – per il genereumano a cui apparteniamo o per noi stessi – vengono espresse più facilmentein un testo letterario che in un testo filosofico o scientifico. Il pensiero letterarionon si presta alle prove empiriche o logiche, certo, ma mette in moto la nostracapacità di interpretazione simbolica, di associazione, i cui movimenti, le ripercussioni,le onde d’urto proseguono per molto tempo dopo il contatto iniziale;questo avviene grazie a un uso evocatore delle parole e al ricorso alle storie, agliesempi, ai casi specifici. In questo senso i testi sono più intelligenti dei loro autorie le interpretazioni che ne diamo lo sono più di noi. I testi letterari hanno infineil vantaggio di rivolgersi a tutti e di cercare dunque una maggiore intelligibilità;perché non accettare il piacere che proviamo nel vedere La Rochefoucauld direcon chiarezza, pur senza nulla concedere alla facilità, ciò che i discorsi astrusi diun qualche psicoanalista di oggi dimostrano con pedanteria? (Todorov 1998: 12).

Il «pensiero letterario», stimolato o suscitato dal confronto con quei testi rappresentativi capaci di suscitare la costruzione di universi immaginari nella mente di chi legge, consente tra l’altro di accedere a una conoscenza altrimenti irraggiungibile, poiché grazie al ricorso alle storie, agli esempi e ai casi specifici, aggira due limiti che Todorov sembra riconoscere alle altre forme di pensiero: gli stereotipi che dominano il pensiero di una determinata epoca, la censura morale che le persone esercitano sulle asserzioni. I testi, dice Todorov, sono più intelligenti dei loro autori, come le interpretazioni sono più intelligenti degli interpreti, come a voler sottolineare la complessità e la ricchezza dell’attività di lettura, che sfugge in gran parte al controllo cosciente e che, purtuttavia, consente di acquisire conoscenze e di sviluppare capacità fondamentali per la vita. Le opere letterarie, proprio in quanto storie capaci di far vivere esperienze uniche ai lettori, preservano «la ricchezza e la diversità del vissuto» (Todorov 2008: 66) e si distinguono dal discorso filosofico, che al contrario favorisce l’astrazione e consente di formulare leggi generali.

Todorov arricchisce la sua argomentazione sul valore educativo della letteratura ricorrendo a un saggio di Richard Rorty (2001) nel quale il filosofo illustra la differenza fondamentale tra le opere filosofiche e le opere letterarie. Queste ultime, in quanto opere di finzione, avrebbero la peculiarità di produrre una conoscenza fondata sul cambiamento continuo e sulla costante revisione delle idee ricevute. Secondo Rorty, infatti, ogni discorso è soggetto è diventare gergo1 quando perde la sua freschezza e la sua capacità di rendere l’individuo sospettoso nei confronti dei luoghi comuni e degli stereotipi. Ogni nuova idea può trasformarsi in gergo: un processo che diventa inevitabile, secondo Rorty, per quelle opere argomentative che sono diventate dei punti fermi del processo educativo, mentre è più difficile che accada nel caso delle opere non argomentative e in particolare per le opere di finzione, perché queste ultime non promettono, come la filosofia tradizionale, una «verità redentrice» («redemptive truth», si legge in Rorty 2001: 245), ma, al contrario consentono ai lettori di essere trasportati in un posto da cui è possibile osservare da una nuova prospettiva2. Queste sono le conclusioni a cui giunge Todorov sulla scorta di Rorty:

Chi fa parte di una società è continuamente immerso in una serie di discorsi che gli si presentano come dati di fatto, dogmi ai quali dovrebbe aderire. Sono i luoghi comuni di un’epoca, i pregiudizi che formano l’opinione pubblica, i modi di pensare, banalità e stereotipi, che possiamo anche definire “l’ideologia dominante”, preconcetti o cliché (Todorov 2008: 68).

Tuttavia, affinché la lettura possa sprigionare questa sua potenzialità liberatoria, insiste Rorty, è necessario che il lettore rimanga aperto alla possibilità che il prossimo libro che legge, o la prossima persona che incontra, possano cambiare la sua vita (2001: 245). Ed è a partire da questa consapevolezza che Todorov propone a chi insegna e a chi studia un uso della letteratura basato non propriamente sulla lezione degli studi letterari, quanto semmai sull’esperienza del lettore comune («lecteur ordinaire», nel testo originale), il quale – nonostante i pareri discordi di insegnanti, critici e scrittori – continua «a cercare nelle opere che legge come dare un senso alla propria vita» (2008: 66). È a questo lettore e a quest’esperienza che egli pensa quando scrive questo passo in cui si avvicina alle posizioni già espresse da Nussbaum:

Conoscere nuovi personaggi è come incontrare volti nuovi, con la differenza che possiamo scoprirli dall’interno, osservando ogni azione dal punto di vista del suo autore. Meno questi personaggi sono simili a noi e più ci allargano l’orizzonte, arricchendo così il nostro universo. Questo allargamento interiore (simile per certi aspetti a quello causato dalla pittura figurativa) non si formula in affermazioni astratte, ed è per questo che ci risulta così difficile da descrivere; rappresenta piuttosto l’inclusione della nostra coscienza di nuovi modi di essere accanto a quelli consueti. Un tale apprendimento non muta il contenuto del nostro essere, quanto il contenente stesso: l’apparato percettivo, piuttosto che le cose percepite. I romanzi non ci forniscono una nuova forma di sapere, ma una nuova capacità di comunicare con esseri diversi da noi; da questo punto di vista riguardano la morale, più che la scienza (Todorov 2008: 70).

Le posizioni di Nussbaum e di Todorov, tutte interne al campo degli studi letterari e del loro insegnamento, spingono dunque a interrogarsi sul reale potere conoscitivo della lettura dei classici e, soprattutto, sulle condizioni alle quali è possibile, in un contesto intenzionalmente educativo e attraverso la mediazione dei docenti, ottenere dei risultati di apprendimento più o meno controllabili e desiderabili. Specificamente, entrambi gli autori propongono, per la scuola secondaria, modelli e pratiche di lettura che provengono, più che dalle diverse tradizioni didattiche, dalla vita quotidiana di chi ricorre alla lettura di opere letterarie, in particolare romanzi, che possono o meno appartenere al novero dei classici e che sono accomunati dalla possibilità che offrono a chi legge di costruire mondi, d’immedesimarsi nei personaggi, di provare emozioni, di fare esperienze. È un’idea di lettura che si avvicina a quella descritta dal sociologo Paolo Jedlowski (2000; 2005; 2009) nei suoi studi sull’esperienza e la vita quotidiana: la fruizione delle opere della letteratura è una delle forme possibili della narrazione intesa come condivisione di storie tra un narratore e un destinatario.

Pensiamo di essere di fronte a qualcuno che ci racconti una storia, oppure inpoltrona, con un libro aperto sulle ginocchia. In entrambi i casi ci troviamofisicamente in un mondo concreto, nel quale la pratica che stiamo svolgendoha il suo posto. Ma ascoltando o leggendo ci trasferiamo simultaneamenteanche in un altro mondo: il mondo narrato.

Questo mondo esiste solo nell’immaginazione, ed è creato dalla narrazioneattraverso il medium di un discorso narrativo. Può assomigliare al mondoempirico o essere francamente fantastico: in ogni caso non è il mondo empiricoentro cui siamo fisicamente presenti. Che si racconti ciò che è successoieri, che è successo altrove o che non può essere successo mai e in nessunluogo, è lo stesso: ciò che si racconta non è il presente che si offre ai nostrisensi; è un altrove che immaginiamo (Jedlowski 2013: 20-21).

Nel caso dell’opera letteraria la narrazione è mediata dalla scrittura, è evidente, ma il suo funzionamento non cambia: «si chiudono le porte alla percezione rispetto a ciò che ci circonda materialmente, e ci si accomoda in un altro mondo arredato» (Jedlowski 2009: 121). Le narrative – indipendentemente dal medium usato per diffonderle – hanno in comune la possibilità di far fare a chi le condivide delle esperienze che producono sempre un apprendimento e modificano in profondità i loro fruitori:

Ogni forma di narrazione comporta […] un doppio registro: per un versoil destinatario è in un luogo, ma per un altro sta altrove, nel mondo possibileche il racconto gli ha aperto. Questo mondo segue la logica del «comese»: è «mimesi», «finzione». Mimesi non nel senso di copia, e finzione nonnel senso di falsità: mimesi e finzione come creazione di mondi che hannoa modello la realtà immediata dei sensi ma che se ne emancipano in unmodo o nell’altro, poiché si creano grazie al discorso, si plasmano attraversoi segni che usiamo, sono qualcosa che prima non c’era. E in questi mondisperimentiamo e impariamo. Sperimentiamo sentimenti e modi di atteggiarci;impariamo cose che possono succedere, tipi di personaggi, forme d’azione,intenzioni e motivi; e apprendiamo modi per collegare tutto ciò: cioè schemidi trame, ovvero modi di interpretare le forme molteplici delle relazioni cheesistono fra gli esseri, gli accadimenti, le situazioni e le cose. Tutto ciò nonlascia chi vi sia coinvolto uguale a sé stesso (Jedlowski 2005: 153).

La lettura simpatetica proposta da Nussbaum e quella rappresentativa (o costruttiva) delineata da Todorov sono profondamente ancorate a questa idea di narrazione: un’attività di certo presente all’interno dei sistemi dell’istruzione – anche grazie all’uso delle opere letterarie nell’insegnamento linguistico, – ma assai più frequente nella vita quotidiana di chi, per scelta e sulla base di bisogni personali, frequenta le biblioteche pubbliche, acquista e conserva libri propri (di carta o digitali), li regala agli amici, e dopo averli letti (o anche prima) ritiene importante parlarne con qualcuno o, addirittura, scriverne. Anche le scuole, come aveva già notato Bruner in The Culture of Education (1996) dovrebbero «coltivare la capacità narrativa, svilupparla, smettere di darla per scontata» (2001: 55), ma è evidente che si tratti di un lavoro ancora da fare, se anche Remo Ceserani nella sua Guida allo studio della letteratura nel 1999 scriveva che proprio la scoperta del valore cognitivo della narrazione da parte di psicologi e antropologi «dà d’improvviso alla letteratura, che del raccontar storie si nutre, uno spazio di straordinaria importanza nella nostra vita mentale, e anche sociale e culturale (che forse noi studiosi di letteratura non ci saremmo aspettati), ma anche una notevole responsabilità» (202). E se, negli ultimi vent’anni, non sono mancati metodi didattici che hanno preso sul serio questo ruolo delle storie nei sistemi educativi – basti citare il metodo dell’orientamento narrativo sviluppato da Federico Batini (2011) dalla fine degli anni Novanta3, – così come è stato compiuto un enorme sforzo di aggiornamento nell’ambito della teoria letteraria e dell’insegnamento universitario – penso soprattutto alla convincente proposta di un «syllabus bioculturale», ovvero di un curriculum di studi letterari e umanistici fondato su basi biologiche, formulata da Michele Cometa in Perché le storie ci aiutano a vivere (2017: 60) e poi in Letteratura e darwinismo (2018) – ancora siamo lontani dal riuscire a rinnovare le pratiche di lettura all’interno della scuola secondaria, adeguandole a quell’idea di apprendimento esperienziale delineata sopra. Probabilmente ha ragione lo stesso Cometa (2017: 60) quando esprime dubbi sulla possibilità di un rinnovamento dell’attuale sistema dei saperi e, in particolare, dell’area degli studi umanistici, ma occorre riconoscere che non è possibile pensare oggi alla didattica della letteratura senza ripartire proprio da quella «svolta bioculturale» che spinge gli umanisti a interrogarsi sulla letteratura come «comportamento narrativo» (Cometa 2019: 28), sul suo significato cognitivo, sul suo ruolo nello sviluppo della persona e, quindi, sulle sue potenzialità educative.

Negli ultimi anni anche la teoria letteraria in Italia ha cominciato ad affrontare la questione del significato biologico della narrazione e della letteratura. Il presupposto di questo interesse sta nel riconoscimento che la narrazione può essere a pieno titolo considerata un “comportamento” tipico della specie Homo sapiens, non foss’altro perché è un fenomeno che riguarda tutta la specie (in tutte le latitudini e a tutte le altezze cronologiche) e può essere considerata nel quadro delle attitudini cognitive che hanno permesso agli umani di costruire una nicchia ecologica che è il prodotto dell’interazione tra evoluzione biologica e costruzioni culturali.

Questa attitudine narrativa dell’Homo sapiens, la cui funzione ha a che fare palesemente con lo sviluppo cognitivo, con l’interazione sociale tra i membri della specie (sia sul piano filogenetico sia su quello ontogenetico) e con la realizzazione di manufatti e media (dal più semplice strumento litico alle più complesse tecnologie) è ciò che sta alla base della produzione letteraria propriamente detta, anche se ciò non si limita ad essa. Per questo il comportamento narrativo viene ormai rubricato come il naturale trait d’union tra l’evoluzione biologica dell’Homo sapiens e la creazione letteraria delle ere storiche e ci sono buoni motivi per credere che esso abbia dato un vantaggio adattivo agli umani (Cometa 2019: 27-28).

È utile, in questa direzione, recuperare la lezione di Jean-Marie Schaeffer e dei suoi studi sull’esperienza estetica (2009; 2015), nei quali il teorico della letteratura ricorre proprio al contributo delle scienze cognitive per spiegare la relazione tra opera d’arte e conoscenza. Premesso che «i modi di attivazione della potenzialità cognitiva delle opere d’arte non dipendono tutti dall’attivazione estetica» (Schaeffer 2009: 21) e che, per esempio, è possibile leggere un racconto del Decameron per acquisire informazioni sulla società mercantile del Medioevo, è evidente che «la situazione dell’arte prototipica è quella di un artefatto che propone, sia come finalità principale, sia come mezzo per una finalità altra, un’attivazione estetica dell’attività cognitiva» (21). Nel caso specifico dell’esperienza della fruizione di opere finzionali – scritte o visive, – per capire il suo valore cognitivo, continua l’autore, «occorre interessarsi al suo modo di ricezione specifico e ai processi mentali che ci danno accesso all’universo finzionale, dunque all’immersione e alla simulazione» (25):

Noi sperimentiamo in effetti la finzione nella modalità dell’immersione, grazie a un processo di simulazione che mette in una situazione nella quale le frasi del testo o le immagini dello schermo inducono nella nostra mente la rappresentazione di un universo di azioni e avvenimenti che noi viviamo dall’interno. Se la finzione deve avere un valore cognitivo proprio, esso deve essere legato alla specificità di questo processo.

Ora, le cose stanno proprio così. Poiché la conoscenza finzionale è una conoscenza vissuta nella modalità dell’esemplificazione virtuale in situazione immersiva in degli universi attanziali, le conoscenze più importanti che essa ci consegna non dipendono da conoscenze proposizionali o dichiarative. Queste sono dell’ordine del saper-fare, di una conoscenza pratica che arricchisce il ventaglio del nostro repertorio di valutazione emotive e morali delle situazione intramondane. […] Questa conoscenza, piuttosto che essere formulabile sotto forma di regole o di norme, ci dà delle possibilità più ricche di conoscenza di noi stessi (Schaeffer 2009: 26).

Si tratta, come già evidenziato da Jedlowski (2005: 153), di un apprendimento esperienziale, pratico, implicito, basato sul meccanismo evolutivo dell’imitazione (Scaglioso 2008: 214). Schaeffer (2009: 26) parla di un «apprendimento per simulazione immersiva», una sorta di apprendistato cognitivo (Collins-Brown-Newman 1995) che può essere proficuamente affiancato al metodo Suzuki così come è stato studiato e inquadrato teoricamente da Carolina Scaglioso (2008): un metodo per imparare a suonare uno strumento musicale secondo processi analoghi a quelli con cui si apprende il linguaggio, ovvero attraverso l’imitazione dell’adulto e la cooperazione e l’interazione con i pari nell’orchestra.

Il metodo Suzuki, detto della madre lingua, si propone di sviluppare la capacità di “parlare” attraverso uno strumento, proprio allo stesso modo di come il bambino, attraverso l’ascolto, l’imitazione, la continua conferma e gli stimoli dell’adulto e del gruppo dei pari, comincia a trasformare le sue prime sillabe in parole. Alla base della metodologia c’è il principio dell’imitazione. Come il genitore offre ripetutamente al bambino lo stesso repertorio di suoni e parole (e piano piano il bambino comincia a distinguerle e poi a ripeterle), allo stesso modo l’insegnante del metodo Suzuki proporrà una serie di interventi sistematici e intenzionali, decifrando il messaggio musicale per renderlo comprensibile e accessibile.

Lontano dall’intento di formare dei musicisti precoci e dal trattare le competenze musicali come competenze tecnico-professionali, questo metodo, che tratta la musica come un linguaggio che nasce dalla pratica e che è finalizzato a facilitare l’acquisizione da parte del bambino di competenze trasversali e metacognitive (Scaglioso 2008: 209-220), può essere associato all’idea di Todorov di guardare, anziché al modello di lettura offerto dalla critica letteraria, alle pratiche quotidiane di lettura delle opere letterarie e al modello offerto dal lettore comune. Anche la lettura delle opere letterarie, infatti, è una pratica che si acquisisce attraverso l’imitazione degli adulti, i quali possono fare da mediatori attraverso la lettura ad alta voce e, soprattutto, si mostrano al bambino durante l’attività di lettura, parlano dei libri che hanno letto, li conservano nelle librerie, frequentano le biblioteche, regalano libri, eccetera. A scuola, soprattutto a partire dalla scuola secondaria, quando si cominciano a introdurre le opere della tradizione allo scopo esplicito di fare educazione letteraria (Giusti 2014: 41), si privilegiano pratiche di lettura basate sulla fruizione individuale (lettura silenziosa) e sull’esercizio di abilità di comprensione e di analisi testuale che non tengono in considerazione l’esperienza estetica, ovvero, prendendo a esempio il caso delle opere finzionali o narrative, non richiedono di compiere quel percorso di simulazione e immersione che solo consentirebbe un apprendimento per simulazione immersiva (Schaeffer 2009: 26), sperimentale, capace di cambiare in profondità il soggetto, il suo stesso apparato percettivo (Todorov 2008: 70).

D’altronde, se da parte di alcuni teorici della letteratura sembra oggi auspicabile un insegnamento letterario che, per usare le parole di Schaeffer (2014) – anziché insegnare «la conoscenza della letteratura», si preoccupi di «attivare prima di qualsiasi altra cosa la scrittura “letteraria”, come particolare tipo di accesso alla realtà» (Schaeffer 2014: 23), non è ancora chiaro quali sia la strada da perseguire per cambiare effettivamente la didattica. Per cominciare, sarebbe urgente e importante mettere in atto pratiche di lettura in grado di sollecitare l’attivazione delle opere letterarie in quanto narrazioni che devono necessariamente passare attraverso il corpo del lettore, il quale deve immergersi nel testo e riempirlo della propria esperienza (Raimondi 2007: 11). Il ricorso sistematico e intensivo alla lettura ad alta voce fino a farla diventare una pratica quotidiana e routinaria, per esempio, prima ancora di essere un viatico alla lettura individuale è una pratica che, favorendo l’immersione nelle storie, produce di per sé effetti positivi sugli studenti, i quali possono sviluppare la loro capacità di immaginazione narrativa, allenare l’empatia, la capacità di gestire le emozioni e di gestire lo stress (Batini 2018). Altrettanto importante è dare spazio, a scuola, alla lettura come «arte personale» (Atwell 2007: 10-11), fondata sulla libera scelta di opere messe a disposizione in una biblioteca di classe, come previsto dalle diverse declinazioni del metodo del Writing and Reading Workshop elaborato nell’ambito del Teachers College della Columbia University e di recente importato in Italia (Poletti Riz 2017; Golinelli-Minuto 2019). Bruno Falcetto, consapevole della dimensione psicologica e sociale dell’esperienza della lettura, invita a favorire pratiche fondate su «la fruizione estetica di un testo letterario» (Falcetto 2011: 120), e propone anche strategie per una «didattica reattiva», capace di agire «sull’immagine della lettura che giorno per giorno gli studenti si formano» (126). L’idea di creare delle «zone di lettura libera» o «ZLL» (Falcetto 2011: 130) riecheggia la metafora della «zona di lettura» (The Reading Zone) proposta da Nancie Atwell (2007) in uno dei libri fondamentali per la teoria e la pratica del Writing and Reading Workshop. Per Atwell (2007: 20-25) la zona di lettura è sia la situazione didattica dedicata alla lettura libera nella scuola, sia lo spazio e il tempo dell’esperienza estetica, una sorta di «stato di lettura» (Atwell 2007: 21), il luogo virtuale in cui il lettore si sprofonda e, per un certo periodo di tempo, scompare. La lettura in comune e la lettura individuale devono essere comunque promosse, nella scuola primaria e secondaria, in quanto esperienze concrete– che si compiono in situazioni date, in ambienti che devono essere adeguati – e, anche, se non soprattutto, in quanto esperienze simulate o mediate, che si svolgono, come ormai abbiamo imparato dall’introspezione e dalle neuroscienze, nel corpo del lettore (Gallese 2013; Cometa 2017: 263-264). Se attraverso il controllo dell’ambiente di apprendimento, infatti, possiamo favorire lo sviluppo di abitudini di lettura e rendere più efficace l’esperienza estetica, è proprio grazie a quest’ultima che possiamo riuscire a mettere a frutto tutte le potenzialità dell’incontro con quel particolare tipo di discorso narrativo che è l’opera letteraria. In questo senso, il ricorso a metodologie didattiche centrate sul soggetto e sui processi cognitivi, come per esempio l’apprendistato cognitivo e l’apprendimento collaborativo (Scaglioso 2008: 184-208), entrambe fondate sull’interazione sociale e sull’autovalutazione, è la condizione necessaria affinché si possa, in ambito scolastico e quindi con la mediazione del docente, assegnare un ruolo centrale a pratiche di lettura che potremmo definire “creative”, poiché, della lettura, intendono mettere a frutto il suo potere più noto e tuttavia bistrattato: il potere di trasformare il lettore, di ricrearlo. Come nel metodo Suzuki o nel Writing and Reading Workshop, leggere può diventare prima di tutto una routine e un comportamento esperto, fluido, uno stile di vita.

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Nota

1 In inglese “cant”, un concetto che Rorty a sua volta recupera da Harold Bloom, secondoil quale il gergo è il «linguaggio fitto di luoghi comuni carichi di ipocrisia, il vocabolarioparticolare di una setta o conventicola» (Bloom 2001: 17).
2 Nell’originale si legge «It is instead a matter of finding oneself transported, moved to aplace from which a different prospect is available» (Rorty 2001: 245).
3 L’orientamento narrativo è un metodo di orientamento sviluppatosi in Italia dalla fine deglianni ’90 che si pone la finalità di sviluppare, attraverso la produzione e la fruizione di testinarrativi, le competenze di auto orientamento utili all’esercizio di un maggiore controllo e diun maggior potere sulla propria vita e sulle proprie scelte (Batini-Giusti 2008).
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