Note sul Volgarizzamento di Bernardo Segni dell’Etica Nicomachea
Some Remarks on Bernardo Segni’s Translation of Ethica Nicomachea
Keletas pastabų Bernardo Segni Nikomacho etikos vertimui
Note sul Volgarizzamento di Bernardo Segni dell’Etica Nicomachea
Literatūra, vol. 64, núm. 4, pp. 43-57, 2022
Vilniaus Universitetas

Recepción: 04 Agosto 2022
Aprobación: 04 Noviembre 2022
Sommario: Verso la metà del Sedicesimo secolo, Bernardo Segni (Firenze, 1504 – ivi, 1588) pubblicò alcune traduzioni italiane con commentarî di alcune opere di Aristotele. Non era uno studioso e neppure aveva una affiliazione universitaria né poteva vantare una profonda conoscenza della lingua greca, ma operava nel clima culturale del Duca di Firenze Cosimo I de’ Medici (Firenze, 1519 – ivi, 1574) e dell’Accademia Fiorentina, il cui obiettivo era amplificare la centralità culturale di Firenze e della sua lingua. In questo lavoro vengono analizzati alcuni luoghi della sua traduzione e del commento all’Etica Nicomachea di Aristotele (Firenze 1550; ristampa Venezia 1551). Attraverso questa analisi emergeranno alcune caratteristiche del metodo dell’autore, come gli scopi didattici, di certo legati al tipo di pubblico cui l’opera è rivolta, la (scarsa) conoscenza degli autori classici e delle sue fonti, e la tendenza al continuo dialogo con il presente.
Parole: Aristotelismo, Rinascimento, Volgarizzazioni, Accademia Fiorentina, Bernardo Segni.
Abstract: In the middle of the sixteenth century, Bernardo Segni (Florence, 1504 – Florence, 1588) published some Italian translations with commentaries on some works of Aristotle. He was not a scholar nor did he have a university affiliation nor could he boast a deep knowledge of Greek language, but he worked in the cultural climate of Duke of the Florentine Republic Cosimo I (Florence, 1519 – Florence, 1574) and of the Florentine Academy, whose aim was to raise the cultural centrality of Florence and its dialect. In this paper I analyze some passages of his translation and commentary on Aristotle’s Ethica Nicomachea (Florence 1550; reprint Venice 1551). Through this examination some characteristics of the author’s work emerge, such as his didactic purposes, which may be related to the type of his audience, his (poor) knowledge of classical authors and sources, and his tendency towards continuous dialogue with the present.
Keywords: Aristotelianism, Renaissance, vulgarizations, Florentine Academy, Bernardo Segni.
Summary: XVI a. Bernardo Segni (1504–1588) išleido keletą Aristotelio darbų vertimų ir jų komentarų italų k. Nepaisant to, jog Segni nebuvo mokslininkas, nedirbo universitete ir neturėjo gilių graikų k. žinių, jo darbą sąlygojo Florencijos valdovo, kunigaikščio Kozimo I (1519-1574), kultūros politika ir Florencijos akademijos veikla, nukreipta į Florencijos regiono ir jos dialekto kultūrinį konsolidavimą. Šiame straipsnyje analizuojamos kelios ištraukos iš jo vertimo ir komentaro Aristotelio Nikomacho etikai. Teksto analizė atskleidžia didaktinius vertimo ir komentaro tikslus, siejamus su Segni skaitytojais, klasikinių šaltinių (ne)išmanymu ir dialogu su jo dabartimi.
Keywords: Aristotelis, Renesansas, šnekamoji italų kalba, Florencijos akademija, Bernardo Segni.
Nella prefazione alla sua edizione dell’Etica Nicomachea, che riporta in calce la data del 21 ottobre 1547 (“XII. K. Novemb.”), Pier Vettori, rivolgendosi ai proprî concittadini, insieme al vanto di averli istruiti nella lingua greca al punto che “in eoque perdiscendo omnem laborem ac molestiam libenter ferant” e di averli fatti progredire nella conoscenza di essa tanto che “gravioribus rebus percipiendis […] idonei sint”, dichiara di sentire il dovere di inoltrarli anche “ad eas literas […] quibus non linguam tantum expolire, sed cor etiam pectusque excolere atque omni virtute cumulare possint” e conclude con l’augurio che “non animo tantum optima haec praecepta combibant, verum etiam vita factisque exprimant” (Vettori 1547; 2r-v; corsivi miei: in originale i verbi sono alla seconda persona plurale).
Non è necessario ricordare il crescente interesse che l’opera suscitò nel Medioevo e nel Rinascimento, almeno a partire dalla traduzione latina che ne aveva fatto Roberto Grossatesta intorno al 1246–12471, ma certo è che lo stesso tema dell’utilità dell’opera affiora nel volgarizzamento e nel commentario che, nei medesimi anni, approntava un altro meno noto fiorentino, Bernardo Segni (Firenze, 1504 – ivi, 1558)2.
Il suo volgarizzamento era già pronto nella primavera del 1547, come si evince da una missiva, datata al 25 giugno, in cui il Cardinale Niccolò Ardinghelli (Firenze, 1503 – Roma, 1547), che sarebbe morto di lì a poco, il 22 agosto, ringraziava l’autore per la copia, quasi certamente manoscritta, che gli aveva offerto in dono. Un dono doveroso, in verità, in quanto l’autore, sin dal 1546, nel periodo che aveva passato presso la corte di Papa Paolo III, era stato ospite proprio presso il Cardinale e a casa di costui, come ricorda in una nota pagina del suo commento (Segni 1550, 418–419)3, “se non altrove, almanco alla tavola ognigiorno”, aveva potuto discutere dell’Etica con il padrone di casa e con un altro amico, Filippo del Migliore, in margine alle letture che in quel tempo Antonio Bernardi della Mirandola (Mirandola, 1502 – Bologna, 1565)4 teneva a Roma presso il nipote del Papa, il Cardinale Alessandro Farnese.
Fatto sta che, con un ritardo di ben tre anni5, nell’agosto del 1550, data del colophon dell’edizione fiorentina, il commento vide finalmente la luce, con un proemio (Segni 1550, 11–16) in cui l’autore, prendendo curiosamente le distanze rispetto alle sue stesse versioni della Retorica e della Poetica, pubblicate insieme agli inizi del 1549 (Segni 1549), dichiara che “l’utilità conseguentemente non si tragga tanto da quegli scritti, in che è piacevolezza di dire, & arte oratoria, quanto viepiù in quegli, che lasciati da parte questi colori solamente badino al nervo della stessa facultà” (Segni 1550, 16).
Analoghe considerazioni esprime nella epistola dedicatoria, datata al 18 agosto (Segni 1550, 3–10). Indirizzata a Cosimo I, allora Duca di Firenze (Firenze, 1519 – ivi, 1574; fu Duca di Firenze dal 1537 al 1569 e quindi Granduca di Toscana fino alla morte), in essa l’autore mette sin da subito in chiaro che, se gli insegnamenti dell’Etica fossero messi in atto, oltre che solamente conosciuti, “il mondo allhora sarebbe felice, & ché quei secoli sarebbon’ da | esser’ li decantati per aurei”, attenuando poi questa affermazione con il dato encomiastico per cui essa non riguarda la sua patria, “come sé ella non fusse ripiena di buon’ costumi, ò non vivesse sotto à prudentissime leggi” (Epistola, 3-4), poiché anzi “oggi un’ simil effetto non si scorga più ché mai nella patria nostra per sommo benefitio, & per immensa virtù di V. Eccell.”, che, “con l’esempio suo, […] imprime negli animi loro la medesima forma di vita temperata, & buona”, e poi anche “con le ben’ poste leggi, che vietan’ di commetter’ il vitio con la severità delle pene” (Epistola, 8–9)6.
Utilità, dunque, “etica” e, mi si consenta di aggiungere, “linguistica”, sottolineata dal confronto con quanto portato a termine ai tempi del fondatore della potenza medicea, Cosimo de’ Medici, detto il Vecchio (Firenze, 1389 – Careggi, 1464), “honorato antecessor” dell’omonimo Duca, “da più dotto ingegno, & forse in più honorata lingua” [scil. da Donato Acciaiuoli, in latino]7, nella consapevolezza che “in questa sua maderna, bella, & da tutti ama|ta” lingua (scil. il fiorentino), “quello, che forse appresso di pochi ella perderà, che la giudicassino scolpita in materia men’ degna, senza dubbio riacquisterà ella viepiù appresso di molti, che la vedranno in materia da poter’ essere da più genti partecipata, & fruita” (Epistola, 4–5), quelle genti insomma “che per non sapere la lingua greca, nè la lingua latina non potevono altrimenti di questa dottrina trarre | frutto” (Proemio, 15–16).
La divulgazione8, ancorché di alto livello, appare dunque il motivo guida di questa opera e, per il vero, di tutta la produzione di Bernardo Segni e la si spiega facilmente nell’ambito dell’Accademia Fiorentina, in cui il Nostro fu ammesso nel 1541 e di cui fu addirittura console l’anno successivo, in sostituzione del rinunciatario Pier Vettori (Salvini 1717, 15–21).
Fondata il 1° novembre 1540 con il nome di “Accademia degli Umidi”, già il successivo 11 febbraio si trasformava, in seguito all’immissione di molti intellettuali filomedicei, in “Accademia Fiorentina”, passando sotto il patrocinio del Duca, non senza strascichi di polemiche fra i membri originari, spesso di fede repubblicana, e quelli nuovi9. Essa si prefiggeva come obiettivo dichiarato, tra gli altri, la traduzione delle “scienze e l’altre cose utili e onorate di qualunque altra lingua […] nella nostra fiorentina” (Capitoli dell’Accademia Fiorentina, BNF, Magl. IX 91, ff. 31r-32v: Plaisance 2004, 232 [Document n° 7]), al fine di valorizzare la lingua e la cultura della città e di ribadirne l’egemonia culturale sull’Italia. Donde si capisce perché, quasi due secoli dopo, Salvino Salvini, nei suoi Fasti consolari dell’Accademia Fiorentina (1717), poté osservare che
era adunque dovere, che a un sì chiaro Traduttore, e spositore Latino di Aristotile [scil. Vettori], subentrasse uno, che nel Toscano idioma, esprimesse il medesimo pensiero dell’altro [scil. Segni], per fare le Opere di questo gran Filosofo più comuni, e perciò utili più alla nostra Accademia, mantenendo l’uso, al quale, in creandola, fu destinata, di tradurre i migliori Autori (Salvini 1717, 17).
Il pubblico dei membri dell’Accademia era piuttosto eterogeneo e annoverava al suo interno insigni grecisti come Pier Vettori o Benedetto Varchi10, ma anche dilettanti, come Segni stesso, che non poteva vantare né una affiliazione al mondo universitario né, tanto meno, una solida conoscenza del greco11. Inoltre, sappiamo che le letture interne all’Accademia erano seguite da sedute pubbliche, che si svolgevano in Santa Maria Novella ed erano aperte anche ad una utenza non specialistica12.
È dunque in relazione sia a questo tipo di utenza sia alle competenze personali e alle finalità dell’autore, che si spiegano molte delle caratteristiche del suo lavoro, a cominciare dall’uso piuttosto compilativo delle fonti13.
La presente rapida carrellata può partire con alcune per la verità ingenue precisazioni. Ad esempio, all’inizio del libro II Segni spiega, sulla scorta di Aristotele, l’etimologia del termine ἠθική:
Essendo adunche la Virtù di due sorti, una (dico) intellettiva; & l’altra morale: l’intellettiva (ripigliando) per lo più si genera, & si accresce per via delle discipline; onde interviene, che ella hà di bisogno d’esperienza, & di tempo: Et la morale s’acquista mediante i costumi, onde hà ella havuto il nome; chè in greco è ella detta ἠθικὴ: il qual nome poco varia da ἔθος, che significa in tal lingua Costume (75).
ma sente la necessità di aggiungere, rispetto al testo aristotelico (EN II 1, 1103a14-18 διττῆς δὴ τῆς ἀρετῆς οὔσης, τῆς μὲν διανοητικῆς τῆς δὲ ἠθικῆς, ἡ μὲν διανοητικὴ τὸ πλεῖον ἐκ διδασκαλίας ἔχει καὶ τὴν γένεσιν καὶ τὴν αὔξησιν, διόπερ ἐμπειρίας δεῖται καὶ χρόνου, ἡ δ᾽ ἠθικὴ ἐξ ἔθους περιγίνεται, ὅθεν καὶ τοὔνομα ἔσχηκε μικρὸν παρεκκλῖνον ἀπὸ τοῦ ἔθους), la chiosa “chè in greco è ella detta ἠθικὴ…, che significa in tal lingua Costume”, chiosa non necessaria nelle traduzioni latine, dove era agevole percepire il rapporto etimologico tra i termini moralis e mos14.
Caso affine è quello dove Segni, commentando l’espressione μακαρίους δ᾽ ἀνθρώπους (EN I 10, 1101a20-21), si premura di notare di aver integrato, nella traduzione (59), un come assente nel testo greco:
Ove [Et diremgli beati come huomini] Il testo greco ha Et beati huomini, mà le parole importano il medesimo; & per tal detto conchiudesi l’huomo felice, & beato dover’ essere, come egli ha descritto. Mà perchè il Filosofo conosce tal felicità non esser’ | perfetta, però dice Et beati come huomini, cioè beati per quanto patisce l’humana sorte. Della qual materia sè e’ si dia in questa vita un’ perfetto felice, n’ hò discusso nel comento del cap. penultimo del libro X (62-63).
Anche questa nota è oziosa, giacché il testo greco non necessita di alcuna preposizione15, né fa testo una sua eventuale presenza in qualche traduzione latina16. È tuttavia molto verosimile che gli sia stata suggerita dalla traduzione del lemma aristotelico contenuta nella versione latina, a cura di Giovanni Bernardo Feliciano, dei commenti di Eustrazio, Aspasio e Michele all’opera di Aristotele pubblicata a Parigi nel 1543 per i tipi di Jean de Roigny, ove appunto si legge “ac beatos quidem, ut homines” (f. 33r, r. 56)17.
Questa stessa esigenza, che potremmo definire ‘didattica’, lo porta talora ad espandere il modello con considerazioni più, per così dire, personali. Ad esempio, in relazione al termine pare (EN I 1, 1094a2: δοκεῖ), Segni scrive:
Mà esponendo qualcosa del testo, ove e’ dice nel principio [Pare] È tal modo di dire usato da lui, òver’ per modestia, òvero perché in tal lingua per sua propietà s’intenda il medesimo, che affermare; òvero perché alle cose dette non s’attribuisce veramente il Desiderio, mà metaforicamente (19).
adducendo ben tre motivazioni per l’uso di questo termine, di cui solo la terza e ultima può essere accostata al commento di Eustrazio (EN 7.35-36) τὸ δοκεῖ δὲ εἶπεν ὡς κοινῶς λεγόμενον ἐπί τε τοῦ ἀληθοῦς καὶ τοῦ φαινομένου (“dixit verò (videtur) eo quod verbi huius significatum & verò, & ei quod apparet, commune est” [f. 2v, rr. 51–52]), mentre le prime due appaiono più semplici, se non addirittura semplicistiche.
Questa esigenza metodologica viene confermata anche da casi più articolati. In relazione a EN II 9, 1109a30-b1, il nostro osserva:
Mostraci il Filosofo in questo Cap. il modo da poter’ conseguire il mezo con queste tre conditioni osservate; La prima è, partendoci dal più contrario estremo alla Virtù: L’altra è partendoci da quel contrario, ove noi siamo maggiormente inclinati per natura: La terza partendoci dal piacer’ de’ sensi. La prima ci conferma con l’esempio addotto da Homero nel XII. dell’Odissea, dove Circe ammonisce Ulisse col verso messo nel Testo, chè nel passar’ lo stretto di Messina scosti la nave più ché e’ può dallo scoglio, che di quei due è il più cattivo; & questo è Scilla: il quale uno scoglio denota egli per quelle parole Onda, et Fumo, & non denota l’una, & l’altro, come dicon’ gli espositori di questo luogo, perchè e’ non farebbe à proposito. Questo luogo d’Homero imita Virgilio nel III. dell’Eneide faccendo fare a Didone inverso d’Enea il medesimo ufficio, che fa Circe inverso d’Ulisse (113).
Come si può notare, Segni, che in traduzione aveva messo il nome di Circe (112), qui passa sotto silenzio l’errore di Aristotele, che, nel citare a memoria i versi, aveva attribuito le istruzioni di Od. μ 219-220 a Calipso18, ma, in compenso, aggiunge un rimando al terzo libro dell’Eneide (vv. 420-432) anch’esso erroneo, visto che nel poema virgiliano le istruzioni sono date ad Enea non da Didone, ma da Eleno.
Quello delle citazioni è un aspetto degno di essere approfondito con un esame sistematico. In generale il Nostro, sotto questo aspetto, non risulta essere molto preciso, come conferma anche il commento a EN III 11, 1116a22-26, dove si avverte che
sono perciò addotti nel testo due uersi d’Homero cavati l’uno dell’VIII. & l’altro del XXII. dell’Iliade. Et dove sono allegati gli altri “Chi fia, che lunge” tali si cavano del XV. dell’Iliade in persona d’Hettore, benché nel poema d’Homero eglino stieno altrimenti (154).
Il riferimento è, nell’ordine, a Il. VIII 148-149, XXII 100 e II 391-393, ma, in relazione a quest’ultimo luogo, si precisa che i versi “nel poema d’Homero […] stieno altrimenti”, senza però esplicitare in quale senso. Ci si può chiedere se il Nostro fosse consapevole del fatto che la citazione aristotelica semplifica il testo omerico19, ma è forse più probabile che sapesse che in Omero le parole in questione erano pronunciate da Agamennone, e non da Ettore, visto che la cosa era segnalata in una nota marginale alla traduzione di Argyropoulos (f. 54v, § 90: “Ilia. ο. quae verba etiam sub persona Agamemnonis referuntur. Ilia. β. Vide Aristo. lib. 3. cap. 10. Politicorum”)20.
Altrove, Segni si rivela piuttosto arguto, ad esempio commentando EN III 11, p. 1118b10-11 πᾶς γὰρ ἐπιθυμεῖ ὁ ἐνδεὴς ξηρᾶς ἢ ὑγρᾶς τροφῆς, ὁτὲ δὲ ἀμφοῖν, καὶ εὐνῆς, φησὶν Ὅμηρος, ὁ νέος καὶ ἀκμάζων, tradotto con “perché ogni huomo desidera, quando egli hà di bisogno ò del secco nutrimento, ò dell’humido; & alcunavolta dell’uno, & dell’altro: ‘E ’l letto brama il giovane, & l’huom’ fatto’” (162). Nel commento, a p. 165, il Nostro spiega che
Desiderij naturali, & comuni chiama egli quei del nutrimento, i quali servono per mantener’ l’individuo di ciascuno animale; mettendo infra questi anchora il desiderio del riposo, & del sonno: òvero (che è meglio interpretar’ così il verso d’Homero “Il letto brama ’l giovane, & l’huom’ fatto”).
L’identificazione del passo Omerico citato, nonché dei suoi confini, non è pacifica. Acciaiuoli (f. 59v, § 111), Lefèvre d’Étaples (f. 33r, § 61) e Feliciano (f. 33r, rr. 22 e 36-37) non si erano nemmeno posti il problema e solo Vettori si degnerà di dire qualcosa in proposito, pur senza indicare esattamente il riferimento21. In genere le edizioni aristoteliche rimandano ad Il. XXIV 129-131 οὔτέ τι σίτου / οὔτ᾽ εὐνῆς; ἀγαθὸν δὲ γυναικί περ ἐν φιλότητι / μίσγεσθ᾽, ma, come si può ben vedere, nel passo manca qualsiasi riferimento a giovani e ad uomini maturi, né si può escludere che il termine εὐνή qui rimandi al riposo, visto che le cose veneree sono certamente richiamate dalle parole immediatamente successive. Segni sembra dunque aver qui colto le problematicità della scarna e molto imprecisa citazione aristotelica, riconoscendo l’ambiguità del senso di εὐνή.
Tornando alla citazione odissiaca, è interessante che Segni ritenga che le parole “Onda, et Fumo” si riferiscano entrambe a Scilla, e non sia a Scilla che a Cariddi, come sostengono quelli che lui chiama “espositori di questo luogo” e dietro i quali è possibile riconoscere Acciaiuoli, che precisava che “est enim Homeri versus: quo admonet Ulyssem variis navigationibus errantem post excidium Troiae ut extra fluctum et fumum navem adigat, id est, ut evitet scyllam & charybdim, & ubi fiunt signa quaedam ex quibus cognoscuntur, scilicet ex fumo & fluctibus ut ait Homerus” (f. 39v, § 58).
Tuttavia, la ricostruzione di Segni, nel suo sforzo di “chiarezza” e di “semplicità”, risulta alquanto criptica.
Acciaiuoli, nel presentare il primo dei tre metodi per ritrovare il “giusto mezzo”, coerentemente con il testo di Aristotele, era partito dall’opposizione che intercorre fra vizio e virtù, ovvero fra il medio e i suoi due estremi. Poiché, sostiene, uno dei due estremi sarebbe maggiormente opposto al medio rispetto all’altro, bisogna fuggire massimamente da questo estremo più, per così dire, “nocivo”, e avvicinarsi dunque all’altro, scegliendo, pertanto, il “male minore”22:
Haec est secunda pars in qua philosophus affert tria documenta inveniendi medium. primum sumitur ex parte oppositionis medii ad extrema: secunda nostra ex parte: tertium ex parte voluptatis. in prima affert documentum ex oppositione quae est inter virtutem et vitium, vel inter medium, & extrema, quia dixit quod medium magis opponitur uni extremorum quam alteri. Ergo qui vult inveniri medium dicit philosophus, fugiat maxime ab eo extremo, quod magis opponitur medio, & ubi nonnulli in textu habent Calypso: vult dicere Circe. Est enim Homeri versus: quo admonet Ulyssem variis navigationibus errantem post excidium Troiae ut extra fluctum et fumum navem adigat, id est, ut evitet scyllam & charybdim, & ubi fiunt signa quaedam ex quibus cognoscuntur, scilicet ex fumo & fluctibus ut ait Homerus. at si non possumus omnino attingere medium: saltem sumamus minus malum iuxta vetus proverbium, secunda quandoque navigatione esse utendum, id est, ut agamus eo modo quo melius possumus: si eo modo quo volumus non licet (f. 39v, § 58).
Di tutta questa spiegazione in Segni rimane ben poco, ovvero i soli “partendoci dal più contrario estremo alla Virtù” e “scosti la nave più ché e’ può dallo scoglio, che di quei due è il più cattivo” e, quel che è peggio, non sopravvive nemmeno il riferimento alla proverbiale “seconda navigazione” (EN II 9, 1109a33-34: κατὰ τὸν δεύτερον, φασί, πλοῦν), terribilmente tradotta con un “nel secondo grado di bontà navigando (come si dice)”. A quanto pare, Segni aveva molta poca dimestichezza pure con Platone, che menziona più volte questo il proverbio (Phaed. 99d1; Pol. 300c2; Phil. 19c2-3) e, almeno in questo caso, ha consultato male le sue traduzioni latine23.
Correlata con questi sforzi volti alla semplificazione è, a mio avviso, anche un’altra tendenza molto significativa e volta, per così dire, alla “attualizzazione”. Già David Lines (Lines 2013, 830–32 e 849–52) e, prima di lui, Ullrich Langer avevano portato l’attenzione su questo aspetto: il primo, in particolare, sui riferimenti alle dottrine luterane, il secondo sul problema della stessa natura del commentario, che si pone come “a narrative of the process of ‘espositione’, and at the same time as a narrative of the practice of the ethical point which is being expounded” (Langer 1999, 114–122 in part. 120)24.
In questa sede vorrei richiamare l’attenzione su altri casi curiosi.
Commentando EN II 3, p. 1105a10-16 (ἔτι δὲ χαλεπώτερον ἡδονῇ μάχεσθαι ἢ θυμῷ, καθάπερ φησὶν Ἡράκλειτος, περὶ δὲ τὸ χαλεπώτερον ἀεὶ καὶ τέχνη γίνεται καὶ ἀρετή· καὶ γὰρ τὸ εὖ βέλτιον ἐν τούτῳ. ὥστε καὶ διὰ τοῦτο περὶ ἡδονὰς καὶ λύπας πᾶσα ἡ πραγματεία καὶ τῇ ἀρετῇ καὶ τῇ πολιτικῇ· ὁ μὲν γὰρ εὖ τούτοις χρώμενος ἀγαθὸς ἔσται, ὁ δὲ κακῶς κακός. ὅτι μὲν οὖν ἐστὶν ἡ ἀρετὴ περὶ ἡδονὰς καὶ λύπας, καὶ ὅτι ἐξ ὧν γίνεται, ὑπὸ τούτων καὶ αὔξεται καὶ φθείρεται μὴ ὡσαύτως γινομένων, καὶ ὅτι ἐξ ὧν ἐγένετο, περὶ ταῦτα καὶ ἐνεργεῖ, εἰρήσθω)25, in cui lo Stagirita, sostenuto il principio secondo cui alla base dell’etica c’è un uso corretto del piacere e del dolore, afferma che l’arte e la virtù rientrano nell’ambito delle cose ‘difficili’ (χαλεπώτερον), il Segni chiosa:
Ove [Oltradiquesto egli è più difficile impresa] Cavasi quivi la quarta, & ultima in questo modo, secondo il detto d’Heraclito egli è più difficile impresa vincere il piacere ché l’ira; la Virtu, et l’Arte stanno intorno al più difficile: Adunche elleno stanno intorno al piacere. Et questo è certissimo chè elleno stieno intorno al più difficile, perché in tal modo l’opera loro è più eccellente, com’è verbigratia nella Virtù della Temperanza, dove più bella operatione è l’astenersi da’ gran piaceri del senso che da’ piccoli Et com’è verbigratia nell’Arte del sonare il Liuto, ò dell’Arte scultoria, ò Pintoria, dove nell’una è più bella operatione il sonarlo esattamente, come lo sonava ne’ tempi nostri Francesco da Milano, ché come lo suonano molti altri; & nell’altre il rendere le Figure simiglianti alle vive cose, come ne’ tempi nostri fà in amendue il nostro Michelagnolo Buonarroti, ché non è il far’ l’una, et l’altra cosa con mediocre artifitio, come fà la più parte (88).
confermando la difficoltà delle arti e la conseguente loro eccellenza tramite gli esempi di due personaggi noti ai lettori fiorentini del tempo (e non solo), quali Michelangelo Buonarroti e il liutista Francesco da Milano, ovvero Francesco Canova (o Canona), morto pochi anni prima (il 15 apr. 1543), ma che aveva lavorato, tra gli altri, per i Medici, nelle persone dei papi Leone X e Clemente VII e del cardinale Ippolito26.
Non v’è nulla di sorprendente nel fatto che un fiorentino, che tra l’altro lavorava per la famiglia de’ Medici, mostri così tanto interesse per l’arte e ne è una riprova anche il gustoso caso del camaleonte, citato a mo’ di esempio da Aristotele a EN I 10, p. 1100b4-8 δῆλον γὰρ ὡς εἰ συνακολουθοίημεν ταῖς τύχαις, τὸν αὐτὸν εὐδαίμονα καὶ πάλιν ἄθλιον ἐροῦμεν πολλάκις, χαμαιλέοντά τινα τὸν εὐδαίμονα ἀποφαίνοντες καὶ σαθρῶς ἱδρυμένον27.
La menzione di questo animale offre a Segni lo spunto per un ampio excursus, in cui addirittura smentisce, pur senza nominarlo, l’Acciaiuoli, che, non avendo mai visto un camaleonte e fondandosi solo su una pseudo-etimologia del nome, aveva sostenuto che esso fosse un “animal parvo leoni simile”28. Ecco cosa scrive Segni in proposito:
Camaleonte (per dir’ qualcosa di questo Animale) risguardando all’etimoglia del vocabolo, significa un’ Lione piccolo, dà χαμαιλέων, che vuol dire Humileon. Ma il senso riprova ciò non esser’ vero, perché secondo chi n’ hà scritto, & per quello, che d’un’ ritratto dell’istesso animale, che già vivo fu portato à Papa Lione X, hò veduto, ha egli forma di Ramarro, havendo il capo di Ranocchio, la coda lunga, & ritorta, i piedi come di pecora, mà bassi, & diritti, il colore vario come il Liopardo; & di tal maniera debolmente colorato, ché quasi è senza colore alcuno: onde si dice esser’ atto à ricever’ tutti i colori di quelle cose, dove e’ s’appoggia. Nasce tal’ Animale in India, & dicesi chè e’ non si nutrisce d’altro ché d’Aria. La qual cosa, come possa stare, è difficile seguendo l’oppenion’ d’Aristotile, che non vuole, chè l’Animale si possa nutrire d’un solo elemento. Mà ella non è difficile à chi ben’ considera, chè l’aria, di che e’ si pasce, non è semplice elemento, mà vaporoso, et composto. Mà ritornando alla similitudine, per che egli è addotto in esempio, tale è per mostrare la variatione del felice; conciosia chè | tale Animale si cangi ad ogni colore: il che nasce in lui, perchè e’ non è colorato, che si vegga, et di color’ manca per mancamento di sangue, che lo fa di colore quasi insensibile, & conseguentemente lo fà molto timido (61-62).
Come dimostra la frase “secondo chi n’ hà scritto, & per quello, che d’un’ ritratto dell’istesso animale […] hò veduto”, neppure lui aveva una conoscenza diretta del rettile. L’identificazione delle fonti scritte cui allude, tra le quali possiamo annoverare, ad esempio, una sezione dell’aristotelica Historia Animalium dedicata al rettile (II 11, 503a15-b28), molto probabilmente a lui ignota29, è impresa molto ardua, ma qualcosa possiamo dire sul ritratto, ritraente un camaleonte che, ancora vivo, era stato regalato al papa Leone X, al secolo Giovanni de’ Medici (Firenze, 1475 – Roma, 1521).
Della curiosità del papa mediceo nei confronti di questi animali esotici è testimonio Giorgio Vasari, che, proprio in quegli anni, sempre per i tipi di Torrentino, dava alle stampe le Vite (Vasari 1550). In proposito, lo storico dell’arte racconta che un allievo di Raffaello, Giovanni da Udine (1487-1561), “il quale per contrafare animali è unico e solo, fece in ciò tutti quegli animali che Papa Leone aveva, il cameleonte, i zibetti, le scimie, i papagalli, i lioni, i liofanti e gli altri animali stratti [scil. «stranieri»]”30.
La mano di questo pittore è in genere riconosciuta nelle grottesche delle Logge Vaticane e si è anche ipotizzato che sia lui l’autore degli animali che compaiono nella Creazione degli animali, un affresco che abbellisce la prima volta della cosiddetta Loggia di Raffaello31.
Non mi è dato sapere se fra le grottesche si annidi qualche camaleonte né ho potuto scovarlo nella Creazione degli animali, che pure presenta molti animali esotici, fatto sta che probabilmente non è necessario andare fino a Roma per trovare il nostro rettile.
Il medesimo Vasari, infatti, nella Vita di Andrea del Sarto, descrive un affresco commissionato al pittore, per conto del papa, da Ottaviano de’ Medici per la villa medicea di Poggio a Caiano (Prato). Si tratta di un Tributo a Cesare32, che il pittore dipinse intorno al 1520, ma che, per la morte del papa, rimase, e lo era ancora ai tempi di Vasari e Segni, incompiuto (sarà completato da Alessandro Allori solo nel 1582). Come dice lo stesso Vasari, “Et inoltre figurò a sedere in su quelle scalee un nano che tiene in una scatola il camaleonte, che non si può imaginare nella disformità della stranissima forma sua, la bella proporzione che gli diede” (Vasari 1550, 756).
È fuori di dubbio che sia questo il ritratto incriminato e, se mai fosse necessario, ce lo conferma il fatto che l’animale è ivi quasi bianco, cosa che collima con la descrizione di Segni, che lo definisce “di tal maniera debolmente colorato, ché quasi è senza colore alcuno”.
Il camaleonte di Aristotele era però un esempio e, in realtà, forse solo una citazione poetica33, introdotta per spiegare la paradossalità di una definizione di εὐδαιμονία legata alle vicende della τύχη (i “beni di fortuna” di Segni): al contrario, la εὐδαιμονία è, nelle parole dello Stagirita, μόνιμος e μηδαμῶς εὐμετάβολος (cf. EN I 11, p. 1100b2-3) e sta in una posizione, per così dire, intermedia fra la ἀθλιότης e la μακαριότης, condizioni che, a loro volta, si collocano nella sfera della τύχη (p. 1101a6-8: ἄθλιος μὲν οὐδέποτε γένοιτ’ ἂν ὁ εὐδαίμων, οὐ μὴν μακάριός γε, ἂν Πριαμικαῖς τύχαις περιπέσῃ)34.
Per Bernardo Segni, rampollo di una famiglia repubblicana caduta economicamente in disgrazia e costretto a porsi al servizio dei Duchi, sempre soggetto alle invidie e all’aperta ostilità degli altri membri dell’Accademia Fiorentina, che gli rimproveravano lo scarso pedigree universitario e il suo collaborazionismo con i Medici, ma che però covava sempre dentro il suo cuore sentimenti repubblicani, il camaleonte diviene invece la metafora di una condizione ben nota a chiunque, come lui, fosse un frequentatore delle corti e che emerge proprio in coda all’estratto sopra citato: “Per la qual ragione s’assomiglia egli anchora convenientemente alla natura degli Adulatori, i quali per mancar’ d’animo s’accordano alle voglie di tutti coloro, con chi essi conversano” (62).
In conclusione, con buona pace di adulatori e detrattori, sebbene, nel corso di questa rapida rassegna, abbiamo potuto confermare la poca competenza filologica dell’autore, attraverso alcuni esempi, finora, per quanto ne sappia, ignorati, di commenti pletorici, se non proprio futili, di citazioni imprecise, talora anche di traduzioni erronee, sarebbe ingeneroso biasimarlo per i risultati da lui raggiunti. Le finalità divulgatorie, ma, forse ancor di più, quelle educative, rendono a mio avviso giustizia ad una opera che, sebbene nata in una Accademia, era pur sempre proiettata soprattutto verso un pubblico di non specialisti, i quali, più che da complesse questioni filologiche e filosofiche, dovevano essere maggiormente attratti da esempi concreti e legati all’esperienza di tutti i giorni, quali appunto dovevano essere i camaleonti, se non quelli reali, almeno quelli metaforici35.
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Nota