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Banchetto, vino, morte e amore in Platone
Giovanni Casertano
Giovanni Casertano
Banchetto, vino, morte e amore in Platone
Banquet, Wine, Dead and Love in Plato
Tópicos, núm. 46, e0076, 2024
Universidad Nacional del Litoral
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Sommario: Questo studio tratta delle varie specie di banchetto presso i Greci, e in particolare dell’uso del vino, con un accenno al dio Dioniso. In un simposio ben ordinato, dove gli uomini riescono a comunicare tra di loro e a rafforzare i vincoli di amicizia che li uniscono, si prefigura, nei dialoghi platonici, quel simposio eterno che, nel mito, gli dèi promettono ai buoni, dopo la morte. Ci sono, nel Fedone, vari significati del termine “morte”, quello scientifico, quello psicologico e quello metaforico, ed è proprio in quest’ultimo che la morte viene associata all’amore per una delineazione della mortale immortalità che sola per Platone è concessa agli uomini.

Parole: Platone, banchetto, vino, morte, amore.

Abstract: This study deals with the various types of banquets among the Greeks, and in particular the use of wine, with a mention of the god Dionysus. In a well-ordered symposium, where men are able to communicate with each other and strengthen the bonds of friendship that unite them, one prefigures, in the Platonic dialogues, that eternal symposium that, in myth, the gods promise to the good, after death. There are, in the Phaedo, various meanings of the term “death”, the scientific, the psychological and the metaphorical, and it is precisely in the latter that death is associated with love for a delineation of the mortal immortality that alone for Plato is granted to men.

Keywords: Plato, banquet, wine, dead, love.

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Dossier

Banchetto, vino, morte e amore in Platone

Banquet, Wine, Dead and Love in Plato

Giovanni Casertano
Università degli Studi di Napoli Federico II, Italia
Tópicos, núm. 46, e0076, 2024
Universidad Nacional del Litoral

Recepción: 01 Noviembre 2023

Aprobación: 01 Diciembre 2023

Amori e banchetti si coniugano spesso insieme: durante un banchetto può nascere un amore, ed un amore che nasce si rafforza e si consolida in romantici tête à tête dinanzi ad una tavola imbandita. Questo succede oggi, ma succedeva anche 2500 anni fa, quando tutti i caratteri della nostra civiltà, della nostra cultura, del nostro immaginario, erano non solo nati e si erano affermati, ma erano anche stati fatti oggetto di indagine ed offrivano spunti di riflessione nei più vari campi. Ma nell’amore e nel banchetto sono anche presenti almeno altri due elementi indispensabili: uno, che ancora oggi vive, e l’altro, che è definitivamente sparito. Quello che è sopravvissuto, immortale, almeno finora, è il vino: non è pensabile un banchetto che debba rafforzare legami di amore, o anche soltanto di amicizia, in cui non sia presente il vino; l’altro, che non c’è più, sono gli dèi. Amore, banchetto, vino e dèi formavano per l’uomo greco del V secolo avanti Cristo un tutto strettamente correlato, nel quale ciascun fattore giocava un suo ruolo ben preciso e insostituibile, ma allo stesso tempo concorreva a creare un’unica atmosfera. Oggi gli dèi non ci sono più, e tanto meno nei banchetti: sono stati sostituiti via via da un dio unico, o per meglio dire da diversi dèi, tutti però “unici”, ognuno dei quali aspira a, e pretende di, essere appunto l’unico dio per tutti gli uomini, con il risultato di consolidare le inimicizie e gli odi, di fomentare le incomprensioni e le ostilità, che, se pure hanno la loro origine certamente in campi che sono tutt’altro che religiosi, trovano però nell’ideologia dell’«unicità» un’ottima alleata per giustificare i propri interessi ed i propri egoismi. Oggi gli dèi non partecipano più ai banchetti degli uomini; tutt’al più, la presenza del dio unico, quando c’è o si ritiene che ci sia, è caratterizzata sempre dall’enorme distacco che si stabilisce tra di lui e i banchettanti: gli uomini banchettano tra di loro, ma prima ringraziano il dio unico, che però resta estraneo alla festa e troppo in alto per potersi mescolare a loro. 2500 anni fa, gli dèi invece partecipavano alle feste e ai banchetti degli uomini, quasi fisicamente: il primo sorso di vino era per loro, e se al banchetto partecipavano ospiti stranieri, si chiedeva chi fossero i loro genitori e quali fossero i loro dèi, e con gli uni e con gli altri si brindava amichevolmente tutti insieme.

Qui cercherò di dare qualche esempio di come un grande filosofo del IV secolo a.C. vedeva i rapporti tra amore, banchetto, vino e dèi. Questo grande filosofo è Platone. Ma il Platone di cui tratterò non è certamente quello che ha viaggiato per secoli fino a noi in un’immagine stereotipa e che ancora viene più o meno stancamente accettata e tramandata. Uno stereotipo è un’opinione rigidamente costituita e generalizzata, non acquisita sulla base di un’esperienza diretta, ma tramandata e ripetuta per “sentito dire”, costituitasi in “luoghi comuni” che hanno perso ogni contatto con la realtà cui pretendono di riferirsi. Come è successo, appunto, per Platone. Da quando il suo grande allievo Aristotele lo criticò duramente, l’immagine diffusa della filosofia platonica che ci è giunta e che continua ad essere ripetuta è quella di una filosofia che separa nettamente la realtà concreta delle cose da un mondo di “idee pure” abitanti nell’atmosfera immobile e rarefatta di un sopracielo, l’iperuranio appunto; di una filosofia che separa nettamente anima da corpo, attribuendo alla prima tutte le virtù e al secondo tutti i mali; di una filosofia che prospetta infine sogni irrealizzabili e utopistici, assurdi e privi di qualsiasi fondamento. Questa caratterizzazione si è consacrata e si conserva perfino nell’uso comune che facciamo, nel nostro linguaggio, dell’aggettivo “platonico”, accompagnato a parole come amore, idea, verità, progetto, e proprio ad indicarne la velletarietà e l’inconsistenza e l’utopicità, contrapposte al nostro mondo di cose reali e concrete, di quelle cose cioè che solamente ci dovrebbero interessare. Così non è, naturalmente; colui che legge con occhio appena un poco attento i dialoghi platonici scopre un mondo che non è fatto di astrattezze, di inconcludenze, di velletarietà, ma che è esattamente il nostro mondo; scopre che Platone sta parlando di noi, del nostro mondo di incertezze, inquietudini, errori, fallimenti, ma anche delle nostre relative certezze, delle nostre aspettative, della nostra ricerca di un orizzonte sempre più ampio di espressione e di comunicazione.

Cominciamo dagli dèi e dal vino. Al contrario di quanto ci vieta di fare un nostro proverbio, “scherza con i fanti e lascia stare i santi”, Platone comincia a scherzare proprio con il dio del vino. Nel Cratilo (406b-c) egli fa dire a Socrate che parlare degli dèi, e in particolare discettare sui loro nomi, si può fare σπουδαίως o παιδικῶς, seriamente o scherzosamente. E così continua: «quello serio, chiedilo ad altri; quello scherzoso, invece, nulla impedisce di esporlo: anche gli dèi infatti sono amanti dello scherzo». E allora Platone si permette di scherzare con un dio che ama in particolare lo scherzo, e così inventa fantasiose etimologie: Διόνυσος (Dioniso) sarebbe ὁ διδοὺς τὸν οἶνον (colui che dona il vino), perciò si potrebbe chiamare per scherzo Διδοίνυσος, Didòiniso; e l’οἶνος (vino), poiché fa οἴεσθαι (credere) di avere νοῦς (intelletto) alla maggior parte di quelli che bevono, sebbene non l’abbiano, sarebbe più giusto chiamarlo οἰόνους (che fa credere di avere intelletto). Un Platone quindi che non ha remore a scherzare con quel dio semi-greco che non pochi problemi dovette suscitare nei mitografi antichi, se dobbiamo giudicare dalla quantità di versioni contrastanti, o addirittura contraddittorie, sulla sua nascita, sulla sua vita e le sue opere. Ma gli dèi, ed anche un dio difficile come Dioniso, sono amanti dello scherzo, e certamente Dioniso dovette perdonare Platone, che scherzò su di lui e sulla sua “invenzione” più nota: il vino, appunto.

Nel VII degli Inni omerici, Dioniso appare nella figura di un giovinetto, fatto già abbastanza strano nella mitologia antica, che prevedeva la nascita di dèi già adulti, o al massimo che raggiungevano l’età adulta in pochi istanti; ma appare anche in una metamorfosi animale: in questo inno appare in forma di leone, ma sappiamo che egli si manifestava anche sotto forma di toro o di capro o di pantera. Dioniso appare anche come un dio molto potente, causa di rovina per chi non ne riconosce il potere, ma allo stesso tempo anche calmo, pienamente padrone di se stesso e sicuro della sua forza: questo carattere appunto, di suscitare sconvolgimenti e allo stesso tempo di essere pienamente in grado di controllarli, appare già nell’iconografia, scritta e non, che raffigura il giovane dio. Il vino e il suo dio appaiono infine come un segno di civiltà di contro alla rozzezza ed alla natura selvaggia, animalesca. Un altro elemento, tipico e non secondario, del suo culto era la partecipazione femminile alle cerimonie che si tenevano in suo onore.

Come si pone Platone dinanzi a questo patrimonio della mitologia greca? Non certo con un atteggiamento censorio, di critica moralistica ed ascetica. Naturalmente, l’ubriachezza è condannata da Platone: il φιλοῖνος, l’amante del vino, che fa buon viso a ogni qualità di vino e con qualunque pretesto (Resp. V 475a6), e che si ubriaca di continuo, è descritto come l’uomo per il quale il piacere e il dolore, l’ira e le passioni, sono rese più intense, più violente; mentre le sensazioni, le memorie, le opinioni e i pensieri si perdono: lo stato dell’anima dell’ubriaco diventa allora simile a quello di un bambino irresponsabile.

Ma dove Platone descrive, con quelle tinte fosche e tragiche che certamente hanno ispirato poeti e scienziati, da Shakespeare a Freud, le conseguenze devastanti che, insieme alle altre passioni, provoca l’ubriachezza, è nel IX libro della Repubblica, quando inventa l’archetipo dell’“uomo tirannico”. L’uomo tirannico è colui nel quale l’anima razionale dorme, e non soltanto durante il sonno. In lui l’elemento ferino e selvaggio, «pieno di cibi e di ubriachezza», si sfrena, ardisce ogni cosa, «sciolto e liberato da ogni pudore e prudenza». Non prova il minimo scrupolo di tentare, nell’immaginazione, l’unione sessuale con la madre o con qualunque altra creatura umana, o divinità, o bestia; di macchiarsi di qualsiasi delitto; di non astenersi da alimento e bevanda alcuni. In una parola, «non v’è follia né spudoratezza che gli manchi» (IX 571c-d). L’uomo ubriaco ha appunto una mentalità da tiranno; perfettamente tirannico si fa un uomo quando la natura, o le abitudini, o quella e queste insieme, lo rendono «ubriacone, erotico e bilioso», ed egli dà sfogo a tutti quegli appetiti.

Eppure il vino è anche un farmaco, nel senso positivo del termine: φάρμακος, come del resto molte altre parole, ha in greco due significati, contrari tra di loro: medicina, che guarisce, e veleno, che uccide. Nel II libro della Repubblica, dopo aver schizzato le linee generali della nascita della civiltà, e quindi l’organizzazione semplice anche se primitiva delle prime “città”, Platone vi colloca già l’uso del vino (II 372a-b). E, nel contrapporre la città semplice alla città corrotta e gonfia di lusso quale quella del suo tempo, Platone esalta i primi medicamenti efficaci, che si basavano proprio sull’uso del vino.

Greci bevevano il vino essenzialmente nei simposi, cioè in quelle riunioni che raggruppavano amici convenuti per mangiare, bere e conversare: bere era quindi una modalità ed un sinonimo dello stare insieme (συνεῖναι); non si beveva mai da soli. Nei dialoghi di Platone sono descritte almeno tre tipologie di simposio.

La prima potremmo chiamarla “il banchetto dei mediocri”, ed è descritta nel Protagora (347c-e): è quel simposio in cui si riuniscono persone mediocri (φαύλοι) e volgari; per mancanza di educazione (ἀπαιδευσία) esse non sono capaci, mentre bevono, di intrattenersi tra di loro con la propria voce e con i propri discorsi, e per questo fanno rincarare il prezzo delle suonatrici di flauto, pagando lautamente una “voce estranea” che riempia i vuoti della loro incapacità a parlarsi e a comunicare. È la riunione un po’ squallida in cui si beve e si ascoltano voci altrui, o si assiste a spettacoli più o meno volgari. È inutile fare esempi, dall’ieri, vedi la cena di Trimalcione in Petronio, all’oggi, vedi le varie “colazioni di lavoro con accompagnatrici” dei manager che reggono le nostre sorti.

La seconda specie di simposio è quella che potremmo chiamare “il banchetto dei ben educati”, ed è descritta sia nel Protagora (347e) che nel Simposio (176a-e). Quando si riunisce gente educata e per bene: καλοὶ κἀγαθοί, uomini dall’animo bello e buono, tu non vedrai in giro né suonatrici di flauto né danzatrici né citariste: essi da soli bastano a condurre tra loro una conversazione (συνεῖναι), e parlano e ascoltano a turno ordinatamente, anche se bevono molto vino, proprio come Nestore e Macàone nel racconto omerico: nel quale già il bere vino, l’essere in disposizione amicale ed il fare bei discorsi costituivano un tutt’uno. Bevono molto vino, ma non giungono all’ubriachezza: perché, come dice Erissimaco, il medico presente nel Simposio, è chiaro a tutti che non solo l’ubriachezza è cosa funesta, ma annulla anche lo stesso piacere del bere: l’opposto dell’ubriachezza, infatti, non è l’astemia, ma proprio il bere πρὸς ἡδονήν: espressione che viene in genere tradotta “a proprio piacere”, ma che significa invece “per, in vista del piacere”.

Ma c’è una terza specie di simposio, che potremmo chiamare “il banchetto degli dèi”, descritto nel Simposio (203b sgg.). E qui davvero possono accadere le cose più incredibili ed impensate. Quando nacque Afrodite, gli dèi la festeggiarono con un bellissimo banchetto. C’era anche Poros, il cui nome significa espediente, astuzia, che era figlio di Metis, il cui nome significa perspicacia, intelligenza. C’era anche una semi-intrusa, Penia, il cui nome significa povertà, aporia, cioè totale mancanza di risorse. Penia in effetti era venuta per mendicare, come dichiarava appunto il suo nome, e se ne stava rincantucciata vicino alla porta. Poros ad un certo punto si addormentò, perché stordito dal nettare – il vino, infatti, non esisteva ancora, e gli dèi bevevano nettare: ma gli effetti erano gli stessi. Penia, allora, volendo farsi fare un figlio da Poros, gli si sdraiò vicino; e restò incinta di Eros; e così nacque il dio dell’Amore.

In questo mito, che unisce insieme banchetto, vino e amore, e che naturalmente è inventato da Platone, è da ammirare, tra l’altro, il bellissimo e sottilissimo “gioco dei contrari” che lo sottende, sottolineato tra l’altro dalla scelta dei nomi. Grazie all’ubriachezza, che capovolge tutte le caratterizzazioni, un dio dell’astuzia, nella cui genealogia è addirittura l’intelligenza stessa, viene beffato da una dea inferiore, la cui prerogativa è proprio la mancanza di ogni prerogativa. Il “capovolgimento”, una delle categorie stilistiche e letterarie più usate da Platone, gioca qui un ruolo quanto mai significativo; come significativa è la connotazione del frutto di questo apparentemente strano connubio, il nuovo dio Eros, il cui carattere rispecchia in tutto quello dei genitori. Dalla madre ha ereditato l’esser sempre povero, scalzo e senzatetto, abituato a coricarsi in terra, dormendo all’aperto sulle porte e per le strade, sempre in preda al bisogno di qualcosa. Per parte di padre invece è sempre insidiatore della bellezza e della bontà, è coraggioso, audace, cacciatore terribile, sempre a tramare stratagemmi, stregone, fattucchiere e sofista. E non è mai né povero né ricco, né immortale né mortale, ma ora fiorisce e vive nello stesso giorno, quando gli va bene, ora invece muore e poi rinasce nuovamente (203c-e).

Il fatto poi che questo dio nato da un connubio favorito dall’ebbrezza somigli, per esplicita dichiarazione, al filosofo, non fa che rendere più sottile il gioco platonico delle allusioni. Per cui, in un certo senso, l’ebbro diventa il filosofo. Come dice Alcibiade, nello stesso dialogo. «In vino veritas», dicevano i latini; con più elegante metonimia, i Greci avevano detto οἶνος ἀληθής, cioè il vino è veritiero. E questa è la ragione per cui Alcibiade, proprio perché ha bevuto, è in grado di parlare del suo amore per Socrate; ma parlando del suo amore per Socrate, finisce per fare l’elogio non di un uomo ma della filosofia, che come il vino procura quella malattia, quella pazzia tutta particolare che è propria degli uomini liberi. Vale la pena di rileggere il bellissimo passo (217e-218b):

Anch’io sono preso dalla malattia (πάθος) di chi è morso dalla vipera. Dicono, infatti, che chi l’ha subita non intende dire qual era, se non a quelli che sono stati già morsi, come ai soli in grado di comprendere e compatire. ...Nel cuore, infatti, o nell’anima, o come volete chiamarlo, ero stato colpito e morso dai discorsi filosofici, che attanagliano più selvaggiamente di una vipera, quando colgano un’anima giovane non priva di doti naturali, e le fanno fare e dire qualunque cosa. ... [E d’altra parte io parlo a voi, che] tutti avete in comune la pazzia e il furore del filosofo (τῆς φιλοσόφου μανίας τε καὶ βακχείας)... Ma i servi, e chiunque altro sia profano e rozzo, applichi porte molto grandi alle proprie orecchie.

Nei banchetti platonici, tra l’altro, come nei racconti creati da antichi poeti come Museo, e come suo figlio Eumolpo (citati da Platone solo perché i loro nomi alludono rispettivamente alle arti ed al canto armonioso), giustamente ci si intrattiene raccontando di come i buoni sono condotti nell’Ade, dove per loro è preparato un banchetto, da cui non si alzano mai, vivendo inghirlandati ed ebbri, perché un’ebbrezza eterna (μήθη αἰώνιος) è il più bel premio della virtù (Resp. 363c-d). Una certa ebbrezza, dunque, causata dal vino o non, appare essere la compagna, sempre, di colui che ama, che filosofa, e che vive bene.

In un simposio ben ordinato è giusto che sempre ci sia un capo, un «benevolo capo di amici che in pace si uniscono ad amici», e una simile adunanza si può realizzare senza confusione, anche se si beve molto vino. Questi capi costituiscono addirittura una specie di confraternita, le «guide di Dioniso» (Leg. II 671d): cittadini di oltre sessant’anni, hanno il compito di “educare” al vino, al canto, al piacere; hanno il compito di guidare i commensali non col negar loro l’ebbrezza, ma con l’educarli a governarla (Leg. II 671d-672a), perché anche il saper bere vino può essere un esercizio di saggezza e di temperanza (Leg. II637d-674c). E perciò, tra Creta e Sparta, bisogna preferire Cartagine: a Creta si abusa del vino, a Sparta si vieta di bere vino: a Cartagine, saggiamente, si vieta l’uso del vino solo in tempo di guerra: e infatti il vino è bevanda non di guerra, ma di amicizia e di pace.

In un simposio ben ordinato, quindi, dove gli uomini riescono a comunicare tra di loro e a rafforzare i vincoli di amicizia che li uniscono, ci si prefigura quel simposio eterno che, nel mito, gli dèi promettono ai buoni, dopo la morte. Ed anche la morte, certo, entra nei discorsi degli uomini ben educati che discorrono in un banchetto; ma non nel senso abbastanza volgare che banchettando si tiene lontana la morte o si dimentica la morte. Alla morte Platone dedica un dialogo, il Fedone, tra i più sfruttati e allo stesso tempo, e forse proprio per questo, tra i meno conosciuti. Il Fedone è stato letto per secoli, ed ancora viene letto, come il dialogo in cui si dimostra l’immortalità dell’anima e la mortalità del corpo. Questo naturalmente è vero: ma fermarsi a quest’affermazione significa trasformare un vero in un falso. Perché quelle dimostrazioni sono all’interno di un discorso che mescola sapientemente (e drammaticamente, cioè artisticamente) mito e discorso logico, esigenza etica e postulato teoretico; ed è solo tenendo presente questo complesso intreccio che si potrà cogliere il significato della morte e dell’immortalità platoniche. Questo dialogo, pur contenendo nuclei teoretici fondamentali della dottrina platonica, è soprattutto il “racconto” di una morte, quella di Socrate, l’uomo-simbolo della filosofia; e questo racconto, come tutti i racconti, fa largo posto al mito, alla metafora, all’analogia. È conveniente (61e1: πρέπει), dice Socrate ad apertura di dialogo, nell’ultimo giorno della sua vita terrena, soprattutto per chi sta per andarsene, non solo indagare (61e1: διασκοπεῖν), come si è sempre fatto, ma anche raccontar miti su questo viaggio (61e2: καὶ μυθολογεῖν περὶ τῆς ἀποδεμίας). E tutto il Fedone non sarà che questo stretto intreccio di discorsi, che indagano aspetti fondamentali della dottrina platonica, e di miti sulla morte e su ciò che è al di là della morte. Ci sono almeno tre sensi, nel Fedone, del concetto di morte, e per tutto il dialogo Platone gioca, volutamente e coscientemente, sull’ambiguità del loro intreccio. Da un lato, la morte è la “separazione”, lo scomporsi degli elementi che costituiscono ogni composto, e quindi anche l’uomo, che è composto, semplificando, di corpo e anima (64c, 67d). È il senso “scientifico”, presocratico, del termine morte: Parmenide, Empedocle, Anassagora, Democrito, hanno tutti sostenuto che ciò che gli uomini chiamano “nascita” non è che l’aggregarsi di elementi eterni in un composto particolare; ciò che chiamano “morte” non è che il disgregarsi di quel composto e il permanere di quegli stessi elementi nella loro eternità. Dall’altro lato c’è il senso comune della morte come annientamento, distruzione, corruzione (79-80; 106b-e): è questo il senso che fa paura ai più, e contro questa paura, come vedremo, non c’è ragionamento che tenga, e solo il mito può tentare di “incantare”, esorcizzandola. Al di sotto e alle spalle di questi due sensi, c’è poi l’allusione esplicita ad un terzo senso, metaforico, della morte, che si connette strettamente al messaggio etico: morte come morte alla vita che conduce la maggioranza, e quindi come la necessità di abbandonare ricchezza, potere, piacere smodato, per dedicarsi “all’anima”, che non significa fuggire da questo mondo, ma appunto viverci con virtù e saggezza. Se la morte è dunque qualcosa, essa è ἀπαλλαγή, separazione di elementi che possono sussistere separatamente l’uno dall’altro, o possono comporsi dando luogo a quella che noi riduttivamente chiamiamo vita. Morte è dunque, a rigore, la vita separata degli elementi che compongono l’uomo. In questo orizzonte, ovviamente, non c’è spazio per un’immortalità altra da quella degli elementi che compongono il composto “uomo”: l’uomo è mortale, immortali sono la sua anima e il suo corpo.

Ma a questo senso della morte immediatamente si sovrappone l’altro, metaforico, che porta Platone a giocare appunto sull’intersezione di mito e logo, tesa a delineare una contrapposizione tra vita e morte, che altro non è però che una contrapposizione tra due tipi di vita. La morte qui allora diventa dunque il senso della vita: non nel triste senso heideggeriano del “vivere per morire”, ma nel senso di una valorizzazione dell’attività dell’anima che deve acquisire saggezza (65a9: φρονήσεως), entrare in contatto con la verità (65b9: τῆς ἀληθείας ἅπτεται), ragionare (65c2: λογίζεσθαι; c5: λογίζεται), “vedere” le idee (65d4-7).

E per coloro a cui tutto questo non basta, non si può far altro che raccontar miti: διαμυθολογῶμεν, è l’invito socratico (70b6). Il mito, in particolare, è quell’antico discorso degli orfici, secondo cui le anime giungono nell’Ade dal nostro mondo e di lì di nuovo ritornano in questo: se è così, se cioè i vivi si rigenerano dai morti, deve esserci questo luogo; infatti le anime non potrebbero rinascere, se non esistessero in qualche luogo, e ci sarebbe così una prova sufficiente (70d2: ἱκανὸν τεκμήριον) della loro esistenza. Ma bastano discorsi razionali e miti a “rassicurare” sull’immortalità della propria anima? Platone è pienamente consapevole che la dimostrazione, il logos dimostrativo, razionale, corretto, non basta a convincere e persuadere: perché la convinzione e la persuasione coinvolgono sempre anche il piano del θυμός, dell’affectus, come dirà poi Spinoza, e c’è una “passione” che a questo punto entra in gioco, una passione che è forte, nei più, ed ostacola quella convinzione e quella persuasione: è la paura della morte, che non ha nulla a che vedere con la sua comprensione razionale. Ecco perché l’interlocutore di Socrate lo invita a «convincerci come se avessimo paura. O meglio, non come se avessimo paura noi: forse in noi c’è come un bambino (παῖς) che ha paura di queste cose» (77e3). Ma a questo punto, replica Socrate, non occorrono più discorsi dimostrativi: con i bambini non si ragiona, ma χρή… ἐπᾴδειν (77e8), occorrono discorsi non che dimostrano, ma che incantano. E se Socrate non riesce a convincere neppure gli amici filosofi, come può sperare di convincere tutti gli altri cheil momento che sta vivendo non è in nulla diverso da tutti gli altri che ha vissuto? In effetti, nella condizione in cui si trova, nella coscienza cioè di star vivendo l’ultimo istante della sua vita, Socrate discorrerà meglio e più lietamente che nel passato. Proprio come i cigni, che, quando s’accorgono di dover morire, cantano più e meglio che nel passato. Sono gli uomini comuni, invece, che, proprio a causa della loro paura della morte (85a3: διὰ τὸ αὑτῶν δέος τοῦ θανάτου), dicono che i cigni cantano per il dolore e la sofferenza. E dunque Socrate è pronto al suo “canto del cigno”.

Le pagine che seguono, praticamente fino alla fine del dialogo, costituiscono la delineazione di una teoria dell’immortalità dell’anima tutta calata in un orizzonte puramente etico. Qui, da un lato, la logica si riduce a tautologia, e “anima” finisce per diventare sinonimo di vita: ciò che è veramente immortale, allora, è la vita, e dire che “l’anima dell’uomo” è immortale, si riduce a dire che egli, come singolo, vive finché vive; poi la vita, cioè l’anima, in sé immortale, toccherà ad altri. E, dall’altro lato, non è che mito: un bellissimo mito che solo l’immaginazione e la fantasia del genio platonico potevano narrarci. E il mito non ha che un senso etico, altro non è che l’invito a curare la nostra anima perché sia regolata e saggia (cfr. 108a), cioè in una parola perché, in questa vita, si coltivi la filosofia e si abbia il coraggio di farlo: la vera “purificazione” non è quella che si raggiunge dopo la morte, ma quella operata dalla filosofia (cfr. 114c2-3: οἱ φιλοσοφίᾳ ἱκανῶς καθηράμενοι), e bisogna «fare di tutto per partecipare in questa vita della virtù e dell’intelligenza (114c7-8: πᾶν ποιεῖν ὥστε ἀρετῆς καὶ φρονήσεως ἐν τῷ βίῳ μετασχεῖν)». E dunque, secondo il mito, l’anima è immortale perché se ne va nell’Ade; secondo il logos, l’anima è immortale solo per quel tempo più o meno lungo che ogni uomo ha voluto e saputo dedicare all’intelligenza delle cose e al ben agire, è immortale cioè solo quando riesce a partecipare di cose immortali.

E allora, di fronte alla paura della morte che anche oggi si manifesta nella sfrenata ricerca di divertimento e di evasione, che altro non sono che un tentativo di dimenticare se stessi; di fronte alla paura della morte che si manifesta nei mille discorsi consolatori che ci costruiamo, in buona o in cattiva fede, per esorcizzarla; di fronte allo spettacolo quotidiano di uomini che danno con estrema faciltà la morte ad altri uomini per bassi interessi individuali, o di popoli, o di stati, credo che abbia ancora un senso il discorso platonico sulla morte, che altro non è che un invito a vivere bene, con virtù e intelligenza, come uomini, come genere umano, quest’unica vita che ad ogni singolo uomo è concessa.

L’immortalità, dunque, l’uomo riesce a conquistarsela con conoscenza e retta azione, solo nel tempo di sua vita mortale. Questa prospettiva traspare anche da alcune bellissime pagine di un altro dialogo, il Simposio, in cui i concetti di amore, di morte e di immortalità sono strettamente correlati. Il Simposio, come è noto, è il dialogo che Platone dedica esplicitamente all’encomio di amore, anzi ai diversi encomi di amore, fatti pronunciare dai vari personaggi che partecipano, appunto, ad un banchetto di “belli e buoni”. E tutti questi encomi sono come tante facce del cosiddetto “amore platonico”; perché, per Platone, l’amore si manifesta appunto con varie facce. C’è il racconto di Fedro, che parla dell’amore “divino”: Eros è un dio, il più antico tra gli dèi, che infonde la vergogna per il brutto e l’aspirazione per ciò che è bello, come a dire è ciò che spinge ad una bella condotta di vita, e perciò gli amanti sono pervasi dal dio. C’è il racconto di Pausania, che loda l’amore omosessuale, generatore di alti pensieri e forti amicizie e legami, e quindi di sapienza e di ogni altra virtù. C’è il racconto di Erissimaco, che slarga l’orizzonte dell’amore dal piano umano a quello cosmico, per cui l’amore diventa principio di concordia, di armonia e di consonanza, e quindi artefice di amicizia tra gli uomini, tra gli uomini e la natura, tra gli uomini e gli dèi. C’è il racconto di Aristofane, con lo splendido mito degli androgini, partecipi, in ciascun individuo, di ambedue i sessi, il maschile e il femminile. Ma questi esseri bisessuati erano divenuti tanto potenti per la loro intelligenza, la loro forza e il loro vigore da mettere in pericolo la supremazia degli dèi: perciò Zeus decise di tagliarli in due, separando così i sessi. E questa è la ragione per cui uomo e donna si cercano sempre ed aspirano a ricongiungersi, per ritrovare quell’unità e quell’interezza della loro antica natura. C’è il racconto di Agatone, che parla della prevalenza di Eros su tutti, uomini e dèi, e sottolinea la giovinezza e la delicatezza eterne che questo sentimento è capace di ingenerare nelle anime di coloro in cui si insedia.

E c’è infine il racconto di Socrate, che finge di riportare un dialogo avvenuto tra lui e Diotima, la sacerdotessa di Mantinea “esperta nelle cose d’amore”. Nella sua struttura, importantissime sono le pagine 207-209, che trattano della “causa” (αἴτιον) di amore, e ci troviamo di fronte ad alcune tra le più belle pagine di Platone, che da sole basterebbero a sfatare l’immagine (dura a morire ancora oggi) del Platone metafisico e sostenitore di un sapere che, in quanto rivolto ad enti eterni e immobili (le idee), si presenterebbe con i caratteri della “contemplazione”, o della fuga dal mondo del divenire, e così via. Al contrario, ne risulta l’immagine di un Platone non solo grande pensatore dialettico, ma sostenitore di una concezione del sapere come continua ed infinita ricerca ed acquisizione di conoscenze sempre nuove e sempre rinnovantesi. Ma vediamo: qual è la causa (207a7: αἴτιον) dunque di questo amore e desiderio? Esiste un terribile atteggiarsi (207a8: διατίθεσθαι) di tutti gli esseri animati, il loro disporsi amorosamente (207b1: ἐρωτικῶς διατίθεσθαι) ad accoppiarsi e ad allevare la prole: e questo atteggiamento non deriva ἐκ λογισμοῦ (207b6-7), cioè da una disposizione razionale. Qual è allora la causa di questo ἐρωτικῶς διατίθεσθαι? (207b7-c1). Essa risiede proprio nel fatto che la natura mortale cerca per quanto è possibile di “essere sempre”, cioè di essere immortale (207d1-2). E può esserlo solo con la generazione (γενέσει , 207d3), poiché con questa si lascia un altro essere nuovo di contro al vecchio (207d3). E qui cade un’importante osservazione a proposito della dialettica connessione attuata dal linguaggio, dai “nomi” che usiamo: la connessione tra identico e diverso, e dunque tra morte e vita. Di ogni singolo vivente infatti si dice (207d4: καλεῖται) che “vive” e che “è lo stesso” (207d4-5: αὐτό). Dire infatti che è sempre la stessa persona un uomo, da quando è bambino fino a quando è vecchio, ci serve ad identificare quell’uomo ed a distinguerlo, tra l’altro con il “nome” che è suo proprio, dagli altri uomini: quest’operazione di “identificazione”, letteralmente: di considerare sempre identico un uomo che è sempre diverso, ci è indispensabile, comunque, nei nostri discorsi, per poterci a lui riferire. Ma, appunto, questa è una finzione linguistica, se pur necessaria: si dice che è lo stesso, lo sidice sempre uguale (207d7), mentre in realtà quell’uomo non ha mai in sé le stesse cose, anzi diventa sempre nuovo (207d6-7: οὐδέποτε τὰ αὐτὰ ἔχων ἐν αὑτῷ… ἀλλὰ νέος ἀεὶ γιγνόμενος). Non solo, ma la sua vita, il suo essere vivo, è tale proprio in quanto egli va morendo (207d8: ἀπολλύς) continuamente non solo nel suo corpo, bensì anche per quanto riguarda l’anima: i modi, le consuetudini, le opinioni, i desideri, i piaceri, i dolori, i timori (in altre parole, tutto il mondo degli atteggiamenti, dei pensieri e dei sentimenti, che, qualificato in un certo modo, contribuisce, insieme alle caratteristiche fisiche, corporee, ad identificare quell’uomo) non permangono mai identici, mai gli stessi (207e4), bensì alcuni nascono (207e4), altri svaniscono (207e4-5). L’identità, quindi, di un uomo è data appunto dal suo proprio modo di essere sempre diverso.

Ma ancor più sorprendente (207e5: ἀτοπώτερον), continua Platone, è il fatto che anche le nostre esperienze intellettuali, le nostre conoscenze, il nostro “sapere”, non sono mai gli stessi, bensì conoscono anch’essi la situazione del nostro essere vivi morendo, cioè rinnovandoci: se la vita è infatti continuo morire e rinascere, e quindi è rinnovamento, anche il nostro sapere, che fa parte della nostra vita, che è vita, per poter essere vivo, deve continuamente rinnovarsi, cioè deve periree rinascere. Come un uomo, per potersi avvicinare all’immortalità, deve, secondo il corpo, lasciare un essere nuovo al posto di quello vecchio, così, secondo l’anima, dovrebbe lasciare un pensiero nuovo al posto di uno vecchio. Anche le ἐπιστήμαι, i saperi, infatti, dice Platone, nascono e muoiono (207e5-208a1), per cui gli uomini non sono mai gli stessi anche per quanto riguarda il loro sapere (208a2). Ed anche ogni singola ἐπιστήμη presenta questa stessa caratteristica, “subisce” (πάσχει, 208a3) questo stesso fatto. L’aver cura di se stesso, il curare le proprie conoscenze, è un processo dinamico e mai un’acquisizione definitiva, che è avvenuta una volta e permane sempre identica in noi. “Curare le nostre conoscenze” significa allora possedere qualcosa nel suo continuo cambiare, per cui il nostro sapere è tale, solo in quanto, e se, si rinnova continuamente. È in questo modo soltanto che tutto ciò che è mortale si conserva e si salva (τὸ θνητὸν σῴζεται, 208a7-8): non con l’essere sempre assolutamente identico (208a8) come è il divino, ma col lasciare al proprio posto, al posto di ciò che invecchia e se ne va, un altro essere giovane tale quale era lui (208b1-2). È con questo espediente (208b2: μηχανή v) che ciò che è mortale partecipa (208b3) dell’immortalità.

L’uomo dunque non è immortale, come gli dèi, o come gli elementi sempre identici che compongono gli aspetti sempre diversi della realtà, ma possiede degli “espedienti” per poter raggiungere una forma sua propria di immortalità. Uno di essi, abbiamo visto, è la conoscenza, con cui egli, rinnovando, nella sua vita mortale, aspetti sempre diversi del sapere, partecipa all’immortalità di un sapere che è sempre al di là di tutte le nascite e le morti degli uomini che lo raggiungono. L’altro espediente è appunto l’amore, che è il fine più alto dell’attività umana. Le pagine 209-212 del dialogo scandiscono le tappe di un’ascesa intellettuale e conoscitiva che può darsi solo se si è presi da ἔρως. Anche qui per secoli si è vista un’ascesa che è stata fatta corrispondere molto semplicisticamente ad un’ascesi, ad un processo culminante in una specie di visione estatica ed ineffabile dell’idea. Così non è: quest’ascesa ha per Platone un valore conoscitivo ed etico che è tutt’altro che una “fuga dal mondo”. Le sue tappe sono l’amore per la bellezza dei corpi (210a-b), e poi quello per la bellezza delle anime (210b), e poi per la bellezza delle occupazioni e delle norme (210c), e poi per quella delle scienze (210c). Così, fissando lo sguardo verso il bello ormai così ampio (210c7-d1) e non affezionandosi più come un servo alla bellezza che è in un unico oggetto, non è più, servendo, un uomo da poco e meschino (210d3: φαῦλος… καὶ σμικρολόγος). Ma, rivolto all’ampio mare del bello e contemplandolo (210d3-4), egli concepisce molti e belli ed eccellenti discorsi e pensieri in un infinito amore del sapere (210d4-6).

L’amore, dunque, per qualunque cosa si manifesti, è sempre amore per il bello, per la bellezza. Passare dall’amore per un corpo bello all’amore per i corpi belli e per le anime belle costituisce un processo di educazione e di arricchimento della nostra sensibilità: significa riconoscere che ciò che amiamo è proprio questa “espansione” del nostro essere, del nostro modo di essere; una espansione che va sotto il nome, appunto, della bellezza. Questo qualcosa che chiamiamo “bello” ci appare sempre di più come un qualcosa che si mostra non limitatamente, ma che è scorgibile in una pluralità di cose, di aspetti, che è appunto ciò che ce li rende desiderabili, oggetti del nostro desiderio amoroso. E tutto ciò ci rende migliori (cfr. 210c2: βελτίους), rende migliori chi ama e chi è amato, impegnandoli a costruire sempre nuovi “bei discorsi”. È quando si giunge a questo livello, che si raggiunge la prima piena consapevolezza del modo “amoroso” di atteggiarsi nel mondo. È la conquista di un maggior respiro “vitale” che permette di capire e fare di più: è la conquista di una modalità della vita che la rende vivibile per l’uomo (211d1-2: βιωτὸν ἀνθρώπῳ/).

Qui per Platone si colloca anche l’orizzonte della libertà, di una libertà che non separa, che non può separare, l’agire dal capire. L’uomo che ha raggiunto la capacità di guardare entro quest’orizzonte ampio, di fissare lo sguardo su ciò che è bello in questo senso sempre più ampio, è l’uomo che si è affrancato dalla servitù, è l’uomo libero. Anche qui, ciò che si slarga sempre più è l’orizzonte dei discorsi che l’uomo è in grado di fare: l’uomo servo è quello dall’orizzonte limitato, l’uomo libero è quello che guarda πρὸς πολύ; l’uomo servo è quello che fa piccoli discorsi, anzi il suo proprio piccolo e limitato discorso (cfr. 210d3: σμικρολόγος), l’uomo libero è quello che è capace di fare molti, belli ed eccellenti discorsi (cfr. 210d4-5), che è in grado di concepire i propri pensieri nel quadro di una filosofia non meschina, ma dagli ampi orizzonti (210d5-6: διανοήματα ἐν φιλοσοφίᾳ ἀφθόνῳ/).

La presenza dell’amore in questo processo dell’apprendimento, dell’ampliamento delle nostre conoscenze e dei nostri saperi, è fondamentale per Platone: essa sta a significare non tanto l’acquisizione di una serie sempre più ampia di nozioni, più o meno specializzate, quanto la capacità di dare un senso nuovo a ciò che sappiamo e che facciamo: dove il senso nuovo è non solo il riuscire a vedere ciò che di meraviglioso e naturalmente bello è presente nella pluralità delle azioni e dei pensieri, ma anche e principalmente l’acquisizione di questa stessa capacità. La bellezza quindi non è nelle cose, ma nella capacità di vederla nelle cose. Riconoscerla nelle cose che nascono e periscono, che cambiano, significa poterla sempre riconoscere, nel suo essere il senso sempre uguale di ciò che non lo è.

Qui, nel Simposio, l’idea del bello è la condizione che ci consente di gustare l’ampio mare delle cose belle, non di trascenderle o rinnegarle. È un atto d’amore il raggiungere questa “idea del bello”, come è un atto d’amore l’educare un altro, gli altri, a quest’idea. Questo è il fine di Eros e di ciò che gli uomini fanno in nome dell’amore. E questo fine non è una mera contemplazione estatica, una “visione” che determina l’afasia: non ha assolutamente nulla di mistico. Al contrario, è l’inizio di una nuova attività, continua e infinita, e che ha una forte connotazione etica. Le cose, e l’uomo tra di esse, nascono e muoiono: riconoscere il bello che nasce e muore in cose sempre diverse, e quindi il bello che non nasce e non muore, essere educati a riconoscerlo, saperlo riconoscere, è l’atto d’amore più elevato cui l’uomo possa aspirare. Ed anche questa è la mortale immortalità degli uomini.

Di fronte ad un vivere l’amore come possesso egoistico, o semplice e superficiale gratificazione; di fronte ad un vivere l’amore come limitazione negli orizzonti di una vita fatta di piccoli discorsi; in una parola, di fronte ad un vivere l’amore come servi, che significa chiusura al nuovo, incapacità di rinnovarsi, rinchiudersi in una prospettiva assolutamente “privata”, mi pare che abbia un senso ancora oggi la prospettiva platonica dell’amore come tensione ed apertura all’ampio mare delle cose belle; come conquista della capacità di vedere la bellezza delle cose, dei corpi, delle anime, delle conoscenze; come desiderio di essere belli e di fare cose belle, insieme con l’amata o con l’amato, e poi insieme a tutti gli altri uomini.

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