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La presenza della Celestina nelle commedie di Luigi Groto, Liquidi e Ruzante
La presenza della Celestina nelle commedie di Luigi Groto, Liquidi e Ruzante
Versants, vol. 2, núm. 69, pp. 91-111, 2022
Universität Bern

Sommario: L’articolo mostra come la commedia Il Tesoro (1583) di Luigi Groto, il Cieco d’Adria, rappresenti uno degli esempi più fulgidi della fortuna della Celestina nel teatro italiano del Rinascimento. Una fortuna che è stata per lo più negata dalla critica, ma di cui invece si rilevano tracce evidenti in una “linea veneta” di personaggi di ruffiane comiche che muove da Ruzante per arrivare fino a Groto, passando per il teatro della “scuola d’i Liquidi”. Proprio questi esempi veneziani di primo e medio Cinquecento guidarono il Cieco (autore pienamente inserito nel contesto teatrale veneto) verso il tardo repêchage del testo spagnolo.
Parole: Groto, Celestina, Ruzante, Liquidi, Ruffiana.
I. Diffusione e fortuna veneta di un capolavoro del teatro spagnolo.
La Tragicomedia de Calisto y Melibea di Fernando De Rojas, meglio nota come La Celestina, è uno dei capolavori del teatro umanistico spagnolo ed europeo. Il titolo vulgato discende dal nome della vecchia Celestina, personaggio memorabile al confine tra la ruffiana, la levatrice di orfane e la strega, che nell’opera propizia la relazione extramatrimoniale tra i giovani Calisto e Melibea. Il personaggio ha tratti in comune con le ruffiane comiche già plautine: è una vecchia brutta, avara e amante del vino, che si guadagna da vivere facendo prostituire giovani donne; ma alla caratterizzazione consueta abbina una dimestichezza con le arti magiche che chiama in causa fonti latine parallele a quelle teatrali (le terribili sagae degli Epodi di Orazio, delle elegie di Ovidio, Properzio e Tibullo, ma anche le maghe di Apuleio e di Lucano), oltre a un sostrato di tradizioni popolari1. La sua è una magia ‘pratica’, a diffusione matrilineare e che perciò interessa soprattutto l’universo femminile; prevede la costruzione di oggetti per lanciare il malocchio, filtri d’amore e altre sorte di aiuti a donne amorose: il tutto nascosto dietro una facciata di devota religiosità cristiana. Nella primissima battuta con cui è introdotta in scena, Sempronio, servo di Calisto, la definisce «una uecchia barbuta […], facto chiara [fattucchiera], astuta, sagace in quante tristitie son al mondo. E credo che passano de cinque milia uirginita quele che se son facte e disfacte per lauctorita sua in questa terra. Costei li duri scogli promouerebbe aluxuria se uolesse» (De Rojas 1973: 58)2; rincara Parmeno, altro servo di Calisto, poco oltre:
Ella ha sei arti, che ti conuien saperlo: ricamatrice, prefumatrice, maestra de fa [sic.] belletti e raconciar le uirginita perdute, tabacchin, et un poco factocchiara. Era larte prima coperta de tutte laltre, sotto specie dela quale multe giouanne seruente intrauano in sua casa a lauorarse et allauorar camise, gorgiere, scuffie et altre cose assai (De Rojas 1973: 62).
Il testo ebbe una vasta e precoce fortuna in Italia: la prima traduzione in italiano risale al 1506, e ne furono stampate ben 13 edizioni fino al 1543, quando il concilio di Trento consigliò maggiore prudenza agli editori e preparò la strada alla definitiva messa all’Indice dell’opera nel 15903. A questi numeri, tuttavia, non sembra essere corrisposta un’influenza determinante sui commediografi italiani, che pure ricorsero volentieri al tipo fisso della ruffiana: la struttura eslege dell’opera (è in 21 atti, viola l’unità di tempo, destina personaggi umili a un finale tragico) la rese difficile da imitare seguendo i precetti della Poetica di Aristotele; le ruffiane plautine e i primi esempi volgari del personaggio (la Lena di Ariosto, le numerose meretrici e ruffiane aretiniane) si imposero presto come modelli.
In questo quadro però costituiscono una curiosa eccezione una serie di ruffiane dai tratti evidentemente celestineschi che si riscontra nelle commedie della «scuola d’i Liquidi»: una congrega informale di autori ‘post-ruzantiani’ di area veneziana attivi tra gli anni ’40 e ’50 del Cinquecento4. A margine del commento alle commedie in pavano del liquido Gigio Artemio Giancarli, Lucia Lazzerini segnalava l’influsso del modello spagnolo su questo «sottobosco» di singolari commediografi (Giancarli 1991: XXI n). In effetti, allargando il campo anche oltre le segnalazioni di Lazzerini, le ruffiane Agata nella Zingana di Giancarli (1545), Nastagia e Onesta nella Notte e nel Pellegrino di Girolamo Parabosco (15465, 1552), ma, si vedrà, anche Cortese nel Travaglia di Andrea Calmo (1556) mostrano tratti che, almeno in superficie, le rendono assai prossime alla figura di Celestina: di Agata si dice che è «pelosa», che «ha certi peluzzi», poi che «ha la barba» (Zigana I 138; I 252), come l’aveva Aloigia, almeno nella prima stesura della Cortigiana di Aretino (veneziano d’adozione)6; Nastagia, tra le altre doti, racconcia verginità con «acque di pigna» che restringono la vulva e «tinture cremisine» che simulano sversamenti di sangue (Parabosco 1546: 12r)7; Agata e Onesta bazzicano in casa delle giovani donne e aiutano le madri a celare parti clandestini8; alcune sono fattucchiere e praticano forme di magia popolare (chi «butta la cera» per leggere il futuro, chi legge nei fenomeni naturali auspìci di sorte buona o avversa9), tutte nascondono le loro reali attività dietro alla sartoria, alla preparazione di belletti e alla religiosità ostentata. Certo nessuno di questi personaggi raggiunge lo spessore del personaggio di Celestina, protagonista de facto dell’omonima tragicommedia; l’intreccio in cui si muovono è al più simile a quello tratteggiato nel prologo del Marescalco di Aretino, profondo conoscitore della letteratura spagnola: un contesto borghese che prevede amori adulterini e scambi di lettere, e che relega la mezzana trotaconventos al ruolo ancillare di mediatrice10.
II. Il caso del Tesoro di Luigi Groto.
Questa “linea veneziana” di ruffiane celestinesche è, credo, una delle ragioni di un clamoroso repêchage del testo spagnolo operato, molto più tardi, da un altro autore di area veneta, polesano come Giancarli: Luigi Groto. Nel 1583 vide le stampe a Venezia la sua seconda commedia, Il Tesoro. Viene messa in scena una burla tesa a un vecchio gelosissimo ed avaro, Zelotipo. Il giovane Ginofilo, travestito da ‘trova tesori’ indiano, finge insieme all’amico Lepido di dover dissotterrare un antico e prezioso tesoro, sepolto nel giardino del vecchio: una volta entrato in casa sua con questa scusa, può godere della sua giovanissima moglie, Licinia. L’organizzazione della ‘burla del tesoro’ occupa quasi per intero il terzo e il quarto atto, ma i primi due sono dominati dal personaggio di Donnola, la ruffiana a cui Ginofilo si rivolge per organizzare un primo scambio di lettere amorose con Licinia. Il suo ingresso in scena è anticipato da una lunga descrizione − oltre quaranta versi − riferita dal servo Cornacchia nella seconda scena del primo atto:
COR. Presso la casa di messer Zelotipo,
marito della vostra Licinia, abita
una vecchia barbuta alla qual lagrima
sempre un occhio, e per farsi mei’ conoscere
ha il viso attraversato d’un notabile
freggio. Le ciglia irsute si congiungono,
ha più lingue che denti in bocca, il carico
degli anni la fa sempre a terra pendere,
e cadrebbe s’a un baston continua-
mente non s’appoggiasse, e però portalo
in man, nell’altra la corona. Ha l’abito
bigio, va a quante messe, a quanti vesperi
suonano, a quante chiese son in Adria.
Bacia la terra, arde candele, visita
altari, e, se sta il giorno in chiesa, prattica
tutta la notte poi ne’ cimiterii
o tra le forche dove i rei s’appiccano.
Segna e acconcia quanti infermi muoiono.
Se tele, o panni, o s’altro hanno da vendere
o da comprar, tutte le nostre femmine
alla vecchia ch’io dico si rivolgono.
Toglie a filar poi in un luogo e portalo
in un altro, e con questo ha scusa e commodo
d’entrare in ogni casa, in ogni camera.
Mette e disvia fantesche, e sempre un numero
grande ne tien in casa. Insegna a leggere,
a ricamar, a cucire e trapungere
e ancor qualche mestier più dilettevole alle fanciulle. […]
Quante donne si pelano,
passan tutte o le più per le sue forbici.
Incanta febbri e ogn’altro male. Ha prattica
poi, quanta aver si può, negli incantesimi,
nelle fatture, e fa parer miracoli
nel far amar, dar martel, poi discordie.
Aiuta a partorir le donne gravide
(massimamente quelle che si celano),
sa racconciar verginità, fa movere
con le parole sue sole a lussuria
le Lucrezie, le Porzie e le Penelopi.
Già un anno con costei presi amicizia,
e tengo ancor. Se costei… GIN. Dunque spacciati,
va’, corri, vola, ritrovala, parlale… (Tesoro I II, vv. 133-160; 165-178).
Nella lunghissima descrizione sono elencati tratti inequivocabilmente celestineschi, con un grado di fedeltà se possibile ancora maggiore rispetto alle commedie venete già menzionate. Donnola, che, si scoprirà, vive insieme a una fantesca di nome Elicia, lo stesso nome della fantesca di Celestina, è subito definita una «vecchia barbuta», come nella battuta iniziale di Sempronio11; anche lo sfregio sul volto («notabile | freggio», vv. 137-138), assente nelle ruffiane dei Liquidi12, connota invece l’aspetto di Celestina:
[PARMENO] Et un poco de balsamo teneua in una ampolluzza, chella guarda-va per quel fregio che gliatrauersa el naso. (De Rojas 1973: 64); «aliSa. Con che parli, Lucretia? luCRetia. Con quella uecchia che ha la cortellata per lo naso che soleua habitare in questa contrada appresso il fiume.» (93); «[melibea.] Cosi dio maiuti, chio non te recognoscea, saluo per questo segnuzo che tu hai nel uiso (97).
Nel finale del brano, Groto cita la racconciatura delle verginità e l’aiuto alle partorienti, che si può spiegare sia con il confronto con la Celestina, sia con quello, più cogente per quanto riguarda il secondo particolare, con Giancarli e Parabosco. Vi sono alcuni punti in cui il testo sembra poi rassettare in endecasillabi la prosa della traduzione italiana. I versi «Toglie a filar poi in un luogo e portalo | in un altro, e con questo ha scusa e commodo | d’entrare in ogni casa, in ogni camera» sono assai vicini a «[Celestina] pigliaua lino in un loco et daualo afilare in unatro per hauer scusa dintrare per tutte le case» (De Rojas 1973: 63). Allo stesso modo, i versi sulla frequentazione di messe e vesperi ad Adria aggiungono un dettaglio geografico al passaggio «mai lassauane misse ne uespero, ne lassaua conuenti de frati ne de monache» (De Rojas 1973: 63). Anche Donnola dissimula il mestiere di ruffiana e strega dietro la sartoria, la profumeria e lo smercio di fantesche; come Celestina, sa piegare le donne all’infedeltà. L’idea che il confronto diretto con La Celestina integri la tradizione veneta, oltre che dai (e forse più dei) particolari catalogati, è rafforzata dalla stessa struttura a elenco dell’intervento del servo Cornacchia. Le commedie dei Liquidi non offrono niente di paragonabile in termini retorici: i particolari che connotano l’aspetto delle ruffiane al più sono sparsi qua e là nelle battute serrate dei dialoghi di queste con i servi. Lida de Malkiel, autrice di un fondamentale studio sul capolavoro spagnolo, segnalava invece tra le forme tipiche dei dialoghi di De Rojas i diálogos de largos parlamentos y réplica breves: lunghissime battute, generalmente in bocca a un solo personaggio, alternate a brevi repliche di un interlocutore13. Scrive la studiosa che nei largos parlamentos trovano spazio il più delle volte mosaici di citazioni dai «tópicos de la sabiduria medieval […]; la gozosa enumeración de realidades concretas […]; y lo desahogos de apasionada elocuencia»: tra le esorbitanti enumerazioni cita proprio gli interventi iniziali dei due servi di Calisto, nei quali vengono rivelate tutte le turpitudini del personaggio di Celestina. Al netto del rallentamento del ritmo della scena causato da questo tipo di sequenze, non si può non sottolineare con de Malkiel «el exceptional vigor y fuerza persuasiva de estas tiradas»14. Non è strano che Groto abbia ceduto al fascino di queste tirate insieme potenti e disfunzionali: come la critica in tempi recenti non ha mancato di sottolineare, già la sua versificazione lirica (così come le sue orazioni) si caratterizzano per una verbosità a tratti estenuante, per l’«accumulo di serie isometriche» e per una «sintassi additiva» che si sviluppa «quasi sempre ripartendo con un nuovo elemento dell’elenco all’inizio di una nuova partizione metrica» (Galavotti 2017: 227). Nella descrizione di Donnola riportata sopra la schematicità è appena smussata dai frequenti enjambement, ma la si riconosce nei verbi che cadenzano la descrizione in principio di verso (bacia, segna, toglie, mette, incanta, aiuta, sa; e a inizio proposizione: ha, va, visita, insegna, fa). Una panoramica sull’intervento di Parmeno (pure scorciato per brevità) dà l’idea della somiglianza, evidente già dall’accumulo degli imperfetti:
[PARMENO.] Nissuna veniva senza provisione: come e presutto, grano fari(n) a, boccali de vino: et altre cose che a loro patrone potevano robare − ancora altri furti de maggior qualità. Et li se recopriva ogni cosa. Era assai amica de studianti; de despensieri, canovari, et famigli de preti. A questi tali vendeva ella lo sangue delle povere mischi(n)elle; […] Costei facea profumi in sua casa, falsificaua storace, bengioi, ambra, zibetto, mosco, poluere de cipri et altri profumi assai. […] Et remediaua per carita a molte orfane errante che si recomandauano a lei. Et in unaltro luogo hauea soi aparecehi per dar remedio al amore et per farse ben uolere. Hauea ossi de cor de ceruo, lingue de uipere, teste de quaglie […] A multi, pingea littere con zaffarano nele palme dele mani; ad alcuni daua certi cori de cera, pieni de agucie rotte […] Chi te porria contare quello che questa uecchia faceua? E tutte erano ciancie e bugie CALISTO. Basta per adesso, Parmeno. E lassa queste cose per tempo piu oportuno. Assai da te sono informato (De Rojas 1973: 62-65).
È chiaro che, impostato retoricamente il discorso in questo modo, Groto può poi sbizzarrirsi nell’arte che meglio domina: la citazione. Una pratica che può condurlo fuori dal modello spagnolo ma in prossimità della esigua tradizione celestinesca che l’ha preceduto. Ecco che, ad esempio, il particolare della gobba e del chinarsi su un bastone, tratto topico e vagamen- te accennato nella tragicomedia, è già della ruffiana Agata della Zingana di Giancarli15. Sempre Agata, a differenza di Celestina, per «vadagnar el viver per sta settemana» depila le amiche (I 291). La trasmissione matrilineare di saperi teorici e pratici aggiunge alle prerogative celentinesche il ruolo di maestra per giovani donne, che allude alla Lena ariostesca (maestra di cucito ma anche insegnante di lettura di Licinia16) e alla Gemma dell’Ipocrito aretiniano17. La componente magico-religiosa di Donnola, molto blanda se la si compara alle esagerazioni celestinesche, sembra avere più in comune con il prototipo scherzoso della ruffiana del prologo del Marescalco aretiniano: tornano l’«abito bigio», le «candele» e l’assidua frequentazione di chiese e funzioni religiose. Nel passo grotiano non mancano poi precisi riferimenti a topoi latini, a dimostrazione che entro una griglia retorica simile tout se tient: il tratto (inedito nella tradizione volgare, Celestina compresa) della lacrimazione da un solo occhio, che suggerisce un parallelismo tra l’asimme- tria fisica e l’ipocrisia del personaggio, rimanda alle figure del luscus e della lusca che popolano molti epigrammi di Marziale, e che nella variante femminile hanno l’aspetto di vecchie megere tanto laide quanto sessualmente promiscue: «Filenide piange sempre da un occhio solo. Com’è possibile, mi chiedete? È guercia.» (III 65, ma vedi anche III 11, III 39); «Vuoi che ti dica in due parole, o Fabullo, quanto sia spaventosamente guercia Filenide? Se Filenide fosse cieca, sarebbe meno brutta» (XI 73). Quando declinato al maschile, il topos rivela i suoi lati moralmente abietti, riallacciandosi peraltro ad altri topoi (già plautini) della rappresentazione delle ruffiane: il latrocinio e la sete di vino: «Era cieco da un occhio Frige, noto bevitore» (VI 78); «Lo vedi quel tale che si accontenta di un occhio solo […]? Non sottovalutare l’individuo: non v’è uno più ladro di lui» (VIII 59). Un’ultima nota di commento merita la locuzione «dar martel» del v. 170 («nel far amar, dar martel, poi discordie»). «Avere il martello» nel senso di «soffrire per amore» è locuzio-ne ben attestata nella commedia cinquecentesca, e non fanno eccezione le commedie venete già menzionate. Alla voce martello il GDLI regista anche un «dare martello a qualcuno» nel senso di «farlo ingelosire fingendo freddezza in amore» (con attestazioni in Aretino e Niccolò Franco), ma in questo contesto il significato è in parte diverso. L’espressione trova riscontro però nelle deposizioni di processi di stregoneria di area polesana, e da quel che si può intendere indica un incantesimo che rende condiscendenti gli amati ritrosi. Stefania Malavasi, cui si deve la pubblicazione di alcuni degli atti processuali cui mi riferisco, ha dedicato diversi interventi ai processi per stregoneria in Polesine, riportando alla luce un fenomeno radicato sul territorio per tutto il XVI secolo, soprattutto a Rovigo e nel rovigotto18. Certo sulla scelta di rappresentare un personaggio come Donnola questo contesto avrà influito, ma la descrizione della vecchia denuncia tutta la sua matrice letteraria.
III. La Celestina tra Ruzante, i Liquidi e Groto.
Un aspetto di solito sottovalutato, quando si indaga l’influsso della Celestina sulla commedia italiana, è il ruolo giocato dal modello al di fuori della descrizione fisica e professionale della vecchia. Tanto è memorabile il suo aspetto che si tende a dare per scontato che se un’influenza c’è stata, vada cercata lì e non in altri luoghi dell’intreccio. Eppure, un’altra gozosa enumeración che esibisce tratti vistosamente celestineschi si trova in Tesoro II II, luogo che rifà l’inizio di Celestina IV. In entrambe le sequenze, Celestina/ Donnola si sta recando alla casa di Melibea/Licinia per renderle noto l’amore di Calisto/Ginofilo. Le due ruffiane, prima di cimentarsi in un’impresa non priva di rischi, riflettono sulle difficoltà del loro mestiere in un vivace monologo. Tuttavia, una serie di buoni auspici sembra questa volta favorire la riuscita dei loro piani:
[DONNOLA.] Occorsi oggi mi son tutti gli augurii
buoni stamane, e tutt’oggi mi occorrono.
Io non ho cespitato ancora a un minimo
sasso, stanca non son, né (come sogliono)
le falde della vesta m’impediscono.
Non ho veduto né udito per l’aria
oggi augel nero, solo augei bianchissimi.
Le mie galline han fatto una cantepola19
grande. La prima parola oggi dettami
d’amore è stata, di letizia e d’utile.
Nessun cane oggi mi ha abbaiato: è un ottimo
augurio, tutti li soggella. Veggiola,
è dessa nella strada. Ecco Lincinia! (Tesoro II II, vv. 19-30).
[CElESTINA.] Tutti li augurii se son mostrati in mio fauore, o io non so niente de questarte. Quattrhuomini o trouati per la uia, li tre se chiamano Ianni e li dui son cornuti. La prima parola che o udita per la uia estata de amore. Mai ho scappucciato como o facto altre uolte; pare che le pietre se scansano e me diano luogo che io passi. Ne me danno impaccio le falde come soleno e mancho mi sento stracca nel caminare. Ogni huomo me saluta. Ne mai cane me ha abaito [sic] ne uccello negro ho uisto, ne storno, ne coruo, ne cornac-chia, ne merlo, ne altra natura de uccelli negri. E lo meglio de tutto e che io uedo Lucretia cusina de Elicia, in sula porta de Melibea... (De Rojas 1973: 92).
L’elenco degli auspici è ripreso quasi ad verbum dal modello spagnolo: Groto vi aggiunge un accenno erudito agli auspicia pullaria di epoca romana ed elimina il riferimento alquanto oscuro all’incontro con uomini di nome Gianni/Giovanni, probabilmente perché non ne intende il senso. Il passo, scarsamente glossato anche dai commentatori spagnoli odierni, viene di solito ricondotto al personaggio welleristico «Juan de buen alma» o «Juan buen hombre», nel quale a un nome comune e per nulla sofisticato corrisponde un carattere altrettanto ingenuo (da «bobo»)20. Un primo incontro con uomini di poco senno (tanto da non sospettare i tradimenti delle mogli) preluderebbe dunque ad altri incontri con uomini simili, incapaci di riconoscere le malizie dei truffatori. Esempi teatrali di ornitomanzia e di interpretazione degli auspici non sono di per sé inediti: si riscontrano già nelle commedie di Aristofane e soprattutto in bocca al mercante Libano nell’Asinaria di Plauto, commedia che prevede tra i personaggi una delle più compiute ruffiane della palliata, Cleareta21. Non mi sembra sia stato altrove rilevato però che l’ornitomanzia e l’interpretazione degli auspici diventano, sulla scia di Celestina, prerogative di due ruffiane della linea veneta, la (solita) Agata della Zingana di Giancarli (I 1 e 291) e, con una vicinanza maggiore al modello spagnolo, la greca Cortese nel Travaglia di Calmo (III 255): in quest’ultima, l’incontro con Giovanni “buon’anima” è sostituito da quello con un frate libertino, e si fa esplicito riferimento alla visione di uccelli bianchi come nel passo grotiano:
CORTESE. Me sé vegnúo vendura infra la pie: passando fora de chesta cale me scutrào in la Troilo chié vende la fúlenghe e cusí in catro baroli ho cumprào per otto soldi una paro […] chié ancúo tunde le mie conse va’ de bé in meio. Mi sé vegnúa fora del mio casa in bonura, ponso diri, chesta matina e cusí scutrào una fraros chié anveva dormío cu la so mronsa, chié m’ha fando bó augurio, può sembre fina chesta sera mi ha visto cotinamendi agnemali uselli tundi bianghi e tunda la notte chié pansào, da cào l’aldro, me sognào in feste, nonze, traonfi, e saltareli […] (Calmo 1996 [1556]: 176)22.
AGATA. «E’ me ne vago fuora de casa la mattina in la bon’ora, de nissuna cosa strania no sia desiderosa, né in acqua né in terra no sia spaurosa, da bona zente sia saludà e con bon presenti sia ben cortizà…». […] Sia laudà m[esser] san Nichetto! E’ son insìa de ca’, stamattina, col buon pè ananti. E squasi squasi che me ’l pensava de sta ventura, perché ’l mio gattesin tutta sta notte sgraffava el storuol del cao de la litiera, e quando dixema le mie ’razion, el me licava el còmeo (Giancarli 1991 [1545]: 209, 243)23.
In questo caso, per quanto riguarda Groto, il riferimento al testo spagnolo ha soppiantato quello ai testi di area veneziana, che alludono alle competenze di Celestina ma ne riducono e banalizzano le battute; è importante segnalare però che, nell’impossibilità di riportare entro la struttura di una commedia regolare tutte le sfaccettature del personaggio, Groto sceglie di introdurre un aspetto che godeva già di una comprovata fortuna nelle ruffiane a lui più prossime. Fortuna che, se ho ragione, non si limita peraltro ai soli casi appena mostrati. In precedenza, ho menzionato il caso di ornitomanzia che si riscontra nell’Asinaria di Plauto. È noto che Ruzante abbia seguito, in molti casi alla lettera, il testo dell’Asinaria nella stesura della Vaccaria. Tra le battute prelevate dal testo latino, riscritte e ampliate, figura anche quella in cui il mercante Libano interpreta il comportamento degli uccelli. In bocca al mercante ruzantiano Vezzo, suona così (Vaccaria, II 3):
[VEZZO.] A’ te ’l dirè mi, zà che te n’he negun che te ’l dighe. A’ he mo stranuò tre bote, daspuò ch’a’ he catò el muò d’i dinari per lo me paron zoveneto, né, vegnanto, a’ no ha inscontrò femene. E el primo ch’a’ scontriè ha lome Zane: tuti buoni segnale che la me de’ anar fata. A’ no he sentío çigar zoete, né sgrolezarme drio osiegi cativi, tanto che spiero ch’arè pensò ben (Ruzante 1967: 1069)24.
I precisi riferimenti plautini a picchi, cornacchie, upupa e corvi e ai loro comportamenti sono da un lato semplificati e dall’altro arricchiti con particolari più intellegibili dal pubblico: Ludovico Zorzi nel commento riconduce gli starnuti e il mancato incontro con le donne a credenze popolari, mentre per l’incontro con Giovanni/Zane osserva, in maniera un po’ apodittica, «Zane, ipocoristico di Giovanni, nome augurale (dal nome del Battista, che annunciò la venuta del Signore)» (Ruzante 1967: 1532). Personalmente invece non escluderei l’ipotesi che il passo ruzantiano alluda al «Quattrhuomini o trouati per la uia, li tre se chiamano Ianni e li dui son cornuti» di Celestina IV: la contaminazione con il testo spagnolo deriverebbe dalla necessità di “svecchiare” la battuta plautina, dalla vicinanza tematica tra i due luoghi, e sarebbe anche giustificata dal contesto, giusta l’interpretazione che i commentatori spagnoli danno al nome/personaggio di Giovanni: nel passo, Vezzo è in procinto di truffare il padron vecchio Placido, e ha tutto da guadagnare dall’incontro con ingenui che non possano smascherarlo25. Non sarebbe strano poi immaginare la Celestina sullo scrittoio di Ruzante durante la composizione della Vaccaria, che vede tra i protagonisti il bel personaggio della ruffiana Célega: la battuta in questione è anzi un tassello in più che va aggiunto all’aria celestinesca che avvolge Célega e l’intreccio26.
Un altro momento che in Groto mostra una simile strategia intertestuale, capace di tenere insieme Celestina e commedie di area veneziana, è il principio dell’atto quinto. La scena si apre con i due servi di Ginofilo e Lepido, Cornacchia e Corbaccio, che sorvegliano l’incontro dei loro padroni con Licinia e Fulvia. Corbaccio ha paura, ed è così armato da non potersi quasi muovere; Cornacchia si farà suggestionare dalla paura dell’amico: dopo un breve scambio di battute, i due pianificano di abbandonare le armi per darsi alla fuga. La dinamica della scena ricalca quella del primo incontro tra Calisto e Melibea nel dodicesimo atto della Celestina. I due servi di Calisto, Parmeno e Sempronio, di notte, armati e nascosti a sorvegliare l’appuntamento, intrattengono conversazioni dello stesso tenore:
[SEMPRONIO.] Sta pure attento, et ala prima uoce che odirai, mostramo ad ognihomo li calcagni. PaRmeno. Tu hai lecto il mio libro; un suggetto haue-mo in dui cori. Mostraro li calcagni et anchora laschiena (De Rojas 1973: 183).
COR. Che faresti pensier dunque di correre?
CORB. No?! Che pensiero fai tu? Che t’ammazzino?
Chi fugge, un’altra volta può combattere:
il capitano ha da salvar l’essercito!
Fo pensier di fuggir, certo […] (Tesoro V I, vv. 46-50).
Anche in questo caso, Groto non rinuncia a uno sfoggio di erudizione. Il tema del soldato che abbandona le armi chiama in causa una tradizione lirica greco-latina che muove almeno da Archiloco e che, passando per Orazio, giunge fino ad alcuni episodi descritti nelle Notti attiche di Aulo Gellio: e infatti, la battuta di Corbaccio «chi fugge, un’altra volta può combattere» è traduzione letterale di una frase che Gellio attribuisce a Demostene (Notti attiche, XVII, XXI, 31): Ανὴρ ὁ φεὺγων καὶ πὰλιν μαχήσεται27.
Ma ancora una volta, è il caso di dire che la Celestina, come il diavolo, sta nei dettagli: il legame intertestuale si fa più profondo quando il modello spagnolo presenta le descrizioni minuziose e particolareggiate che tanto incontrano il gusto di Groto, dando luogo a precisazioni così simili da far escludere la poligenesi. Per esempio, si notino le somiglianze tra l’armamentario dei servi e le loro azioni mentre si apprestano alla fuga:
[CORB.] Che ho io? Ho più che la balestra, quindici
polzoni, la mia targa da difendermi,
la storta cinta, e per ogni occorrenzia
il mio spadon da duo piedi? COR. Se correre
ti bisognasse non potresti moverti.
CORB. Vedresti ben se ti parrei un lepore.
[…]
Fo pensier di fuggir, certo: succintomi
ho le falde del saio, giù rivoltomi
la cappa al braccio, e nel cappuccio postomi
la celata. Gittar l’arme fia facile,
sto col piè manco innanzi per andarmene (Tesoro V I, vv. 30 et seq.).
PARMENO. Ho aperte le gambe a mezo lato, col pie mancino dauanti posto in fuga, le falde del saio ligate ala centura, la targa sottol braccio per che non me dia impaccio quando curro. Che per Dio teiuro che io fuggeria come un ceruo, tanta e la paura che ho de sta qui! […] SEMPRONIO. Meglio sto io, che ho ligato il brocchierri et la spada con le corregie per che non me casche quando fuggo, et ho messa la celata nel cappuccio dela cappa. PARMENO. E le pietre che portaui in esso? SEMPRONIO. Tutte le gettai per andar piu ligiero. Che assai fatiga ho a portar questa corazza che mhai facta uestir per importunita (De Rojas 1973: 188-189).
Tuttavia, come nei casi precedenti, il modello della Celestina non esaurisce da solo il tessuto intertestuale della sequenza, che chiama in causa (almeno) un’altra celebre ‘sequenza notturna’ della commedia rinascimentale veneta. Nella prima scena del quinto atto della Moschetta, Ruzante e Menato escono di notte, armati, per guastare l’incontro tra Betìa e Tonin. Luca D’Onghia, nel commento alla commedia, evidenziava come la sequenza ruzantiana abbia molto in comune con la prima scena del quinto atto della Lena di Ariosto (e, di conserva, si noterà come entrambe siano assai simili alla situazione messa in scena da Groto):
Ma c’è un altro punto della Lena in cui − quale che sia la direzione del dare e dell’avere − la vicinanza con la Moschetta pare plausibile. Si tratta dell’inizio del quinto atto: Corbolo e Pacifico si apprestano a uscire armati sul far della sera, proprio come Ruzante e Menato; la coppia presenta un’identica distribuzione dei ruoli, con uno dei due personaggi pavido e recalcitrante (Pacifico e Ruzante) e l’altro intento a spronarlo per poterlo meglio manovrare (Corbolo e Menato). […] Spicca, facendo il confronto con la Moschetta, la comune paura di finire in mano alle autorità («s’a’ catessan i zaffi, e che i ne pigiasse e incrosarne le brazze co’ se fa le ale a gi ocatti, que dissé-vu?» V 3) […]. Anche in questo secondo esempio non sembra pacificamente decidibile chi si ispiri a chi […] (Ruzante 2010: 53-5428)
È difficile dimostrare, e non è questa la sede adatta, una possibile derivazione delle due sequenze dall’omologa sequenza della Celestina29. È riconoscibile, tuttavia, una somiglianza di impianto (nel caso di Ruzante, forse più ancora che con il parallelo ariostesco), e faccio notare che il gesto di mettere il piede innanzi per prepararsi alla fuga e la dichiarazione di lasciare indietro le armi sono gli stessi di Ruzante personaggio in Moschetta, V 53: «A’ vuo’ asiarme per muzzare, ch’a’ n’abbia briga, se no de muzzare. S’a’ sento gnente a’ me vuo’ conzare con sto pe’ inanzo, e la ruella drio la schina. A’ butterè via sta spa’ se la me darà fastibio»30. Ciò che più conta, nel caso di Groto, è che la simmetria con le sequenze di Ariosto e Ruzante, poste entrambe in apertura di quinto atto, difficilmente sarà casuale, e che almeno ai suoi occhi doveva esserci una certa vicinanza tra queste e la Celestina. In particolare, dall’esempio ruzantiano, più lungo e articolato di quello ariostesco, Groto sembra aver ricavato ciò che ‘manca’ nella Celestina. Innanzitutto, la «distribuzione dei ruoli» (rilevata da D’Onghia) tra un servo pavido (Corbaccio), che nasconde la sua paura dietro le armi e una facciata da spaccone, e un altro, se non zelante, più sicuro, più a suo agio nella “missione” di sorveglianza (Cornacchia). Poi, la paura di essere catturati dalle guardie, che nella Celestina era al massimo paura di incappare in Pleberio (padre di Melibea) e i suoi servi31: le scene di Ruzante e Groto si svolgono infatti intra moenia, l’una tra le viuzze del centro storico di Padova, l’altra di quello di Adria, luoghi in cui è vietato girare armati sul far della sera32. Infine, la scena presenta una serie di riprese intertestuali minute, e si direbbe quasi gratuite, perché mentre in Ruzante aggiungono particolari utili allo svolgimento delle scene successive, in Groto sembrano solo arricchire un mosaico di citazioni. Mi riferisco in particolare all’osservazione di Corbaccio, che nell’elenco delle strategie di fuga afferma: «Lasciato ho l’u-scio aperto, se ne dessero | la fuga, da potersi ire a rinchiudere.» (V 44-45), un particolare vicino a Ruzante, Moschetta V 29: «RUZANTE. Aldì compare: a’ he ditto alla femena che laghe averto l’usso... s’el besognasse... ho-ggi fatto ben?»33. Ora, se nella Moschetta il dettaglio è importante, perché Menato entrerà proprio da quella porta impedendo a Ruzante di entrare a sua volta, in Groto lo stesso dettaglio è del tutto anodino dal punto di vista scenico, a meno che non si voglia leggervi una sottolineatura della codardia di Corbaccio. Anche la richiesta di Cornacchia a Corbaccio di dividersi in due cantoni diversi, in chiusura di scena, è speculare a quella di Menato a Ruzante (Tesoro V I, vv. 57-60 = Moschetta V 48): ma di nuovo, mentre Menato si separa dal compagno prima per picchiarlo e poi per entrare in casa di Betìa alle sue spalle, i servi di Groto nella scena successiva saranno di nuovo insieme e anzi dialogheranno come se tra loro non vi fosse distanza.
IV. Ragioni geografiche e culturali di un legame intertestuale.
Si è tentato di dimostrare come, da un lato, la fortuna della Celestina in area veneziana, il suo influsso sulle commedie dei Liquidi e, in via ipotetica, su quelle di Ruzante; e dall’altro, l’affinità estetica tra le enumerazioni esorbitanti e fiamboyant di alcuni luoghi della Celestina e il manierismo di Groto, abbiano condotto l’autore polesano verso il recupero del classico spagnolo. Un recupero difficilmente spiegabile con la sola erudizione, ma che risulta più chiaro considerando gli anni in cui la commedia fu scritta, e soprattutto il pubblico per cui fu messa in scena. Come detto, il Tesoro fu stampato nel 1583, ma un primo accenno al titolo compare già nella lettera dedicatoria della sua favola pastorale Il Pentimento Amoroso, stampata nel 1576. La gestazione è dunque piuttosto lunga e coincide con un periodo fortunato della biografia dell’autore. In quegli anni, Groto amplia la rete dei suoi contatti letterari al di fuori dell’area polesana, che fino a quel momento l’aveva visto coinvolto in accademie importanti ma certo non tutte di grido; quella degli Addormentati a Rovigo, dei Pastori Frattegiani nella zona della Fratta in Polesine, e quella adriese degli Illustrati da lui stesso fondata. Grazie al tramite di una sua scolara, la giovane poetessa in lingua e in rustica pavana Issicratea Monti, intorno agli anni ’80 Groto è introdotto nel circolo vicentino riunito intorno al ricco mecenate Francesco Trento conte di Costozza di Longare. È la cosiddetta Accademia dell’Eolia, dal nome della villa teatro degli incontri (oggi, fatalmente, un ristorante)34. Ne fanno parte una schiera di rimatori in pavano di terza generazione, tra i quali spiccano il poeta-pittore Giovan Battista Maganza detto Magagnò, Agostino Rava detto Menón, Marco Thiene detto Begotto e la stessa Monti. In Accademia si fanno feste e si recitano commedie, con ogni probabilità dello stesso Groto, che sarà proposto dal Trento quale principe dell’Accademia35. Sono peraltro gli anni in cui lo stesso Groto si cimenta nella composizione di sonetti in pavano, che compariranno nella Quarta parte delle rime del Magagnò (1584) e, postume, nelle sue Rime36. La frequentazione dell’Eolia di Costozza è il primo passo che condurrà Groto a recitare nell’Edipo re, importante messinscena che inaugurerà il palladiano teatro Olimpico di Vicenza del 1585. Questo è il contesto, geografico e culturale, entro il quale collocare la commedia Il Tesoro: un testo sì, formalmente iper-classico, di oltre tremila endecasillabi sdruccioli ancora alla maniera di Ariosto, ma debitore di un clima culturale non più solo adriese, frivolo ma aperto alla sperimentazione, erede (pur di qualità minore) dell’esperienza teatrale di Ruzante, e soprattutto del sodalizio comico dei Liquidi, i cui testi godevano di buona circolazione, con ristampe ancora negli anni ’60 del Cinquecento. I riferimenti alla Celestina e contestualmente al teatro veneto rientrano in pieno nell’orizzonte d’attesa degli spettatori privilegiati della commedia.
Questo peculiare milieu veneziano-polesano-vicentino spiega e ‘giustifi- ca’ la ripresa tarda del testo spagnolo nei Liquidi e soprattutto in Groto: viene però da chiedersi se si tratti di un caso (geograficamente) isolato, oppure se la fortuna italiana della Celestina sia continuata, in maniera più o meno sotterranea, anche durante gli anni della Controriforma. Allo stato attuale delle ricerche i risultati sono ancora pochi. L’unico saggio che offra degli spunti sulla tarda fortuna della Celestina è quello, citato in precedenza, di R. C. Melzi, ai quali mi sento di aggiungere il ricordo di «Celestina Ruffiana» nel discorso Dei ruffiani e delle ruffiane di Tommaso Garzoni, inserito nel libro-monstrum La piazza universale di tutte le professioni del mondo del 1585 (Garzoni 1996: 975). Qualcosa di più emerge sotto l’aspetto della filologia materiale. Ancora nel 1553 e nel 1556, Gabriele Giolito licenziava a Venezia due edizioni in spagnolo della Celestina (la seconda una ristampa della prima, ma con un diverso dedicatario): un’operazione editoriale pensata non solo per il pubblico ispanofono ma anche per il pubblico italofono colto, dal momento che entrambe le edizioni sono corredate di una grammatica spagnola ad uso degli italiani e di un piccolo dizionario spagnolo-italiano. Salvatore Bongi, nei suoi preziosissimi Annali, spiega bene che la scelta di Giolito si inserisce nella fortuna editoriale delle spagnolerie (cioè di grandi classici della letteratura spagnola) tra le aristocrazie italiane nella seconda metà del secolo (Bongi 1890, I, XLVIII). Una copia dell’edizione 1553 conservata alla Biblioteca Universitaria di Padova reca nel frontespizio, scritta a penna, la nota di possesso di Pompeo Caimo37. Un lettore davvero insospettabile. Nato a Udine nel 1568 fu un medico brillante: verso la fine del secolo fu in stretti contatti con la curia romana, gli fu addirittura proposto di diventare medico personale di papa Paolo V, e grazie ai suoi contatti cardinalizi insegnò per molti anni alla facoltà di medicina della Sapienza e poi a Padova (dove è effigiato in un busto della Basilica del Santo). Chissà quali altri riscontri potrebbe fornire un’analisi sistematica di stampe postillate. La sensazione è che col passare del tempo la Celestina, da una curiosità della letteratura popolare, sia stata progressivamente consacrata quale classico della letteratura spagnola (e vero e proprio testo di studio): la sua diffusione europea senza precedenti in virtù delle numerose traduzioni poté più della censura.
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Nota