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Sette note non filologiche al Parlamento di Ruzante1

Luca D’ONGHIA
Scuola Normale Superiore, Italia

Sette note non filologiche al Parlamento di Ruzante1

Versants, vol. 2, núm. 69, pp. 61-74, 2022

Universität Bern

Sommario: L’articolo propone una serie di note di approfondimento relative ad alcuni luoghi o aspetti problematici del Parlamento di Ruzante, cercando di metterne in luce volta per volta la complessità storico-letteraria e culturale.

Parole: Ruzante, Parlamento, teatro dialettale, intertestualità, realismo.

Un contadino torna dalla guerra lacero e sporco, ancor più povero di quando è partito. L’esperienza del campo lo ha fiaccato e disilluso fino al cinismo, e il distacco dal suo mondo prevedibile ed eterno lo induce ora a dubitare della propria stessa esistenza (e se io non fossi io?, e se in realtà fossi morto? – si chiede entrando in scena). Solo ritrovando la moglie, che in sua assenza si è allontanata da casa, potrà riscattare la propria identità e riadagiarsi nella vita di prima: eccolo dunque in cerca della donna per le strade di una metropoli quasi sconosciuta (Venezia), dove si imbatte prima nel compare Menato, che lo interroga sulla sua vita di soldato, e quindi proprio nella moglie Gnua, che lo liquida come un accattone e lo fa bastonare a sangue dal suo nuovo protettore.

Questa – a metà tra Il ritorno di Martin Guerre e Bubu di Montparnasse – è la trama del Parlamento di Ruzante, testo integralmente dialettale che sta ai vertici della drammaturgia italiana cinquecentesca, anche per via di un realismo spietato che ha pochi termini di confronto nella nostra intera tradizione. Da qualche tempo ne sto preparando una nuova edizione commentata, e vorrei fermarmi qui su alcuni punti del dialogo con una serie di rilievi non filologici (cioè non attinenti alla fissazione del testo e al suo scrutinio linguistico) in grado – così mi auguro – di rivelarne la complessità e la ricchezza in termini di stratificazioni letterarie e culturali.

Datare, non datare, datare due volte

Secondo Giorgio Padoan l’avventura militare di Ruzante-personaggio nel Parlamento va collocata sullo sfondo della guerra della Lega di Cognac (1528-1529): la prova regina sta in una battuta di Menato che allude al passaggio del cardinal Francesco Pisani (1494-1570) per Padova, tra il maggio e il giugno del 1529 (Ruzante 1981: 121-123). Ne discende che il testo, «composto sicuramente verso la fine del 1529, fu con ogni probabilità recitato nel carnevale del 1530» (Padoan 1969: 266). I grandi ruzantisti precedenti, Emilio Lovarini e Ludovico Zorzi, avevano identificato il cardinale in questione con Marco Cornaro (1482-1524), assegnando dunque le vicende del Parlamento ai tardi se non ai medi anni Dieci, data anche l’evocazione della sconfitta subita da Bartolomeo d’Alviano alla Motta di Vicenza nell’ottobre del 1513 (cfr. Zorzi in Ruzante 1967: 1371-1372 e Lovarini 1943: 82-83).

In realtà Ruzante si spinge ancor più indietro, e discorrendo con il compare rievoca il paesaggio spettrale – «se no çielo e uossi de morti» ‘solo cielo e ossa di morti’ (Ruzante 1981: 121) – che ha visto nei pressi della Ghiaradadda, dove il 14 maggio 1509 Venezia aveva subito una disfatta epocale. Si sa che nel Parlamento Beolco ha dato una delle migliori prove di immedesimazione nella mentalità del villano, restituita in modo straordinariamente acuto e dolente nel suo essere fuori dalla storia, e mi pare che questo elemento abbia precisi riflessi anche sulla considerazione del problema che stiamo discutendo. Credo cioè che per un testo come il nostro non sia illegittimo parlare di una doppia datazione: da un lato quella ‘esterna’, riferibile al lasso di tempo preciso durante il quale l’autore ha concepito e composto il Parlamento (e qui abbiamo l’ipotesi di Padoan); dall’altro quella ‘interna’, che segue e mima il tempo percepito dal contadino, agli occhi del quale tutte le guerre sono uguali e la pace è perduta per sempre almeno dal 1509 (di quel disastro il Ruzante-personaggio ha certo sentito parlare innumerevoli volte).

Va valorizzata in tal senso l’osservazione di Zorzi che «il Beolco evita [...] di fermare il suo personaggio al limite di un evento circoscritto» (Ruzante 1967: 1371, e vedi anche Ferguson in Ruzante 1995: 95); ma meglio di tutti, e proprio per il Parlamento, Dante Della Terza ha parlato persuasivamente di «un fenomeno di contemporaneizzazione del passato» (Della Terza 1980/1981: 226). Il contadino Ruzante si comporta insomma come gli anonimi cantori piemontesi che a partire dai nomi dei garibaldini Monti e Tognetti, giustiziati a Roma il 24 novembre 1868, ricavavano un apparentemente incongruo «Morta Antonietta», con allusione alla regina sfortunata della Rivoluzione francese (Beccaria 1989: 275-276): la guerra che il villano ha combattuto è una guerra precisa e allo stesso tempo sono tutte le guerre che hanno sempre fatto strame dei miserabili come lui. Così, nel 1529 le ombre dei disastri del 1509 e del 1513 sono ancora più dense che mai, e si allungano sul testo senza alcuna contraddizione interna, tanto più in termini di resa della mentalità contadina.

2. Ruzante e Sosia

Un libro recente di Isabella Valeri ha ricostruito con dovizia di particolari la complessità e la densità dei rapporti di Ruzante con i testi di Plauto (Valeri 2020): un rilievo non secondario spetta in questo quadro all’Amphitruo, mai assunto a modello principale come càpita con la Rudens e l’Asinaria (‘rifatte’ rispettivamente nella Piovana e nella Vaccaria), ma riutilizzato qua e là in molte delle opere di Beolco (Valeri 2020: 155-159; per la prima fase della fortuna rinascimentale dell’Amphitruo vedi Guastella 2018). È soprattutto la situazione di Sosia all’inizio della tragicommedia plautina ad accendere l’attenzione di Ruzante: il servo infastidito e pavido che cammina nel cuore di una notte innaturalmente lunga, destinato allo sconcertante incontro con il proprio doppio, ha qualcosa del villano, sprovveduto e furbo assieme, sempre incerto sulla propria identità, che campeggia al centro della produzione beolchiana fin dalla Pastoral. I dubbi radicali che il Ruzante reduce espone nel proprio monologo iniziale sono analoghi a quelli cui è costretto Sosia dopo lo scontro con Mercurio:

A’ son chialò, mi, a la segura, e squase che a’ no cherzo esserghe gnian. S’a’ m’insuniasse? La sarae ben de porco! A’ sé ben ch’a’ no m’insunio. Po’, non songie montà in barca a Lizafusina? A’ son stò pur a Santa Maria d’un bel Fantin a desfar el me vò. Se mi mo no foesse mi? e che a’ foesse stò amazò in campo? e che a’ foesse el me spirito? La sarae ben bella (Ruzante 1981: 107)2.

Accidenti! Forse che non sono Sosia, schiavo d’Anfitrione? E non è forse venuta dal porto Persiano la nave che m’ha portato qua questa notte? Non m’ha forse mandato qua il mio padrone? E adesso, non sto forse davanti alla nostra casa? non ho in mano una lanterna? non parlo? non sono sveglio? non mi ha forse massacrato coi suoi pugni quest’uomo? Lo ha fatto, per Ercole! Ho le mascelle ancora indolenzite, povero me! Perché dunque dovrei dubitare? perché non dovrei entrare in casa nostra? (Plauto 2019: 141, vv. 403-409).

Ma anche il fatto che Sosia torni dalla guerra, dove non ha certo brillato per valore, e tracci un quadro vivacissimo della battaglia non è forse insigni- ficante rispetto a taluni passaggi del resoconto di Ruzante nel Parlamento:

Se dirò delle fandonie, seguirò, al solito, le mie abitudini: in realtà, quando gli altri erano nel pieno della battaglia, io ero nel pieno della fuga. [...] Finite le trattative, da una parte e dall’altra squillano le trombe; la terra fa eco, da entrambe le schiere si levano le grida di guerra. In entrambi i campi, di qua come di là, i generali fanno voti a Giove; nell’uno e nell’altro si incitano i soldati. Ciascuno per parte sua fa mostra di ciò che può e vale; ciascuno mena gran colpi con le armi; si spezzano le lance; il cielo rimbomba per le grida degli uomini; il fiato, il respiro affannoso forma una densa nube; gli uomini cadono sotto la violenza dei colpi (Plauto 2019: 121 e 123-125, vv. 197- 199 e 227-234).

[...] Trelarì, schiopitti, balestre, freçe; e te vi’ quel to compagno morto amazò, e quel altro amazarte a pé. E com te crì muzare, te vé int’i nemisi; e uno che muza, darghe un schiopettò in la schina. A’ ve dighe che ’l ha gran cuore, chi se mette a muzare. Quante fié criu che a’ m’he fatto da morto, e sì me he lagò passar per adosso cavagi? A’ no me sarae movesto, ch’i m’aesse metù adosso el monte de Venda! [...] (Ruzante 1981: 117)3.

Proprio la scena iniziale dell’Amphitruo ha del resto lasciato tracce cospicue anche in una commedia cronologicamente prossima al Parlamento, la Moschetta, composta a cavallo tra anni Venti e Trenta (cfr. D’Onghia in Ruzante 2010: 70-74).

3. Suggestioni erasmiane

È merito di Eugenio Battisti l’aver indicato una indiscutibile fonte del Parlamento nella Confessio militis di Erasmo, che fa parte del più antico nucleo dei Colloquia (Battisti 1962: 305-308; Erasmo da Rotterdam 2002: 74-81)4; più di recente Mauro Canova ha fatto luce sul circolo erasmiano di Padova, composto da persone talvolta molto vicine a Ruzante: spicca Antonio Francesco Dottori, giurista e professore dello Studio, parente e commissario testamentario di Giovan Francesco Beolco (padre di Ruzante), e in stretti rapporti con Friedrich Grau detto Nausea, vescovo di Vienna dal 1541 e aperto ad alcune delle istanze riformate (Canova 2017)5. Sempre Canova ha detto benissimo che «Ruzante pare sedotto dalla struttura del dialogo erasmiano, specie dove questo è incalzante, serrato, crudo e ironico. È probabile che la lettura della Confessio inneschi [...] l’idea di mettere in scena un reduce tornato dalla guerra sconfitto nel corpo e nello spirito aggiungendo, in modo geniale, uno spietato confronto con la moglie (in Erasmo solo accennato)» (Canova 2017: 45).

Si è osservato che sul Parlamento influisce evidentemente la prima parte della Confessio (quella incentrata sulla guerra), mentre la seconda parte, di tema religioso, non avrebbe lasciato tracce nel testo ruzantiano. Fin dal monologo d’apertura di Ruzante s’incontra in realtà un tema toccato anche nella seconda metà della Confessio, un tema carissimo a Erasmo e spesso presente nei Colloquia: quello della credulità popolare e dell’abuso dei voti. Ruzante dichiara infatti di essersi appena recato a sciogliere un voto: «A’ son stò pur a Santa Maria d’un bel Fantin a desfare el me vò» (‘Sono pur stato a Santa Maria di un bel Fantino a sciogliere il mio voto’ [Ruzante 1981: 107]). Facile ipotizzare che si tratti di un voto fatto per salvarsi la vita in battaglia, come viene confermato più avanti:

Oh, compare, s’a’ fossé stò on’ son stato io mi, aessé fatto an pì de quattro de g’invò. Che criu che sipia a esser in quel paese? Che te no cognussi negun, te no sé don’ andare, e che te vi’ tanta zente che dise: «Amaza, amaza! Daghe, daghe!» (Ruzante 1981: 117)6.

Insomma, se serve, i voti si possono moltiplicare a piacere. Analogamente, nella Confessio militis Trasimaco replica a Hanno di non aver mai temuto per la propria anima e per la propria vita, affidate senza esitazioni prima a santa Barbara e poi a san Cristoforo:



TRASIMACO: [...] Avevo nell’animo una grande speranza: mi ero raccomanda-
to una volta per tutte a santa Barbara.
HANNO: E lei si era impegnata a proteggerti?
TRASIMACO: Mi è sembrato che annuisse un po’ col capo.
HANNO: Quando ti è sembrato di vederlo? Di mattina?
TRASIMACO: No, dopo cena.
HANNO: Ma allora, avrai visto anche gli alberi che camminavano.
TRASIMACO: Ma lo sai che indovini proprio tutto? La mia massima speranza,
però, era riposta in san Cristoforo, la cui immagine guardavo tutti i giorni
(Erasmo da Rotterdam 2002: 79).

Allo stesso tema è del resto interamente dedicato un altro dei colloqui più antichi, De votis temere susceptis (Erasmo da Rotterdam 2002: 58-65), e un eloquente cenno al medesimo problema affiorava anche nel precedente Male valere: qui, di fronte all’idea di Giorgio di provare a liberarsi dalla malattia «facendo voti a un qualche santo», Livinio dà voce alle istanze autoriali e replica seccamente: «io non contratto con i santi» (Erasmo da Rotterdam 2012: 29).

Un discorso a parte potrebbe riguardare anche eventuali spunti provenienti da altri colloqui (è infatti improbabile che Ruzante conoscesse la sola Confessio). Per esempio l’accoglienza impietosa che Menato riserva a Ruzante, insistendo sulla sua brutta cera e sulle sue magagne fisiche (Ruzante 1981: 109), ha almeno un altro paio di riscontri oltre a quello offerto dalla Confessio:



GIORGIO: Da quale grotta sbuchi?
LIVINIO: Perché dici così?
GIORGIO: Perché sei messo male. Sei magro che ti si vede attraverso, sei uno
scrocchiazeppi. Da dove vieni?
LIVINIO: Dal collegio di Montaigu.
GIORGIO: Sarai carico di cultura.
LIVINIO: No, sono carico di pidocchi.
GIORGIO: Una bella compagnia. (Erasmo da Rotterdam 2012: 23, Percontandi forma in primo congressu)



ARNOLDO: Non speravamo più che tornassi. Dove hai vagabondato per tutto
questo tempo?
CORNELIO: All’inferno.
ARNOLDO: In effetti, potrebbe darsi: sei irsuto, magro e pallido.
CORNELIO: A dire la verità, torno da Gerusalemme, non dalle viscere della
terra (Erasmo da Rotterdam 2012: 59, De votis temere susceptis).

Non meno interessante, tra le altre formule di saluto (Alia), l’accenno di Balbo al francese imparato durante i propri viaggi, dato che anche Ruzante si vanta di aver appreso quella lingua al campo militare (Ruzante 1981: 109):



CLAUDIO: Parli bene il francese, adesso?
BALBO: Così così.
CLAUDIO: Come l’hai imparato?
BALBO: Dai meno taciturni dei maestri.
CLAUDIO: Quali?
BALBO: Le donne, che sono più loquaci delle tortore.
CLAUDIO: È un gioco in cui si impara bene a parlare. Ha un suono elegante
la lingua francese?
BALBO: È come il latino, con accento francese (Erasmo da Rotterdam 2012: 39).

Può anche darsi che si tratti di consonanze poligenetiche, ma la nota idea di Segre sulla vischiosità della memoria letteraria (Segre 1966: 57) invita a guardare anche nei paraggi della Confessio alla ricerca di altri possibili riscontri.

4. Contadini o selvaggi? (da Ruzante a Montaigne)

Durante la lunga sequenza centrale del Parlamento – dopo il monologo d’ingresso di Ruzante, e prima dell’incontro con Gnua – Menato interroga il compare, con aria tra il sarcastico e il perplesso, sulla sua esperienza militare (Ruzante 1981: 109-125). Quando Ruzante riferisce di essersi spinto fino alla zona della Ghiaradadda, Menato interloquisce così:



MENATO: Cancaro! A’ sì stò fieramen in là. A che muo’ favélegi in quel paese? Se inténdegi? Ègi uomeni com a’ seom nu? de carne – intendiu? – com a’ seom nu?
RUZANTE: Gi è uomeni de carne, com a’ seom nu. E sì favela com a’ fazom nu, mo malamen, com fa sti megiolari de fachinaria che va con le zerle per la villa. Tamentre gi è batezé, e sì fa pan com a’ fazom nu, e sì magna com a’ fazom nu. E sì se marìa e fa figiuoli, puorpio com a’ fem nu. A’ se inamóregi, an: mo l’è vero che sta guerra e soldé gh’ha fatto andare l’amore via dal culo (Ruzante 1981: 121)7.

Non c’è dubbio che qui Beolco giochi a riprodurre (e in parte a deridere) la mentalità dei suoi contadini, per i quali i confini del mondo noto sono sostanzialmente quelli della Serenissima Repubblica: così, le domande di Menato rispecchiano con iperbole solo in parte comica la ristrettezza del suo universo (l’attuale Lombardia può apparirgli come un paese favolosamente lontano, abitato da uomini non necessariamente simili a quelli che abitano il Pavan). Ma c’è di più: agli occhi del pubblico e dei lettori del Parlamento le domande di Menato e le risposte di Ruzante alludono (forse anche parodicamente) a un tipo discorsivo ben preciso, ossia il resoconto dei viaggi transoceanici. Messi dinanzi alla radicale diversità di paesaggi, cose e abitudini, i viaggiatori cercavano di descrivere infatti quanto avevano visto ricorrendo in continuazione al paragone con il loro mondo, e cioè con paesaggi, cose e abitudini europei (cfr. Bozzola 2020: 7-10, 25-28, 30-35); allo stesso modo Menato chiede a Ruzante se gli uomini che s’incontrano «fieramen in là» siano uomini «com a’ seom nu», ottenendo una risposta rassicurante (e per il lettore odierno di tenore quasi antropologico): quegli uomini parlano male, d’accordo (cioè usano i dialetti lombardi orientali), ma fanno il pane, si sposano e figliano proprio ‘come noi’.

Nelle parole di Ruzante si coglie così, in certo modo di sbieco, la radice dell’atteggiamento che produrrà, al culmine della propria autoconsapevolezza, le famose osservazioni di Montaigne sui cannibali: «Ora io credo, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito: se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi. Sembra infatti che non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo» (Montaigne 2016: 190).

5. Gnua e lo stalliere del cardinale (da Ruzante al Lazarillo)

Tra i personaggi femminili ruzantiani Gnua è forse il più potente: in lei non si hanno solo la malizia e la disinvoltura sessuale di Betìa nella Moschetta, né solo la cinica e prudente difesa delle proprie ragioni pratiche messa in atto da Dina nel Dialogo secondo (dove la giovane non ha però il coraggio di affrontare il marito, e anzi lo illude finendo per fomentarne la ferocia); Gnua ha la pelle dura, ha patito la fame, si è dovuta arrangiare passando di uomo in uomo, e non esita a teorizzare con logica crudele che potrebbe persino tornare con il marito e volergli bene, se solo lui non fosse il disgraziato e il poveraccio che è8.

Come si desume da una battuta di Menato, dopo la partenza del marito la donna ha attirato (e subìto) le attenzioni erotiche del compare, ma lo ha poi piantato in asso per «no so che famigi de stalla del Sgardenale, lì a Pava» (‘non so quali stallieri del Cardinale, lì a Padova’), passando infine a Venezia dove ha preso a frequentare i bassifondi abitati da bravi e galeotti (Ruzante 1981: 121-123). Se ne ricava, come soprattutto Ferguson ha messo in luce, che Gnua è ora la protetta di qualche mammasantissima, e non è inverosimile che si prostituisca lei stessa, abitando il mondo notturno e violento in cui è ambientata gran parte della letteratura ‘alla bulesca’ (cfr. Ruzante 1995: 14-16 e 97, nonché Da Rif 1984).

Ma è sui «famigi de stalla» del cardinal Pisani che vorrei fermarmi: per- ché il dettaglio dice qualcosa dell’infallibile senso del reale che guida Beolco anche nei minuti particolari. Non è infatti un caso che, volendo sottrarsi alla servitù sessuale del compare, e trovandosi con ogni evidenza in difficoltà economiche, Gnua si accompagni a uno degli stallieri della famiglia cardinalizia: gli stallieri hanno accesso all’acqua, al cibo, ai finimenti delle bestie e probabilmente anche alle cucine del palazzo, e possono dunque garantire il sostentamento alle loro amiche. Di recente, in polemica con una certa deriva ‘impegnata’ degli ultimi trent’anni, Walter Siti ha osservato che certe cose la vera letteratura le ha sempre dette e fatte, «da Lazarillo de Tormes e Ruzante fino a Manzoni e Pasolini e Solženicyn» (Siti 2021: 35)9; ed ecco che quasi a inverare il primo accostamento proprio il Lazarillo ci porge, nel capitolo iniziale, la stessa situazione appena vista nel Parlamento: la madre del protagonista, rimasta vedova, si trasferisce in città e comincia appunto «a frequentare le scuderie. Fu così che lei e un uomo scuro di pelle, di quelli che badavano alle bestie, fecero conoscenza. [...] Con la sua venuta i pasti miglioravano [...], perché portava sempre pane, pezzi di carne e d’inverno legna con cui ci scaldavamo» (Lazarillo de Tormes 2017: 115).

Lo stesso scabro realismo vibra attorno a Gnua quando, all’acme del suo scontro con Ruzante, il compare la rassicura sul carattere imbelle del marito, che non avrà il coraggio di mettere in atto le tremende minacce cui si è abbandonato: «Comare, andè via, che el no ve amaçerà» (‘Comare, andate via, perché lui non vi ammazzerà’: Ruzante 1981: 131). La sardonica rassicurazione di Menato umilia una volta di più Ruzante, ma evoca per contrasto situazioni di violenza in cui le mogli infedeli potevano essere picchiate a morte. Di mogli fedifraghe e battute è piena la tradizione novellistica, mentre è abbastanza inusuale che si alluda con tanta ferialità al loro possibile assassinio da parte dei mariti10. È un altro squarcio del ‘verismo’ di Ruzante, che fa correre la mente a certi episodi della letteratura ottoe novecentesca: penso al racconto Ancora? nelle Dodici storie di Corfù di Konstantinos Theotokis, nel quale la violenza dell’arcaica società contadina corfiota del diciannovesimo secolo – morfologicamente non dissimile da quella veneta del sedicesimo – è restituita attraverso il resoconto di un terribile uxoricidio (Theotokis 2018: 65-69)11.

6. Una parola, una (possibile) genealogia

Si è già ricordato che Gnua ha preso a frequentare la teppaglia urbana della capitale: «l’è vegnua chì, a le Veniesie, e sì sta con no so che galiuoti, con brausi, de quisti tagia-canton» (‘è venuta qui, a Venezia, e si accompagna con non so quali galeotti, con bravacci, di questi taglia-cantoni’ [Ruzante 1981: 123]). All’epoca in cui Ruzante la usa (attorno al 1529), taglia-cantoni ‘bravaccio’ è voce nuova o per lo meno recente: le più antiche attestazioni note non risalgono oltre gli anni Venti, ed è probabile la sua irradiazione veneziana, visto che tutti gli esempi più antichi stanno in autori che conoscono bene Venezia o che a Venezia sono stati a lungo (Folengo, Ruzante, Franco, Aretino).

Già prima, per sottolineare che Ruzante ha un’aria tutt’altro che temibile nonostante la stanza al fronte, Menato aveva usato un’altra parola sinonima, per certi versi gemella di taglia-cantoni: «Mo a’ n’aì mo del magnacaenaçi braoso...» (‘Ma non avete proprio l’aria del mangia-catenacci attaccabrighe...’ [Ruzante 1981: 113]). Anche in questo caso l’esempio del Parlamento è tra i più antichi noti, ed è seguito nel corso del secolo da quelli di Aretino, Lando, Del Tufo e Garzoni12. È da notare che tutte e due le parole sono usate dal versatile e ipermimetico Aretino, il quale ha, anche nei confronti del lessico di colorito dialettale, un’attitudine vampiresca: facile ipotizzare che proprio a Venezia abbia captato i due epiteti, rientranti oltretutto nel tipo a lui congeniale dei composti imperativali espressivi.

L’esempio aretiniano di mangia-catenacci sta in una lettera del 1537 che è in buona parte un trattatello paradossale in difesa della viltà militare. Le raccomandazioni di Aretino sono almeno in parte topiche, ma il suo motto che in battaglia è meglio scappare e salvarsi piuttosto che restare e morire da eroi ricorda irresistibilmente le ragioni del Ruzante reduce («A’ ve dighe che ’l ha gran cuore, chi se mette a muzare» ‘Vi dico che ha molto coraggio, chi si mette a fuggire’; o ancora: «A’ ve dighe la verité, mi: e sì me par che chi sa defendere la so vita, quelù sea valent’omo» ‘Vi dirò la verità, io: mi sembra che chi sa difendere la propria vita, quello sia un uomo coraggioso’ [Ruzante 1981: 117]). Il fatto poi che sul finire della lettera Aretino raccomandi al destinatario Battista Strozzi di deporre gli atteggiamenti da Rodomonte lasciandoli ai mangiacatenacci e ai divorapicche giustifica il sospetto che il tono di questa lettera e l’uso di una parola tanto connotata possano dipendere anche dalla conoscenza, magari scenica, del dialogo di Ruzante; né questa sarebbe la sola traccia ruzantiana nella prosa di Aretino (cfr. D’Onghia 2016: 61-62). Ma ecco il testo della lettera – il lettore giudicherà da sé la pertinenza del possibile accostamento:

A messer Battista Strozzi.

[1] Non so quale spettabile viro mi giura che di nuovo il ghiribizzo vi rimena a non so che impresa. [2] State a Coreggio, ser uomo; statici, dico; che, al corpo di me, voi andate cercando ch’io vi squaini un patafio sopra il de- posito sacratovi da due pezzi d’assi. [3] Io mi credeva che la cacaruola di Montemurlo vi avesse fatto savio, e voi scappate più che mai. [4] E ciò causa la sentenzia ciceroniana del trattato del tiranno, la quale è l’ABC di tutti i vostri propositi. [5] Io vi ritorno a dire che attendiate a confabulare con la lira intorno al fuoco de la nostra padrona signora Veronica, spiccando due stanzette dal proviso eroicamente, lasciando girandolare ai girandolini. [6] Io mi trasecolo come nel ritrovarvi a Prato in quel tino di paglia, onde dice- ste al cavallaccio che non sapendo che voi ci foste voleva tor due bocconi: «Io mi rendo». [7] Non faceste boto a quante Nunziate ci sono al mondo di non ragionare mai più né di libertà né di soldo? Orsù! [8] Il diavolo e la pazzia vi tenta e strascina andarvi; e perciò andativi, ma passo passo, dietro a le bagaglie, perché nel Salvum me fac sta l’onore di nosotro, e non nel mettersi a sbaraglio toccando mezza dozzina di ferite, con la giunta di esser tenuto una bestia. [9] Voi sapete che in casa del conte Guido Rangone vi consigliai a non ficcarvi inanzi, faccendovi toccar con mano e coi piedi che l’amazzare e lo stroppiar altri non vi si attribuiria per laude, per non esser voi armorum: anzi ne sarete tenuto a render conto ai piagnoni; ed essendo stroppiata o amazzata la vostra signoria, ognun direbbe: «Ben gli stette!». [10] Sì che, quando sia che ritorniate al pericolo, nel tenere due chiodi per ferro al destriero imitate colui che, bontà del flusso del corpo, tiene ataccate le calze con due stringhe.

[11] E così, rimanendo retroguardia, bravando e rinegando, farete credere a le turbe che guai ai nimici se ’l vostro ronzino non si cavava le scarpe! [12] E caso che la battaglia si vinca, spronando inanzi rimescolativi coi vincitori, e spalancando l’orecchie al «Viva! Viva!», entrate ne la terra a lato ai primi, con faccia gigantea, non pur capitanesca. [13] Succedendo male, arancate, datela a gambe, volate via, perché è meglio per la pelle vostra che si dica: «Qui fuggì il tale», che: «Qui morì il cotale». [14] Gloria a tua posta: come noi siam morti, monna Fama può sonar con la piva e pavane e gagliarde, che nulla sente chi, coronato di lauro, si sta là converso in polvere di Cipri. [15] Né credendo ai miei giudizi, toglietene parere da messer Lionardo Bartoli- no, che altro è che chiacchi bichiacchi. [16] Egli lascia fare a chi è maestro, ridendosi di coloro che sopportano che il ranno caldo gli peli la testa. [17] Io per me non udii mai cervello più destro a crivellar cervelli del suo; né conosco più libero né più discreto amico, né persona che men si diletti di quel d’altri: onde io l’amo, avendo per una bella grazia che ei renda testimonianza de la mia bontà ne la maniera ch’io renderò de la vostra saviezza, purché, di capo di parte vi piaccia diventar coda, contentandovi del nome di poeta, refutando quel di Rodomonte ai mangiacatenacci e ai divorapicche. [18] E con questo ricordetto, bene valete.

Di Venezia, il 16 novembre 1537 (Aretino 1995: 484-487, lettera n° 234).

7. La chiusa del Parlamento come antiprologo

Il Parlamento termina in maniera sconcertante: Ruzante nega di essere stato massacrato dal protettore di Gnua e si rifugia in una incredibile fantasia compensatoria, sostenendo di aver subito l’aggressione di cento e più persone («I giera pì de çento, che m’ha dò!» ‘erano più di cento, quelli che mi hanno picchiato!’ [Ruzante 1981: 133]). A nulla valgono le proteste di Menato, che a più riprese cerca di ristabilire la verità dei fatti: alla fine Ruzante ammette di essere stato tutt’al più vittima di un sortilegio e, elevando la propria inettitudine a virtù strategica, giunge a vantarsi del gran numero di bastonate che ha incassato senza proferire verbo. Il compare è quasi divertito da questa sua passività animale, e il testo si chiude così:

MENATO: Potta! Mo a’ ve la sgrigné, compare, che ’l par che la sipia stà da beffe, e che ’l sipia stò com è le comierie che se fa, o che sipié stò a nozze... RUZANTe: Poh, compare! Che me fa a mi? Oh, cancaro, la sarae stà da riso, s’a’ i ligava! E sì aessè po dito ch’a’ no ve faze pì de le comierie! (Ruzante 1981: 135, l’ultima frase in apparato)13.

Su questo passaggio cruciale grava un dubbio di non poco conto, dato che l’ultimo segmento è tramandato soltanto dalla postuma stampa Alessi del 1551, e manca invece nei due manoscritti di Venezia e Verona. La densità e le implicazioni dell’uscita inducono a credere che si tratti però di una battuta d’autore, magari aggiunta in un secondo momento e non recepita dai testimoni più antichi14: non sembra un caso infatti che proprio sulla parola comierie ‘commedie’, o meglio sul suo rovesciamento, si chiuda l’intero dialogo, con una frase che è per di più volutamente ambigua.

Da un lato, sul piano dell’azione scenica, l’allusione alle comierie intende replicare a Menato, secondo il quale Ruzante si è appena comportato appunto come il personaggio di una commedia, dove tutti se le danno di santa ragione ma è tutta una finta e nessuno si fa davvero male. D’altro canto la frase potrebbe essere intesa come diretta all’uditorio: il villano darebbe al- lora voce a Ruzante auctor, e avvertirebbe gli spettatori che se avesse dato una fine diversa al dramma («s’a’ i ligava» ‘se li legavo’, con l’oltraggio a Gnua e al protettore che sarebbe seguito) gli sarebbe poi stato chiesto – da Menato, ma anche dal pubblico: la quinta persona di aessè è compatibile con entrambe le interpretazioni – di non fare più commedie, o almeno di non far più commedie di quel genere. Ruzante «vede sé stesso con gli occhi del pubblico, cosciente di recitare – in una sorta di continuum prospettico – due volte, per così dire, la stessa commedia, come attore sul palcoscenico e come attore all’interno del proprio personaggio» (Zorzi in Ruzante 1967: 1377).

Forse si può fare un’ulteriore considerazione: il lettore dei testi ruzantia- ni sa che certe parole – qui comieria, che è deformazione del dotto commedia – hanno un preciso valore metapoetico e occorrono per solito nei prologhi, là dove è più esplicito il confronto con i modelli latini e l’autore rende ragione del proprio altissimo artigianato comico con immagini e riflessioni che hanno da tempo attirato l’attenzione degli studiosi (vedi ora Valeri 2020: 21-57). In questo senso la chiusa del Parlamento può essere letta a tutti gli effetti come un vero antiprologo: sta alla fine di un’opera che di prologo è sprovvista, ma del prologo svolge la funzione in maniera fulminea negando recisamente la categoria stessa di commedia: quella subìta dal Ruzante-personaggio è stata infatti tutt’altro che una commedia (le bastonate e l’umiliazione sono autentiche), mentre il Ruzante-autore lascia lampeggiare, con la frase tramandata dalla sola stampa postuma, la propria consapevolezza che il Parlamento non può a nessun patto essere ricondotto al tipo della commedia classica o della farsa.

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Nota

1 Ringrazio per il loro aiuto Federico Baricci, Gabriele Bucchi, Micaela Esposto e Laura Vailati.
2 Traduzione: ‘Son qui, io, al sicuro, e quasi non ci credo di esserlo. Se sognassi? Sarebbe proprio una bella porcheria! So bene che non sogno. Dai, non sono salito in barca a Lizzafusina? Sono pur stato a Santa Maria di un bel Fantino a sciogliere il mio voto. Se io non fossi io? E se fossi stato ammazzato sul campo di battaglia? E se fossi il mio fantasma? Ci sarebbe da ridere’.
3 Traduzione: ‘Artiglierie, schioppetti, balestre, frecce; e vedi quel tuo compagno morto ammazzato, e un altro che ti viene ammazzato a un passo. E quando credi di scappare, ecco che finisci in mezzo ai nemici; e a uno che scappa [vedi che] lo colpiscono con una schioppettata nella schiena. Vi dico che ha molto coraggio, chi si mette a scappare. Quante volte credete che mi sia finto morto, e addirittura mi sono lasciato passare sopra i cavalli? Non mi sarei mosso neppure se mi avessero messo addosso il monte Venda!’
4 Edizioni dei Colloquia accessibili a Ruzante erano apparse a Venezia nel 1522 (Gregorio de’ Gregori) e nel 1525 (Giovanni Antonio Nicolini da Sabbio e fratelli).
5 Canova studia da vicino, tra l’altro, i paratesti del libello erasmiano De octo orationis partium construcione pubblicato a Venezia da Gregorio de’ Gregori nel 1522: di notevole interesse il testo latino in lode della campagna di Pernumia scritto da Nausea e dedicato al Dottori.
6 Traduzione: ‘Oh, compare, se foste stato dove sono stato io ne avreste fatti anche più di quattro, di voti. Che cosa credete che sia trovarsi in quelle terre? Che non conosci nessuno, non sai dove andare e vedi tanta gente che grida «Ammazza, ammazza!», «Colpisci, colpisci!»’.
7 Traduzione: ‘MenatO: Canchero! Siete stato molto in là. In che modo parlano in quelle terre? Si capiscono? Sono uomini come siamo noi? Di carne – capite? – come siamo noi? Ruzante: Sono uomini di carne, come siamo noi. E parlano come noi, ma male, come questa facchinaglia di venditori ambulanti che va con le gerle per le campagne. Eppure sono battezzati, e fanno pane come noi, e mangiano come noi. E poi si sposano e fanno figli, proprio come noi. Si innamorano, anche: ma è vero che questa guerra e i soldati gli hanno fatto andare l’amore via dal culo’.
8 Cfr. per esempio Ruzante 1981: 127: «Aldi, Ruzante: s’a’ cognossesse che te me poissi mantegnire – che me fa a mi? – a’ te vorae bene mi, intiénditu? Mo com a’ penso che te si’ pover om, a’ no te posso veere» (‘Senti, Ruzante: se sapessi che tu mi puoi mantenere – che mi cambia a me? – io ti vorrei bene, capisci? Ma quando penso che sei un poveraccio, non posso sopportare neppure di vederti’).
9 Questo il contesto: «Dagli anni Novanta del secolo scorso sono venute di moda le “autopatografie” [...]; la letteratura si è fatta ecologica nel rivalutare i territori trascurati [...], si è fatta tribunale per correggere le “ingiustizie della Storia”, ricordando vicende trascurate o rimosse. Tutte cose ovviamente che la letteratura ha sempre fatto, da Lazarillo de Tormes e Ruzante fino a Manzoni e Pasolini e Solženicyn».
10 Ma si ricordi, pur nella diversità del tono e del contesto, la seconda ottava del quinto canto del Furioso: «Ch’abominevol peste, che Megera / è venuta a turbar gli umani petti? / che si sente il marito e la mogliera / sempre garrir d’ingiuriosi detti, / stracciar la faccia e far livida e nera, / bagnar di pianto i geniali letti; / e non di pianto sol, ma alcuna volta / di sangue gli ha bagnati l’ira stolta» (Ariosto 2012: 195).
11 Del ‘verismo’ di Ruzante ha parlato anche Bruni (1999: 264-265) sulla base di un pertinente accostamento con Verga.
12 Cfr., anche per la voce precedente, quanto osserva Sansovino (1566: 128r): «quella sorte di gente che si chiamano bravi, e in Lombardia magnacatenacci e tagliacantoni».
13 Traduzione: ‘MenatO: Potta! Voi ve la ridete, compare, che sembra sia stato tutto uno scherzo, e che sia stato come sono le commedie che si fanno, o che siate andato a una festa di nozze... Ruzante: Poh, compare! Che mi importa a me? Oh canchero, ci sarebbe stato da ridere se li legavo [Gnua e il suo protettore]. E a quel punto sì che mi avreste detto di non farvi più delle commedie!’.
14 Ferguson ha osservato in proposito che la frase «appears to be a wry riposte by Beolco to negative audience reaction to the Veteran’s disquieting finish. An optional ending to be used at the discretion of the director» (Ruzante 1995: 99).
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