Artículo de reflexión
Spettralità: la giustizia tra la vita e la morte
Spectrality: justice between life and death
Spettralità: la giustizia tra la vita e la morte
Cuestiones de Filosofía, vol. 8, núm. 30, pp. 73-88, 2022
Universidad Pedagógica y Tecnológica de Colombia (UPTC)
Recepción: 26 Noviembre 2021
Recibido del documento revisado: 15 Marzo 2022
Aprobación: 22 Marzo 202s2
Resumen: Esta contribución tiene como objetivo principal el concepto de 'espectralidad' (spettralità) en el pensamiento de Jacques Derrida. Partiré de un examen terminológico inicial, en el que el concepto de 'espectro' (spettro) es confrontado con el de 'espíritu' (spirito). Señalaré posteriormente cómo el 'espectro' es un instrumento deconstructivo en cuanto pone en discusión las dicotomías clásicas de la filosofía occidental: ausencia/presencia, vida/ muerte, alma/cuerpo, personal/impersonal, real/virtual. Culminaré con algunas consideraciones respecto a las implicaciones éticas de la idea de 'espectro' a través de una confrontación (confronto) con Heidegger sobre la cuestión de la justicia.
Palabras clave: Derrida, espectro, vida/muerte, destruccion, justicia.
Abstract: The main subject of this contribution is the concept of spectrality in Jacques Derrida's thought. I will start with an initial terminological examination, in which the concept of spectrality is compared with that of spirit. I will then go on to show how the spectre is a deconstructive tool as it questions the classical dichotomies of Western philosophy: absence/presence, life/ death, soul/body, personal/impersonal, real/virtual. I will end with some considerations about the ethical implications of the idea of the spectrum through a comparison with Heidegger on the question of justice.
Keywords: Derrida, spectrum, life/death, deconstruction, justice.
In un suo saggio Roberto Esposito sottolinea come il suo forte debito con Jacques Derrida, evidente nel metodo stesso del filosofo italiano (che potremmo definire anch'esso decostruttivo), abbia progressivamente condotto all'emergere di profonde divergenze. Tali distanze si sono rese esplicite in particolare dal momento in cui Esposito ha iniziato ad avvicinarsi al tema della vita, alla ricerca di una biopolitica affermativa, attraverso lo sviluppo dei suoi concetti di communitas (Esposito, 1998) e soprattutto di immunitas (2002), letti proprio con le lenti biologiche e biopoltiche, che lo conducono a trovare anche nel terreno dell'impersonale il loro sbocco naturale (2007). Non è un caso che all'influenza metodologica derridana, accompagnata da un interesse verso autori impolitici quali Weil, Blanchot, Bataille, vada sempre più nettamente affermandosi l'influenza di pensatori quali Foucault e Deleuze. Dice Esposito:
Si potrebbe arrivare a dire che il discrimine fondamentale della filosofia novecentesca passi tra coloro che pensano la vita a partire dall'orizzonte della morte -come Heidegger, Freud e lo stesso Derrida- e coloro, come Nietzsche, Bergson e Foucault, che pensano la morte a partire dall'orizzonte della vita. Che non presuppongono la morte alla vita e anzi la fanno finita con la logica stessa del Presupposto (...) Forse il senso stesso della filosofia contemporanea sta nel rompere quest'incantesimo, nel ricacciare nelle tenebre questo antichissimo fantasma, nel liberarsi insieme dal Precedente e dall'Adveniente, a favore di un presente senza resti, di una coincidenza assoluta della vita con se stessa (2010, p. 140).
Derrida, quindi, nella prospettiva di Esposito, finirebbe per considerare la vita a partire e sullo sfondo della morte, perdendone cosi l'intrinseca potenzialità ed energia e rinunciando a considerare l'irriducibile presenza della vita. In effetti, la morte costella tutta l'opera derridiana, in modo più o meno esplicito1. Tuttavia, nel discorso decostruttivo del filosofo francese, la presenza della morte implica anche la sua profonda messa in discussione, la ridefinizione dei suoi limiti e, quindi, insieme, ripensare anche la vita, attraverso un ripensamento degli stessi concetti a cui questi eventi sono normalmente associati.
Cosa significa, infatti, oggi, considerare la vita nella "coincidenza assoluta con se stessa", come dice Esposito? È possibile conservarne il suo statuto sempre più ibrido e dinamico senza ripensarne i contorni e le coppie dicotomiche in cui essa era inserita? Noi, abitanti del mondo tecnologico, sperimentiamo ogni giorno il continuo sporgere della vita oltre se stessa:
possiamo vivere grazie alle macchine, sia quelle che vengono inserite nel nostro corpo grazie ai passi avanti della medicina e dell'ingegneria biomedica, sia quelle che replicano la nostra identità in uno spazio virtuale, facendola sopravvivere al nostro effettivo essere al mondo.
Per comprendere e riconoscere la vita nel suo senso assoluto, quindi, al contrario la soluzione potrebbe risiedere proprio nel ridisegnare i limiti stessi della vita e il suo rapporto con quello che il filosofo italiano definisce nel passo appena citato "antichissimo fantasma", ossia il suo altro. Allora la proposta Derridiana potrebbe dare ancora delle risposte sul terreno di una vita sempre più virtuale ed evanescente. Ed è proprio attraverso quell'antichissimo fantasma che è il fantasma stesso, o meglio lo spettro, che in Derrida la vita può essere ripensata e con essa tutti i suoi confini sempre più incerti.
A questo scopo, in questo intervento cercheremo di indagare il senso della categoria di spettralità, come esempio dell'indecidibilità e della contaminazione del termine vita e come strumento per una possibile interpretazione della nostra condizione attuale. La figura dello spettro si aggira e inquieta (hante, in francese) molti luoghi del pensiero derridiano (soprattutto nel famoso Spettri di Marx) e si intreccia con altri temi centrali della sua riflessione, quali la traccia, la giustizia, l'evento. Il modo in cui Derrida utilizza questo concetto, come vedremo, ha il pregio di tenere insieme lo spazio descrittivo con quello etico, finendo per disegnare un'hantologie che si propone come un'alternativa all'ontologia e che dà vita a una proficua commistione tra piano etico e metafísico. Partirò da una iniziale disamina terminologica, in cui il concetto di spettro è osservato nelle sue differenze e peculiarità, passerò poi a mostrare come esso metta in discussione le classiche dicotomie rispetto cui la vita è stata considerata nella filosofia occidentale. Terminerò con alcune considerazioni riguardo alle potenzialità etiche di questo concetto.
1. Partiamo quindi proprio dal termine 'spettro'. Esso possiede due significati principali, e questa ambivalenza ci rivela già qualcosa. Nel primo e più noto senso lo spettro è quell'entità soprannaturale, spesso un defunto, che appare a chiedere vendetta o giustizia. L'altro significato, invece, appartenente all'ambito della scienza fisica e dell'ottica, indica quel fenomeno di rifrazione della luce che si propaga, passando attraverso una determinato materiale o sostanza, e rivela la sua natura complessa. Già cosi vediamo che si tratta di qualcosa soprannaturale, come nel caso del fantasma, e di naturale, la descrizione di un fenomeno scientifico. In entrambi i sensi il riferimento alla vista risulta evidente, una vista atipica, che in un certo senso è più sottile, in quanto permette di cogliere qualcosa che non c'è, o c'è in modo differente: "lo spettro (...) è la frequenza di una certa visibilità" (Derrida, 1994, p. 129). L'impalpabilità di questa dimensione non rende infatti meno vero e meno presente lo spettro, che infesta (nel caso del fantasma) e costituisce (nel caso della luce) la realtà. È quindi una manifestazione (fantasma e fenomeno si riferiscono entrambi a phainomai), che nel suo apparire si mantiene in bilico tra realtà e apparenza. Il riferimento a questo termine nell'opera di Derrida è più marcatamente rivolto al suo senso per cosi dire "soprannaturale", in quanto inserito in quel gruppo semantico che ha come logica la cosiddetta hantologie. Tuttavia tenere presente anche il secondo senso, come consiglia di fare Francesco Vitale (2008), può risultare utile. È proprio questo ambito che rivela il valore scientifico e metodologico della decostruzione, che, non solo decifra il mondo e lo scopre popolato da entità spettrali, bensi come una scienza, anzi, una "doppia scienza" (Derrida, 1997a, p. 406), può essa stessa riprodurre e indurre questi spettri a manifestarsi. Come con un prisma, è la decostruzione che in un certo senso allarga e moltiplica le contraddizioni di una concettualità ormai incapace di rendere conto della realtà e che ne permette la ricomposizione sotto nuova forma e senza pretese di compiutezza.
Tornando al nostro termine, è utile confrontare lo spettro con un altro, ossia quello di spirito, con cui spesso si trova ad essere sovrapposto e la cui fortuna in campo filosofico è stata sicuramente più ampia. Una differenza che propriamente non è nulla (è infatti piuttosto una différance), poiché entrambi non sono qualcosa, ma comunque una distinzione dovuta a un principale aspetto: lo spirito è considerato, soprattutto dalla filosofia moderna in poi, come polo (positivo) contrapposto alla materia. Lo spettro invece, sfugge a questa distinzione: esso mantiene una dimensione materiale, corporea: "lo spettro è una incorporazione paradossale, il divenir-corpo, una certa forma fenomenica e carnale dello spirito" (Derrida, 1994, p. 13). Questa dimensione paradossale permette di pensare insieme un senso universale e uno invece singolare, per cui Derrida parla di spettri, al plurale, mentre lo spirito, nella sua universalità inglobante, non può che trovarsi al singolare, neutralizzando la molteplicità nell'Uno. Lo spettro è sempre lo spettro di qualcuno, laddove lo spirito punta proprio al distacco da ogni forma di riconduzione al limite e alla contingenza. È nella filosofia di Hegel (2000) che lo Spirito trova la narrazione più ampia e più gloriosa della sua storia, della storia del suo ritorno a sé nella rilessione del suo chiudersi dialettico circolare. A differenza del Geist hegeliano, quindi il cui processo di auto realizzazione comprende sotto di sé i momenti dialettici armonizzando le differenze in una sintesi, lo spettro accompagna sempre il reale come il suo doppio irriducibile, come un resto perenne senza possibilità di sintesi. Alla filosofia hegeliana della riflessione, la filosofia dello specchio che nel duplicare riconduce a sé l'immagine che ha posto al di fuori, si contrappone la tecnica decostruttiva del prisma, che rompe il cerchio e dissemina i molteplici raggi di cui è composta ma a cui non è riducibile2.
Non solo in Hegel, ma anche in Heidegger la questione dello spirito è tematizzata, e Derrida compie un confronto serrato con essa, che ci permette di cogliere altri aspetti dello spettro. È in un certo senso proprio dello spirito che Heidegger non riesce a liberarsi, come Derrida mette in luce nel testo intitolato, appunto, Dello spirito. Sebbene il pensatore tedesco, sin dai tempi di Essere e Tempo sostenga la necessità di "evitare" tale nozione, carica di significati metafisici, e sebbene cerchi durante tutta la sua produzione di depurare tale termine per giungere a un suo senso pre-originario e autentico, egli continua a utilizzarlo. Inizialmente Heidegger mostra una certa cautela nell'utilizzo di questo termine, ma l'uso delle virgolette finisce per enfatizzare e riabilitare lo spirito, piuttosto che porlo in discussione: "la catarsi delle virgolette lo libera dalle sue impronte volgari, uneigentlich, cioè latino-cartesiane. Prende avvio cosi all'altro capo dello stesso libro un lento lavoro di riappropriazione che si confonderà (…) con una ri-generazione" (Derrida, 1989, p. 32). A questo primo gesto segue una ripresa nel 1933, all'epoca del Discorso sull'autoaffermazione dell'università tedesca, che giunge sino al dialogo con il poeta Trakl, in cui lo spirito diviene la parola stessa in cui è contenuta la promessa dell'essere e il suo significato originario. Heidegger non porta sicuramente avanti un pensiero sullo spirito inteso in senso hegeliano, e nemmeno in senso francese a lui contemporaneo. Anzi, cercando di abbandonare tali visioni egli si muove verso un senso "eterogeneo all'origine" (p. 99), ma nel suo tentativo di risalire all'archi-originario egli rimane legato a un'idea di autenticità che non può sfuggire a quel fondo ontologico che come il suo doppio accompagna sempre lo spirito. La predilezione derridiana per la questione dello spettro si spiega quindi proprio alla luce del suo confronto con lo spirito heideggeriano, rivelando sin da subito il carattere paradossale della sua prospettiva filosofica. Non mancano, come lui stesso sottolinea, anche nel campo dello spettro riferimenti illustri che ne hanno fatto uso filosoficamente (primo tra tutti quello del comunismo evocato da Marx), ma nel caso di Derrida, come spesso accade, il termine diviene l'occasione e la via d'accesso per giungere al nocciolo delle più profonde domande filosofiche, il punto da cui partire per provocare gli smottamenti nel pensiero occidentale.
2. Tenendo presente queste distinzioni terminologiche rispetto a ció che lo spettro non è, è possibile rintracciare i termini che compongono l' hantologie derridiana. Essa è la decostruzione stessa, ossia una logica differente dall'ontologia, poiché lo spettro propriamente non è, e oltre a questo scompagina ogni polo della concettualità di cui la tradizione filosofica è costituita. Nella logica spettrale le coppie oppositive perdono il loro senso. Come abbiamo già visto nel riferimento allo spirito, tra queste coppie dicotomiche la distinzione tra anima e corpo lascia spazio a un'idea di corpo immateriale, un ologramma, potremmo dire, che nondimeno mantiene una corporeità impalpabile. Tale dimensione è ricondotta, nell'intervista con Bernard Stiegler (Derrida e Stiegler, 1997), all'ambito della televisione e della fotografia, le quali vengono appunto definite spettrografie, in quanto impressioni ed evocazioni di un'immagine che sopravvive alla presenza del suo referente. Laddove c'è riproduzione, come nei mass media, c'è una un differimento, che a parere di Derrida rende evidente il carattere frammentario e multidimensionale della realtà. È la stessa tecnica fotografica a rivelare questa evanescenza: la contiguità tra la luce che si staglia sul volto del ritratto e la sua impressione rendono conto di una dimensione corporea che allo stesso tempo può essere fruita, come nella fotografia, ma lascia sempre nell'insoddisfazione non tangibile. Non solo televisione e fotografia, ma anche il cinema, come dichiara in un'intervista del 2001, "è l'arte di evocare fantasmi" (Derrida, 2002, p. 53), in quanto esso "permette cosi di coltivare (...) degli 'innesti' di spettralità, cioè iscrive delle tracce di fantasmi su una trama generale, che è la pellicola proiettata, essa stessa un fantasma" (p. 57). Quindi, è il cinema stesso a essere spettrale e fantasmatico, attraverso la riproduzione e l'evocazione di una realtà che perde la sua corporeità, lasciando solo l'immagine di sé, o la sua voce, come nel caso della radio. L'atto filosofico che meglio illustra la funzione fantasmatica dell'ambito cinematografico, più che gli scritti dedicati a questo tema è la sua partecipazione, interpretando se stesso, o meglio, il fantasma di se stesso, nel film del 1983 Ghost Dance di Ken Mc Mullen. Nella pellicola Derrida dichiara: "(…) credo che la moderna tecnologia dell'immagine, della cinematografia e della telecomunicazione aumenti il potere dei fantasmi e la loro capacità di ossessionarci"3. La visione del film oggi, dopo la morte dello stesso Derrida, sembra aggiungere un ulteriore livello di spettralità al metadiscorso derridiano.
Derrida, indubbiamente, non è il primo ad aver avvicinato la tematica dei media al tema dello spettro, anzi, essa è stata ampiamente indagata. Si pensi, ad esempio, al concetto di 'fantasmagoría', di cui Walter Benjamin (2012) fa ampio utilizzo nelle sue rilessioni sui media, ma anche Barthes rimanda all'ambito spettrale della fotografia, parlando proprio di "effetto fantomatico" (Barthes, 1990). Ma ancor di più la teoria del simulacro di Jean Beaudrillard (2008), che, per quanto distante dalla posizione derridiana4, utilizza la stessa dimensione fantasmatica per confrontarsi con il mondo mass-mediale. Il tema di fondo, assai trattato anche in relazione alla scrittura, è quello dell'assenza. In Firma, evento e Contesto, (Derrida, 1997a) questa peculiarità della scrittura è analizzata a partire da Condillac, il quale nel suo Saggio sull'origine delle coscienze umane descrive la scrittura come un mezzo di comunicazione, inventato al fine di veicolare pensieri e idee in assenza dell'autore del pensiero. È quindi l'idea di assenza, contrapposta a una presenza piena della voce, a caratterizzare secondo la tradizione il discrimine tra scrittura e discorso orale. Tale assenza si esprime anche sotto forma di permanenza: il testo scritto sopravvive alla morte del suo autore, e si trova ad essere letto fuori ed oltre il contesto in cui è stato prodotto. Tale processo, ancor prima che essere identificato come permanenza, si definisce come possibilità di ripetizione. Questi aspetti, dai quali consegue la possibilità di rottura tra l'intenzionalità del soggetto e ciò che comunica, non è ammessa, nella tradizione occidentale, per il discorso orale. L'entrata in scena della fotografia, della televisione, del cinema sembrano allora confermare il discorso derridiano, volto al superamento anche nel caso del discorso orale, del suo collegamento univoco alla dimensione della presenza. Non solo la scrittura, infatti, ma anche l'immagine e la voce possono, con l'aiuto della tecnica, rendere presente ciò che non lo è, riempiono il mondo di tracce, di rimandi ad una presenza che perde la solidità che gli era stata attribuita nel pensiero metafísico. Una presenza che è sempre differita, che non accetta di piegarsi alla linearità del tempo, bensi lo arrotola come un gomitolo. Quindi i media, in particolare i contemporanei social media, eliminano la netta contrapposizione tra presenza e assenza, come lo spettro che, nell'assenza assoluta della morte rievoca una presenza intangibile ma non per questo meno reale.
Una vicinanza, quella tra mondo mediale e spettro che infondo non sorprende, se, con atteggiamento derridiano, andiamo a liberare la plurivocità dei termini: il medium, nel lessico spiritista, infondo, non è anche chi evoca e parla coi fantasmi?
Se già quindi nel Ventesimo secolo la spettralità si associa all'ambito tecnologico dei media, oggi essa diviene ancor più evidente, nello spazio virtuale del web, parte integrante della nostra esistenza. Il limite stesso della vita sembra proprio attraverso il virtuale aver subito un profondo cambiamento: non solo, infatti, la realtà di internet ha reso sempre più ampia e veloce la circolazione di immagini, contenuti e messaggi che assumono una sempre maggiore autonomia rispetto al proprio autore; ma noi stessi siamo sempre accompagnati da un nostro doppio, una nostra identità supplementare ma altrettanto vera, che spesso sfugge a nostro controllo. Si pensi al mondo degli avatar, o quello dei social network, in cui continuiamo a vivere anche quando siamo off-line, e alla moltitudine di dati ad esso associati che profilano la nostra identità oltre la nostra intenzionalità.
Se quindi la spettralità derridiana si deve mettere in rapporto con il differimento tra presenza e assenza, essa pone ancor più in discussione la netta distinzione tra vita e morte. Ed è cosi che nel suo corso del 1975-76 la e che divide i due termini scompare: la vie la mort (Derrida, 2019). Lo spettro è sul limite, né vivo né morto, un morto vivente, in cui le due dimensioni si rincorrono senza mai prevalere l'una sull'altra. Se in effetti l'attenzione alla morte è centrale in tutta l'opera derridiana, come dice Esposito, essa non è affrontata attraverso la logica del fondamento, ma sempre posta nel cuore stesso della vita (e viceversa). Nel suo confronto sul tema rispetto alla proposta heideggeriana dell'essere-per-la-morte (soprattutto in Aporie e in Donare la morte) egli si esprime proprio in contrapposizione a questa logica del presupposto e del fondamento espressa soprattutto nello Heidegger di Essere e Tempo attraverso l'idea di una comprensione esistenziale della morte che precede e fonda la vita autentica del Dasein: la morte non precede la vita, poiché non c'è nessun ordine cronologico, nessun ordine logico, nessun ordine ontologico "Mi riferisco in questo modo a tutt'altra logica dell'ordine: se ci sono questioni legittime e forti sul fondamento e sul 'già' della condizione di possibilità, sono esse stesse rese possibili e necessarie da un rapporto con la morte, da un 'la-vita-la-morte' che non rientra più nel caso che rende possibile. È ciò che chiamerei l'aporia (...)" (Derrida, 1999, p. 60).
Nessun primato, quindi, nemmeno quello della morte dell'altro à la Levinas: la vita diviene quell'indecidibile che contiene in sé sia la vita che la morte, in quel "Je voudrais apprendre à vivre enfin"" (Derrida, 1994, p. 3), espressione che ambiguamente tiene insieme l'idea dell'insegnare e dell'imparare, e che descrive proprio in quell''enfin il confine e il limite di due realtà che si rincorrono in modo dinamico, senza poter trovare una fissazione puntuale. Una logica altra, aporetica e paradossale, che non si limita a paralizzare nella contraddizione, bensi ne integra e ne eleva le sue parti senza annientarne le differenze. Non si tratta quindi di una prevalenza, ma di una ridefinizione, che in effetti si presta alla rappresentazione delle attuali realtà virtuali, ibride, digitali che popolano il nostro mondo e sempre più spesso anche noi stessi. Ma anche su cosa significhi questo "noi stessi", lo spettro sembra poter dire qualcosa. È infatti la diade personale/impersonale ad essere posta sotto esame e a perdere la sua efficacia. Considerando in Spettri di Marx l'Io stirneriano e ampliando la questione all'idea di cogito cartesiana (e di Io kantiano), Derrida sottolinea come l'idea stessa di Io si trovi sempre strettamente legata ai suoi spettri, non riuscendo quasi più a distinguersi da essi: "Ma quest'Io, questo individuo vívente, sarebbe a sua volta abitato, e invaso dal suo stesso spettro. Sarebbe costruito dagli spettri di cui ormai è l'ospite e che riunisce nella comunità invasata (hanté) di un solo corpo. Io= fantasma" (p. 168).
Ma subito dopo aver affermato questa identità tra soggettività e spettralità, egli compie un ribaltamento, in cui a prevalere è piuttosto l'elemento impersonale, quel ça hante, per cui è lo stesso Io ad essere sempre abitato e a perdere la sua stessa identità, in un gioco in cui la forza di possesso dell'Io finisce per renderlo "posseduto" dai suoi fantasmi: "Non c'è Dasein dello spettro, ma non c'è Dasein senza l'inquietante estraneità, senza la sua familiarità (Unheimlichkeit) con qualche spettro" (p. 129). Anche da questo punto di vista, quindi, la questione dell'inadeguatezza odierna riscontrata riguardo all'idea di persona, che ha portato all'elaborazione di vere e proprie filosofie dell'impersonale, sembra, seguendo Derrida, poter essere affrontata attraverso la figura dello spettro come riconciliazione delle due polarità e la sua applicazione a un mondo popolato da intelligenze artificiali, strutture di big data, reti economico-finanziarie che sicuramente non possono più rispondere al lessico della persona, ma allo stesso tempo non possono dirsi nemmeno del tutto estranee5.
3. Riassumendo, l'idea di spettro elaborata da Derrida permette, attraverso la logica dell' hantologie che è la logica della decostruzione stessa, di ripensare i limiti che intercorrono tra coppie concettuali da sempre tenute come contrapposte e che hanno ormai rivelato la loro inadeguatezza: anima/corpo, vita/morte, reale/virtuale, personale/impersonale. È lui stesso ad affermarlo in modo chiaro: "La logica spettrale è de facto la logica decostruttiva. Essa è l'elemento dell'hantise nel quale la decostruzione trova il suo luogo più ospitale, nel cuore del presente vivente, nella pulsazione più viva del filosofico" (Derrida, 1997a, p. 132).
Tornando quindi alla questione da cui siamo partiti, stimolata dalle parole di Esposito, a differenza di una prospettiva come quella dell'idea di una vita che coincide interamente con se stessa o quella di una vita pensata soltanto a partire dalla morte (come nella visione heideggeriana) mi sembra che questa nozione permetta non solo di descrivere determinati fenomeni, ma (e qui il suo valore aggiunto) di modificarli in modo dinamico, pensandoli da un punto di vista etico. Tale categoria, infatti, non si limita a descrivere una realtà che ha perso i suoi confini netti, bensi permette anche di agire attivamente su di essa, di promuovere un cambiamento, e ciò è possibile proprio a causa del suo legame col tema della giustizia.
Questo legame è analizzato, in particolare, all'interno di Spettri di Marx. Contrariamente a quanto possa sembrare dal titolo, la questione si snoda a partire da un iniziale confronto, ancora con Heidegger, che ci permette di comprendere ancora ulteriori aspetti dello spettro derridiano.
Il saggio comincia con una citazione tratta da l' Amleto di Shakespeare, in cui il protagonista, richiamato dall'apparizione del fantasma del padre a vendicare la sua ingiusta morte, dichiara: "I tempi sono fuori di sesto; brutta sorte, che io debba essere nato per mettere ordine" (Derrida, 1994, p. 9).
Nel testo originale inglese l'espressione con cui è resa la prima parte del verso è the time is out of joint ed è proprio questa a destare l'attenzione di Derrida. Essa è tradotta in francese in vari modi: le temps est hors de ses gonds, la più letterale, le temps est détraqué, le mond est à l'envers, cette epoque est déshonorée. Ciò che viene fatto notare è il passaggio, quasi dato per scontato, tra un senso di stortura e disaggiustamento, e un valore connotato in senso morale di ingiustizia. La stortura del tempo e delle cose del mondo, alla quale Amleto deve porre rimedio, è contrapposta al diritto, alla rettitudine. L'azione della giustizia, nelle mani dell'eroe tragico, deve avvenire dopo il torto, dopo il crimine. È cosi che essa sembra rientrare in una logica circolare che molto non dista dalla logica della vendetta e del calcolo. Ciò che è messo in discussione è proprio questa sovrapposizione tra un'idea di giustizia riparativa e un senso più ampio e originario di giustizia, che a tratti sembra persino porsi in opposizione con essa. Obiettivo di Derrida sarà proprio quello di descrivere questo secondo senso, non più associato al calcolo, al diritto e alla restituzione, al quale l'aggiustamento e l'accordo non può essere ricondotto. Per farlo egli fa entrare in gioco proprio il testo heideggeriano, Il detto di Anassimandro (Heidegger, 1999) in cui, il tema della giustizia trova il suo svolgimento in parallelo a quello dell'accordo e della giuntura6.
Come Amleto, infatti, anche nel Detto i termini ôúcn, e áôtKÍa sono tradotti come Fug e Un-Fug: l'ingiustizia consiste nell'essere fuori di sesto, per cui le cose non vanno come dovrebbero. La giustizia quindi ristabilisce una situazione di equilibrio, e lo fa relativamente al tempo presente, luogo di transito degli enti. A differenza della tragedia shakespeariana, però, Heidegger introduce l'elemento del dono, per cui ciò che è dato è qualcosa che non si ha, la relazione di accordo tra soggiornanti. Questo aspetto è colto e apprezzato da Derrida, e ciò non stupisce, vista l'attenzione del filosofo francese al carattere indecidibile ed incalcolabile del dono (Derrida, 1997b).
Derrida guarda quindi a Heidegger con un doppio giudizio. Da un lato è interpretato come colui che riesce a far emergere questo eccesso della logica economica e della logica della presenza a partire dalla donatività; ma allo stesso tempo egli non sembra portare alle estreme conseguenze il suo gesto, rimanendo ancora intrappolato nella metafísica della presenza. Ciò che bisogna fare, a parere di Derrida, è intendere il tempo senza partire dalla presenza. Non basta, quindi, il riferimento alla traccia, se essa continua a iscriversi in una dinamica di ristabilimento della presenza o se guarda ancora alla purezza del linguaggio. La traduzione dei termini ôúcn e áôtKÍa come Fuge Un-Fug, tradisce, a suo parere, l'esitazione heideggeriana verso un pensiero metafísico. Se infatti la giustizia continua ad essere associata ad un'idea di accordo, essa pensa ancora in termini riconduzione all'uno, eliminando la differenza. Si ritrova ancora vittima di quell'idea di presenza che il pensiero del dono nel suo eccesso era quasi riuscito a superare:
(...) la giustizia come rapporto all'altro, al di là del diritto, e ancor più del giuridicismo, al di là della morale, e ancor più del moralismo, non suppone l'irriducibile eccesso di una disgiuntura o di una anacronia, una qualche Un-Fuge, una dislocazione 'out of joint'nell'essere e nel tempo stesso, una disgiuntura che, per rischiare sempre e comunque il male, l'espropriazione e l'ingiustizia (adikîa), contro cui non c'è assicurazione calcolabile, potreb-be solo fare giustizia o rendere giustizia all'altro in quanto altro? (Derrida, 1994, p. 38).
La giustizia al di là del diritto è ciò che permette all'altro in quanto evento di avvenire, e deve quindi sfuggire ad ogni logica del ritorno e dell'accordo, poiché l'evento non è mai né anticipato né aspettato in quanto tale, ma sempre imprevedibile e aperto alla sua stessa non-venuta. Facendo propria la lezione levinasiana, Derrida afferma che la giustizia è proprio questa relazione asimmetrica con l'altro, che spiazza l'andamento regolare dell'Io e le pretese di completezza dell'Uno. Anche se Heidegger riconosce nella giustizia un senso di relazionalità tra enti via via soggiornanti, ciò rimane comunque iscritto nell'idea di un rapporto la cui importanza non sta nelle singolarità, ma nel legame che le lega l'essere e il suo mantenimento. Ciò che conta, ed è un elemento che abbiamo già riscontrato in alcuni luoghi derridiani, è il fatto che nella relazione ogni singolarità rimanga tale nella sua unicità sfuggendo alla neutralizzazione del formalismo della regola o della legge:
Altrimenti la giustizia rischia ancora di ridursi a regole, norme, o rappresen-tazioni giuridico-morali, in un inevitabile orizzonte totalizzante (movimento di restituzione adeguata, di espiazione o di riappropriazione). Heidegger corre questo rischio, malgrado tante e opportune precauzioni, quando fa prevalere, come sempre, il raccoglimento e lo Stesso (Versammlung, Fuge, léghein, ecc.) sulla disgiunzione implícita nel mio rivolgermi all'altro, su-ll'interruzione che il rispetto comanda, essendone a sua volta comandata, su una differenza il cui unico, disseminato negli innumerevoli frammenti incandescenti dell'assoluto frammisti alle ceneri, non si assicurerà mai ne-ll'Uno (p. 40).
Lo spettro è un evento impresentabile e imprevedibile, che sconvolge sempre la soggettività e le sue pretese di comprensione e che chiede, come un ospite, di essere accolto. Come la traccia, esso avviene in un tempo out of joint, disaggiustato, che sovrappone il passato al futuro e sfugge alla semplice presenza. In questo tempo diacronico, lo spettro è un revenant, che ritorna e insieme non è mai stato qui, e nell'inquietare il soggetto con la sua presenza lo ingiunge al rendergli giustizia.
La giustizia derridiana, per riprendere il nostro discorso iniziale, potrebbe essere interpretata proprio con questa relazione allo spettro, anzi, agli spettri, che, presenti a partire da un tempo immemorabile e paradossalmente sconnesso, sollecitano alla responsabilità per l'altro; mentre la giuntura della giustizia heideggeriana guarda ancora a un'idea, seppur rigenerata e riabilitata, dello spirito, in cui l'alterità del singolo evento è lasciata essere, ma ancora in funzione dell'originaria parola autentica.
E in cosa consiste la giustizia in relazione allo spettro? Essa consiste, messianicamente, in un lavoro mai compiutamente ultimato di accoglienza dell'altro in tutte le sue forme: come altro delle coppie linguistiche oppositive, come evento imprevedibile, ma anche come altro uomo, lo straniero che ci chiede soccorso. La giustizia è, come dice in Forza di Legge, quel "calcolo dell'incalcolabile" (Derrida, 2003) che la logica hantologica permette, creando relazione con l'altro senza assimilarlo né neutralizzarlo. Una pratica ininterrotta che consiste, come la luce nel prisma, di rivelare i fantasmi e la loro complessità, non tanto per eliminarli, ma per riconoscerne la particolare presenza senza cedere alle semplificazioni violente. La giustizia, quindi, ha a che fare coi fantasmi perché in un certo senso combatte contro un pensiero che li esorcizza piuttosto che evocarli, che si rifiuta di ascoltare ciò che hanno da dirci, cercando piuttosto di restringere l'idea di esistenza alla semplice presenza. Il pensiero filosofico della tradizione, infatti, non accetta questa logica paradossale, rifiuta di pensare al di fuori delle dicotomie. La giustizia della decostruzione, invece, sta proprio in questa liberazione del potenziale dinamico del pensiero, nel tentativo di superare i limiti rigidamente fissati per accogliere la plurivocità del reale e le sue contraddizioni.
Come ci dice Derrida: "Bisogna parlare del fantasma, anzi al fantasma e con lui, dal momento che nessuna etica, nessuna politica, sia o meno rivoluzionaria, sembra possibile e pensabile e giusta, senza riconoscere al suo principio il rispetto per quegli altri che non ci sono ancora,presentemente viventi, siano morti o non ancora nati" (1994, p. 15).
La giustizia dello e per lo spettro permette di accogliere l'altro e rispondervi, in modo che la vita sia insieme morte, il soggetto sia inquietato dall'impersonale e l'anima abbia sempre in sé la sua dimensione materiale cosi come il corpo sia sempre intangibile.
Rendere giustizia allo spettro, significa spostare quindi la nostra preoccupazione etica oltre la pura presenza, in uno spazio temporale aperto sia al futuro che al passato. Questa sfasatura temporale ci è imposta non soltanto rispetto alla nostra attenzione per le generazioni passate e quelle future, ma anche rispetto al nostro rapporto con le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione, il quale pone al centro del discorso etico quelle estensioni di noi (i nostri dati, i nostri profili social, le nostre immagini che invadono il web) che infondo sono parte integrante e propria della nostra vita senza coincidere con essa. Anche su un piano bioetico, l'idea di spettralità può intervenire nella descrizione delle forme sempre più sofistícate di ibridazione, senza escludere dal dominio della vita questi nuovi oggetti e soggetti etici, bensi rendendo più mobile e frastagliato tra ciò che è vita e ciò che non lo è.
È cosi, quindi, per concludere, che la vita può essere non semplicemente descritta, ma anche ripensata con un diretto impegno etico affinché sia "giusta", proprio attraverso quello spettro che nell'inquietarci ci insegna a vivere, enfin.
Referencias
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Notas