Abstract: The essay deals with the steps that led to the birth of the Scientific Police School (Higher School from 1925), thanks to the work of Salvatore Ottolenghi. The School was founded in 1902 in Rome and aimed to teach both police and investigative police officers a scientific method to best perform their tasks: in the former case, the prevention of crimes; in the latter one, providing the judiciary with “objective” data in order to ascertain the procedural truth. The survey gives the chance to focus on a culturally lively period, in which the fideistic enthusiasm towards the so-called auxiliary sciences (anthropology, psychology, forensic medicine, statistics, and so forth) came on the scene of criminal trials, also thanks to the boost given by the Positive School. Particular attention was paid to anthropometry, developed by Bertillon, and dactyloscopy, also thanks to the studies of the Italian Gasti. It was the dawn of the so-called scientific proof, which raised questions - asked even today - about the role of the judge; the legitimacy of practices accused to be invasive and to violate personal rights; the relationship between science and law and between scientific proof and discretionary power (or intime conviction) of the judge.
Keywords: Scientific Police School, scientific proof, Ottolenghi, Salvatore, Anthropometry, Dactyloscopy.
Abstract: Il saggio ripercorre le tappe che portarono alla nascita della Scuola di polizia scientifica (poi Scuola superiore a partire dal 1925), grazie all’opera di Salvatore Ottolenghi. La Scuola, istituita a Roma nel 1902, si proponeva di insegnare sia ai funzionari di pubblica sicurezza che a quelli della polizia giudiziaria un metodo scientifico per assolvere al meglio le proprie funzioni: nell’un caso la prevenzione dei reati, nell’altro fornire all’autorità giudiziaria dati “oggettivi” ai fini dell’accertamento della verità processuale. L’analisi è l’occasione per aprire uno squarcio su un periodo culturalmente vivace e di fideistico entusiasmo verso le cd. scienze ausiliarie (l’antropologia, la psicologia, la medicina legale, la statistica etc.), che irrompono sulla scena del processo penale, grazie anche all’impulso della Scuola positiva. Oggetto di attenzione sarà in particolare l’antropometria, messa a punto da Bertillon, e la dattiloscopia, grazie anche agli studi dell’italiano Gasti. Siamo agli albori della prova scientifica, che allora, come oggi, interroga sul ruolo del giudice, sulla legittimità dell’uso di pratiche tacciate di invasività e violazione dei diritti della persona, sul rapporto tra scienza e diritto e tra prova scientifica e discrezionalità (o libero convincimento) del giudice.
Parole chiave: Scuola di polizia scientifica, Ottolenghi, Salvatore, Antropometria, Dattiloscopia.
Original Article
The Origins of Scientific Evidence: Salvatore Ottolenghi’s Police School
Alle origini della prova scientifica: la scuola di polizia di Salvatore Ottolenghi
Received: 15 May 2021
Accepted: 16 July 2021
«Quando la persona non è nota, si descriverà la sua effigie, statura et habito, dicendo, quidam homo staturae magnae, vel parvae, vel communis, habens barbam flavam, vel nigram, vel imberbis, et capillos flavos, vel nigros, longos, vel breves, oculos magnos, vel parvos, nigros, vel coesios etc. e se ha alcun segno nel volto, o nella testa, si descriva, come habens cicatricem in facie ex parte dextera, vel sinistra, vel in fronte, vel in capite, indutus vestibus longis, vel brevibus, sericeis, vel laneis, colori nigri, viridis, vel rubei etc. e in somma si descriva al meglio che si può»2.
L’esigenza di descrivere imputati, arrestati o ricercati, per giungere alla loro identificazione, affonda nella notte dei tempi, ma è solo a partire dall’Ottocento che essa fu elevata a oggetto di studio, alla ricerca di una metodologia che traducesse la vaghezza espressiva, presente nel frammento del manuale di Masini, in criteri incontestabili, capaci di condurre ad esiti certi.
Per raggiungere l’obiettivo occorreva mettere a punto un sistema ‘scientifico’, fondato sui saperi emergenti: la medicina legale, la criminologia, l’antropologia3, le scienze sociali e psicologiche, la statistica dovevano divenire supporto imprescindibile alla conoscenza giuridica in generale, e alla penalistica in particolare4.
Questo breve saggio si propone di ripercorrere nei passaggi essenziali, e in termini inevitabilmente incompleti, la nascita della polizia scientifica in Italia. Essa va collocata nel momento in cui le indagini della magistratura iniziarono stabilmente ad avvalersi delle conquiste delle cosiddette scienze ausiliarie e di strutture di sussidio specializzate. La trasformazione, come vedremo, da empirica a scientifica riguardava tanto la polizia di pubblica sicurezza (che nel prosieguo del testo sarà indicata anche come P.S.), impiegata nei compiti di prevenzione, quanto quella giudiziaria, cui spettava fornire i tasselli del giudizio istruttorio ed eventualmente dibattimentale.
La polizia, come struttura e come strumento di controllo territoriale e disciplinamento sociale e politico, è stata oggetto di studi approfonditi, soprattutto da parte degli storici delle istituzioni5, così come, negli ultimi anni, spiccano gli interessanti volumi che mettono in luce i profili tecnici dell’attività investigativa, senza tralasciare i rapporti con la scuola positiva, colmando una lacuna storiografica6.
A fronte di una così corposa letteratura, la lettura storico-giuridica che qui si propone si limita a esaminare un circoscritto campione, aprendo uno squarcio su una stagione culturale vivacissima, attraversata da profondi ripensamenti sullo statuto della scienza penale, stagione che ebbe in Salvatore Ottolenghi un indubbio protagonista7.
Se l’età del rito inquisitorio aveva tentato di fondare la certezza della prova su un sistema pseudo-scientifico quale quello delle prove legali (una sorta di rudimentale applicazione di modelli matematici alla logica probatoria), fu la scuola positiva, come è noto, a imprimere un indirizzo scientista al processo «di cui l’assunto fondamentale consiste nello studiare la genesi naturale del delitto nel delinquente e nell’ambiente in cui vive, per adattare giuridicamente alle varie cause i diversi rimedi»8.
Il positivismo si nutriva di una crescente fiducia nei possibili utilizzi delle scienze ‘naturali’. Si cominciò a proclamarne il necessario ingresso anche nelle aule dei tribunali per spostare l’attenzione dal reato al delinquente («la frase è vecchia, ma è bene ripeterla» 9), esaminato nelle sue componenti fisiche e psichiche10. L’interesse era rivolto alla possibile classificazione dei delinquenti e all’influenza dei fattori economico-sociali, piuttosto che alla dimensione oggettiva e ‘astratta’ del reato. Si intendeva investigare soprattutto il movente del fatto illecito per individuarne cause e fattori di origine e giungere così a una individualizzazione della pena11. Si osservava «una grave e profonda lacuna nella scienza del diritto penale, consistente nel difetto di una positiva conoscenza del delinquente e del delitto, ed in conseguenza nell’ignoranza dell’ufficio vero del magistero di repressione»: un vuoto colmabile solo abbandonando il metodo deduttivo per adottare quello che «tanti vantaggi ha portato alle scienze naturali»12. Erano esiti che pure gli avversari della scuola positiva, pur nella critica aspra, si vedevano costretti a riconoscere13.
Dal punto di vista processuale ciò significava una sorta di rivoluzione; «a nuovi orizzonti del diritto, nuovi orizzonti della procedura penale»14: innanzitutto il ricorso a periti giudiziari, professionisti e specializzati nelle diverse discipline, da costituire stabilmente presso ogni ufficio di istruzione. Antropologi, psichiatri, alienisti, criminalisti avrebbero dovuto sostituire con la loro competenza il ‘buon senso comune’ (o, per dirla con Beccaria, «l’ignoranza che giudica per sentimento»15) di cui i giudici si erano sempre avvalsi per penetrare nella complessa articolazione della mente umana e trarne conseguenze sul piano giuridico. Richiesta ovvia per una corrente che si proponeva piuttosto la riduzione dei delitti che delle pene e per la quale il libero arbitrio individuale cedeva di fronte al condizionamento sociale, così come all’imputabilità morale si sostituiva una responsabilità del contesto ambientale e culturale. La prevenzione e la difesa sociale, e non l’accanimento punitivo e retributivo, erano gli obiettivi perseguiti. La pena pertanto doveva prescindere da una valutazione proporzionalistica legata all’intrinseca gravità del delitto e discendere dal grado di temibilità dell’agente, considerato come l’indice più sicuro per determinare la qualità e il grado della reazione sociale alle azioni antisociali.
Ciò significava disseminare l’intera procedura di competenze scientifiche, nella speranza di «trasformare il processo in una diagnosi nosografica dell’imputato»16. La metamorfosi avrebbe dovuto riguardare non solo il magistrato nella fase istruttoria, ma anche la polizia. Era infatti negli uffici di quest’ultima che bisognava cominciare ad operare la distinzione tra galantuomo e briccone. Solo facendo retroagire alla fase della cattura la tassonomia predicata da alcuni esponenti dei ‘nuovi orizzonti della scienza’ si sarebbe potuto evitare di giungere a sentenze di condanna o di assoluzione basandosi su informazioni spesso vaghe o indagini ispirate più dall’intuito individuale che da un metodo razionale. La creazione di una polizia scientifica si presentava per di più come l’occasione perfetta per dare attuazione alle idee della scuola positiva, princìpi che invece faticavano ad essere accettati nel milieu dei giuristi, timorosi di sconvolgere capisaldi come la responsabilità individuale e il fondamento della pena17.
La nascita della polizia scientifica18 , contrapposta a quella empirica19 , quale era stata concepita fino a quel momento20, rispondeva all’esigenza di utilizzare il progresso scientifico delle scienze biologiche e fisiche21, in modo che i funzionari di Pubblica Sicurezza fossero preparati ad una lotta al delitto in una prospettiva preventiva. Fondamentale poi la formazione di una polizia giudiziaria22 chiamata non ad apprendere le forme giuridiche della propria attività, quanto i criteri razionali che la presiedevano, forniti dalle altre scienze impegnate a studiare il delinquente e il reato nelle diverse sfaccettature possibili.
La mancanza di metodo, il confidare nella perspicacia dei singoli per ottenere brillanti risultati non poteva più rappresentare una strada perseguibile23. Grazie all’antropometria, ai dati sfigmografici sulle variazioni del circolo sanguigno atte a rivelare le vere pulsioni ed emozioni a prescindere dal contegno esteriore24, financo all’ipnotismo25, la polizia doveva essere posta nella condizione di limitare gli inciampi in cui era incorsa fino a quel momento, spesso determinati da una carente speculazione teorico-scientifica.
Era ormai inaccettabile che la polizia fosse fatta «così come si faceva la guerra, nei tempi eroici, tutta a casaccio, ad empirismo, dove il merito individuale di alcuni pochi in astuzia ed in forza muscolare, decideva della sola vittoria» 26.
In via preliminare, però, era necessario liberare il personale di polizia da pregiudizi, elevandolo al di sopra delle critiche gratuite rivolte, in nome di un sentimentalismo morboso, dall’opinione pubblica attraverso i media, o mosse dagli avvocati, con le loro arringhe impastate di «ciarlatanismo dottrinale»27. Contro la polizia si sbraitava per i pretesi arbitri, per le sospette violenze praticate, evocando gli orrori dell’inquisizione, mistificando, secondo taluni, la realtà, finendo per trasformare i delinquenti in vittime e i loro persecutori in carnefici28. La polizia aveva non solo necessità di essere difesa, ma anche di vedersi riconosciuto uno spazio proprio, trascurata com’era dagli studi che la relegavano a poche improvvisate pagine di scarso interesse29.
A ciò si aggiungeva un «infiacchimento del servizio di sicurezza pubblica» imputabile all’eccessivo garantismo introdotto dal legislatore nel rito penale: «ogni garanzia di libertà pei cittadini è una limitazione all’opera dei funzionari […]. Ogni nuova tutela tributata alla presunzione di innocenza dell’imputato restringe il campo all’efficacia dell’indizio ed al valore del sospetto»30. Era palese un rigurgito quasi nostalgico verso alcuni profili del sistema inquisitorio31. Scorie della scuola positiva impastavano tali riflessioni, ammettendo in via generale garanzie agli imputati (ma nella minima misura possibile)32 e al tempo stesso accusando il diritto penale di un certo lassismo, con un’ «allarmante tendenza alla mitezza che pare talvolta sconfinare con la debolezza e, presso i giudici non togati, anche col sentimentalismo morboso a favore dei rei. Ne conseguono pene brevi, irrazionali, utili forse ancora contro i delinquenti occasionali e primarii, ma inefficaci, sterili, deprezzate, irrise, talvolta perfino vagheggiate dal delinquente istintivo e abituale»33. La conseguenza era «l’assillante fenomeno della recidiva che prospera come le male erbe rigermoglianti più folte e vigorose dopo la falciatura»34: vera ossessione per i positivisti che cercavano di dare risposte convincenti a un tema centrale nel contenimento della criminalità35.
Si contrapponeva inoltre l’improba fatica della polizia nel consegnare alla giustizia i delinquenti alla debolezza dei magistrati, che svuotavano le prigioni e rimettevano in libertà i detenuti grazie a cavilli36.
Ad aumentare l’opacità dell’attività di polizia erano inoltre il legame organico che essa aveva con il Ministero dell’Interno, e, a sua volta, quello del pubblico ministero con l’esecutivo di cui era, ai sensi dell’art. 129 dell’ordinamento giudiziario del 1865, rappresentante presso l’Autorità giudiziaria: una contaminazione tra poteri che non prometteva garanzia di libertà.
La ‘riabilitazione’ della polizia passava sì dal reclutamento di persone integerrime e capaci, ma soprattutto da un cambio di metodologia nella ricerca dei delinquenti37: essa veniva elevata a oggetto di attenzione come raramente era capitato fino a quel momento38, nella convinzione che si stesse prospettando un’epocale chance per arginare e prevenire scientificamente la criminalità.
Nel giro di vent’anni quella «scienza bambina, la polizia scientifica, che, come tutte le scienze che muovono i primi passi fu accolta con sorrisi di scetticismo e con qualche barzelletta»39 si affermò nella pratica. La prima innovazione riguardò le tecniche di riconoscimento40: ad essere travolto dalle critiche fu l’apparentemente innocuo cartellino giudiziario (che andava a confluire nel casellario giudiziario) e il modo della sua redazione41.
Ferri aveva rapsodicamente passato in rassegna i possibili «nuovi e più sicuri mezzi per la ricerca dei colpevoli», quali «le note del tatuaggio, i lineamenti della fisionomia, e del cranio, i dati sulle condizioni fisio-psicologiche […]. le nuove ricerche sulla sensibilità riflessa, sulle reazioni vasali ne’ delinquenti». Tali strumenti, ad avviso del penalista mantovano, avrebbero reso più facile e completa la serie «delle prove di identità personale e indizii della capacità a delinquere», in grado di «far desistere da vie false gli agenti di polizia giudiziaria ed i giudici istruttori od a rendere meno dubbio il responso di assoluzione e di condanna»42: suggerimenti destinati a divenire nel tempo materia di specifici approfondimenti.
Un fatto era assodato: fotografie43, cartellini giudiziari incompleti, documenti identificativi (come passaporti, licenze per il porto d’armi o per la caccia forniti dagli uffici di P.S.), compilati da cancellieri o da autorità di P.S., si presentavano carenti di dati validi e ricchi di imprecisioni44. Colore degli occhi, dei capelli, statura, forma del viso e altri tratti della fisionomia risultavano riportati in modo così generico da non risultare di alcuna utilità45. Di solito la descrizione si sintetizzava in naso, viso, mento, bocca regolari, colorito naturale, statura media, oppure soggetto alto, magro, tozzo46, come se il tempo si fosse fermato al Sacro arsenale di Masini. Neppure soccorrevano quei segni particolari di riconoscimento che avrebbero dovuto quasi marchiare a fuoco l’identità di un soggetto: era, ad esempio, provato che una cicatrice sulla guancia era così diffusa nel mondo criminale da connotare 300 su 500 delinquenti 47. Ne conseguiva che da quei documenti emergeva una sorta di ‘normotipo’ così anonimo da incarnarsi in “uno nessuno e centomila”.
Nemmeno il nome con il quale i fuggiaschi venivano registrati era affidabile, dal momento che con facilità era possibile fornire generalità diverse da quelle reali48. Analoghe considerazioni valevano per un’inflessione dialettale o un accento, non sempre utili a ricostruire il luogo di provenienza, vista l’abilità simulatoria dei criminali. Anche altri elementi, come barba, baffi, corporatura, portamento, erano facilmente alterabili e quindi poco attendibili ai fini di provare l’identità49. Diveniva pertanto indispensabile mettere a punto strumenti che consentissero di procedere all’accertamento dei delinquenti in modo sicuro, perché la lotta alla criminalità e la difesa sociale passava necessariamente dalla conoscenza del “nemico”50. Partendo dal presupposto che la natura non crea stereotipi, ma “pezzi unici irripetibili”, era necessario dotarsi delle competenze necessarie per individuare i tratti distintivi di ogni essere umano.
La colpa di tanta confusione o, peggio ancora, dell’inutilizzabilità di simili dati non poteva ricadere esclusivamente sui compilatori51, ma doveva rinvenirsi nell’idea strisciante che ci si potesse affidare alla mera percezione visiva e istintiva di ognuno, tanto fallace quanto diversamente declinabile52: «la faccia umana si può ben dire è la pagina di un libro che non si lascia leggere che da chi ne ha appreso l’alfabeto»53.
Occorreva formare il personale di polizia per cominciare a fissare in una scheda la natura dell’arrestato, così che «la sua personalità rimarrà nell’ufficio e checchè avvenga lo si potrà facilmente rintracciare»54. La sua personalità, si afferma, non solo la sua fisionomia: una precisazione rilevante, come si vedrà nel prosieguo del lavoro.
La trasformazione dell’approccio al processo di identificazione prese le mosse dal francese Alphonse Bertillon55. Questi aveva respirato fin dalla più tenera età gli originali metodi che il padre Louis Adolphe e il nonno, Achille Guillard, stavano mettendo a punto, con lo studio e la catalogazione degli individui in base ai tratti fisici56.
Alphonse si era reso conto dell’arretratezza delle conoscenze a disposizione della polizia quando, nell’ufficio di registrazione di una prefettura di polizia, si era trovato a compilare le schede che accompagnavano i singoli arrestati. L’inadeguatezza di quelle cartelle gli parve palese. Sicché, ispirandosi ora ai lavori paterni (vòlti soprattutto alla misurazione dei crani57) ora alle intuizioni dello statistico belga Lambert Adolphe Quetelet58, egli si convinse che occorreva sostituire la descrizione dei connotati con degli indicatori (o meglio misure) piú stabili, impossibili da falsare e non esposti alle oscillazioni derivanti da impressioni individuali59.
Per procedere all’identificazione degli imputati, egli unì alla capacità descrittiva i criteri dell’antropometria, ossia la misurazione delle diverse parti del corpo. L’intuizione nasceva dall’urgenza di fronteggiare una situazione che stava assumendo dimensioni allarmanti, da quando in Francia, per sfuggire all’inasprimento di sanzioni previste dalla legge 5 maggio 1885 nei confronti dei recidivi, questi ultimi avevano cominciato ad assumere con sempre più frequenza generalità diverse, senza con questo integrare gli estremi di reato60. Bertillon mise quindi a punto un metodo per l’identificazione fisica, somatica e funzionale, di una persona61. Il sistema consisteva nel prendere un determinato numero di misure del corpo umano (undici, per la precisione), procedere alla descrizione della persona ed evidenziare gli eventuali segni particolari62. Il processo si ultimava con la fotografia del soggetto in questione (e anche su questa tecnica Bertillon non mancò di far sentire la propria voce).
L’antropometria faceva ufficialmente il proprio ingresso sulla scena dei metodi di investigazione63. Il cd. segnalamento antropometrico64 nella sola Parigi aveva consentito tra il 1883 e il 1892 di identificare circa 4.000 imputati che si videro costretti a confessare la loro vera identità (dopo aver fornito informazioni non veritiere) grazie proprio alle misurazioni effettuate65. Il bertillonage (stilema coniato dal giornalista francese Pierre Brullard nel 1888 ed entrato a pieno diritto nel gergo criminologico) era applicabile essenzialmente per riconoscere eventuali recidivi66. Per quanto complesso67, dopo un’iniziale diffidenza, venne adottato quasi ovunque68.
Secondo Bertillon, tuttavia, non ci si doveva limitare a misurare il corpo umano: come anticipato, occorreva perfezionare anche la tecnica fotografica, perché quelle istantanee allegate alle schede identificative sapessero contribuire a migliorare la capacità di riconoscimento degli arrestati. Si suggeriva pertanto di riprendere il sospettato, oltre che di fronte, anche di profilo69, per imprimere al meglio sulla pellicola ogni tratto del vólto, procedendo poi ad annotarlo evitando ogni approssimazione: occhi, orecchie, bocca, naso, forma del viso, guance dovevano essere descritti in modo preciso70, fino a fornire un portrait parlè71 . Solo così il casellario, costituito (lo si ricorda) dalla somma dei cartellini, avrebbe potuto rappresentare la vera e precisa biografia penale di un individuo72.
Qualche contributo provenne anche dagli studiosi italiani. A Luigi Anfosso, ad esempio, si devono l’antropometro, il craniografo e il tachiantropometro73, mezzi apprezzati in Italia ma poco all’estero74 e concepiti per raggruppare le misure del corpo e del cranio in modo più agevole75. Luigi Frigerio introduceva l’otometro, una sorta di compasso unito a un goniometro, utile per misurare i diametri dell’orecchio e l’angolo auricolo-temporale76. Il pletismografo, ideato da Angelo Mosso, era invece capace di «scendere nella coscienza dell’uomo più dissimulatore con esattezza matematica», senza dolore, registrando i movimenti dei vasi sanguigni: esso veniva paragonato, per la precisione dei risultati77, a quelli ottenuti con la tortura78, e già quest’ultima equiparazione basta a intuire l’invasività del metodo pur incruento, la sua attitudine a penetrare la mente senza possibilità alcuna di opporre resistenza79.
Come ogni nuova scoperta che si basava su dati scientifici o presunti tali, l’antropometria generò un’esaltazione forse eccessiva e si assicurò seguaci ovunque.
Ma non mancarono le critiche. Si evidenziò, ad esempio, come il sistema antropometrico consentisse solo in parte di raggiungere gli scopi desiderati: seppur utile per l’identificazione di soggetti che avevano già subito una condanna, esso non impediva che quanti venivano arrestati per la prima volta potessero fornire false generalità, innescando quindi una catena di errori80.
Soprattutto la metodologia che aveva avuto ferventi adepti si rivelò ben presto farraginosa (oltre che non così infallibile come era stata contrabbandata). I cartellini assumevano dimensioni abnormi, ingestibili: la ricchezza dei dati finiva per trasformarsi in un disvalore anziché in un pregio.
Così, al segnalamento antropometrico si affiancò, fin quasi a soppiantarlo, quello dattiloscopico, il quale, nato quasi in sordina (e sempre in collegamento con le scienze naturali), aveva finito per risultare maggiormente attendibile81.
Fu uno spiacevole episodio a determinare la crisi del sistema di Bertillon. Nel 1903, nello Stato di Washington, la polizia del penitenziario federale di Leavenworth, mentre stava procedendo all’identificazione di un prigioniero, rilevò una perfetta identità con le misure e le foto di un altro detenuto schedato tempo prima82.
Una falla si apriva dunque nella segnalazione antropometrica: la possibilità che due individui potessero presentare le stesse misure, pur se remota, non era da escludere del tutto. Solo la dattiloscopia permise, nel caso di specie, di dimostrare che i due arrestati erano soggetti diversi e ciò determinò un progressivo accreditamento delle rilevazioni delle impronte digitali. L’episodio aveva finito per mettere in discussione contemporaneamente sia il sistema di Bertillon che il ricorso alle foto segnaletiche83. L’entusiasmo mostrato verso il bertillonage fu dirottato verso la dattiloscopia, esaltata quasi con le stesse parole con cui si erano decantati solo pochi anni prima i risultati conseguiti con l’antropometria84: le impronte digitali, in quanto immutabili e uniche (di nuovo il valore aggiunto era individuato nell’irripetibilità), offrivano migliori garanzie circa l’identità di un soggetto e risultavano proficuamente utilizzabili in ambito giuridico.
Fu nel 1896 che un ufficiale di polizia argentino, Juan Vucetich, propose un metodo di classificazione delle impronte digitali85. Questi sviluppò gli studi di Francis Galton (che avevano dato esiti poco soddisfacenti)86. Tali ricerche furono riprese da Giovanni Gasti, che dal 1903 si dedicò a una classificazione, adottata dall’anno successivo, grazie all’approvazione dell’Ottolenghi, per l’archiviazione dei cartellini segnaletici nel casellario dattiloscopico della neonata Scuola di polizia scientifica87. La diffusione di questa tecnica determinò un lento, quanto progressivo e inesorabile declino del sistema antropometrico88.
I metodi fin qui esposti costituirono la base per un’operazione rivoluzionaria: la creazione di una polizia scientifica in Italia89. Si trattava di intervenire su un’istituzione da sempre restia a mutamenti e innovazioni, a cui si chiedeva di affrancarsi da una mentalità ciecamente burocratica per abbracciare nuovi metodi ma soprattutto una nuova mentalità.Dopo un’iniziale cautela - al confronto con altri contesti - nell’impiego dei metodi scientifici di identificazione dei recidivi90, esitazione che potrebbe forse ricondursi alla tradizionale predilezione del mondo giuridico italiano per un approccio formalistico o comunque teorico, era giunto per la Penisola il momento del riscatto: dalla mera importazione di tecniche elaborate altrove a una funzione di guida e di modello di riferimento per le altre nazioni, come sostenevano i fautori del nuovo approccio91. Ciò avvenne grazie soprattutto alla Scuola, sorta a Roma nel 1902 per volontà di Salvatore Ottolenghi, il quale tradusse sul campo gli insegnamenti del maestro Lombroso, rendendo realtà l’intuizione del criminologo veronese (che da tempo anelava alla formazione scientifica della polizia)92. Sebbene non vi fu un accoglimento acritico delle sue posizioni, è indubbio che la ricerca, a volte esasperata, di un collegamento tra caratteri antropologici e predittività criminale connotarono l’impostazione metodologia di Ottolenghi93, in cui si avverte una volontà classificatoria su basi bio-psicologiche, al fine di creare categorie di delinquenti cui far discendere la tipologia di sanzione. La ricerca quasi maniacale della diversità morfologica di orecchie, naso, occhi, cranio o viso finivano per creare anche una sorta di gerarchia antropologia cui non era estraneo un vago sentore razziale94.
In Ottolenghi si percepisce l’eco del portato della scuola positiva, sia nell’approccio di antropologia criminale alla Lombroso sia nelle sensibilità sociologiche à la Ferri, entrambe destinate a tradursi in un certo determinismo95: si era propensi alla criminalità per nascita, per natura, per influenza di fattori economico-sociali-familiari-ambientali la cui combinazione dava luogo a un processo estraneo e ignoto anche al soggetto che lo subiva96. Lombroso aveva invocato a suo tempo l’utilizzo da parte della polizia di tutte le conoscenze messe a disposizione dalle scienze naturali97 e non mancò Ottolenghi di riconoscere al maestro una sorta di felice illuminazione nell’occuparsi «dell’applicazione pratica nella Polizia in ispecie delle nuove scoperte scientifiche», riconducendo al breve saggio Sull’incremento del delitto in Italia e sui mezzi per arrestarlo, edito nel 1879, l’origine della trasformazione della polizia in scientifica98.
Guardando all’esperienza inglese, Lombroso invocava per la polizia italiana dei funzionari detectives e l’uso dei mezzi offerti dal progresso della civiltà99, ma in più essa avrebbe dovuto possedere gli strumenti per saper riconoscere non solo i tratti fisici ma anche psichici del delinquente. Era questo il passo ulteriore che in Italia si voleva compiere: considerare il bertillonage un capitolo di polizia scientifica, ma ampliare le indagini alle personalità del soggetto, non limitandosi alla mera identificazione fisica100. Proprio la conoscenza dell’uomo delinquente costituiva la base di una riforma che doveva prendere le mosse dai pionieristici studi lombrosiani per evitare di forgiare una polizia forse più agguerrita, ma pur sempre empirica101.
Se il bertillonage si rivelava utile soprattutto per i guardiani delle carceri102, la polizia scientifica, concepita da Ottolenghi, doveva rivolgersi a tutti i funzionari di polizia dello Stato (sia di pubblica sicurezza che giudiziaria) e pervadere tutti gli uffici dell’amministrazione di P.S., fino all’arma dei Carabinieri, perché, qualunque fosse l’ufficio cui erano preposti, i funzionari potessero avvalersi delle scienze nell’esecuzione dei loro molteplici servizi103. Prendeva corpo l’idea di un’indagine giudiziaria non più basata sull’empirismo, ma sullo studio antro-psicologico dell’individuo104 e del suo ambiente105: la personalità del soggetto e l’individuazione delle diverse specie dell’uomo delinquente dovevano essere al centro degli obiettivi perseguiti 106.
Gli studi compiuti da Lombroso furono invocati per marcare la differenza tra gli orientamenti nostrani e quelli d’Oltr’Alpe107. All’insigne padre della criminologia andava riconosciuto il merito di aver reso possibile la conoscenza pratica del delinquente non ricorrendo alla mera osservazione intuitiva, riservata a pochi, ma mediante ricerche metodiche e sperimentalmente ripetibili. Non si trattava di basarsi sulle sole misurazioni proposte da Bertillon (metodo che non fu mai rinnegato perché a suo modo contribuiva alla conoscenza somatica costituzionale del soggetto), ma di avvalersi di un approccio filogenetico nello studio del delinquente, indagando sulla sua ‘discendenza’, sulla adattabilità al contesto sociale, sulla sua psiche.
L’istituzione della Scuola di Polizia scientifica prendeva le mosse da lontano, dal laboratorio medico-legale istituito da Ottolenghi nell’università di Siena108 (dove deteneva la cattedra di Medicina legale quale professore straordinario e che abbandonò per la mancata promozione a professore ordinario) e dai corsi di formazione promossi in quell’Ateneo già nel 1895109. Nel 1902 Ottolenghi si trasferì a Roma110 e qui poté realizzare il suo più ambizionso disegno: fondare una Scuola per la Pubblica Sicurezza. A tale scuola, come anticipato, egli conferí un indirizzo antropo-biologico111; vi collegò, l’anno successivo, la Rivista di Polizia Scientifica, fondata con Giuseppe Alongi, questore a Palermo, e nel 1910 pubblicò il primo numero del Bollettino della Scuola di polizia scientifica112 che ebbe il merito, al pari della rivista (vissuta, però, per appena sei numeri), di divulgare i nuovi metodi dell’antropologia, della psicologia, della sociologia, della medicina legale, delle scienze fisiche e naturali113.
I corsi, per volere del Ministro Zanardelli, divennero obbligatori per tutti i funzionari di pubblica sicurezza tirocinanti a partire dal 1903114: costoro avrebbero appreso il metodo pratico per le osservazioni psicologiche e per interpretare le reazioni, la mimica facciale, i movimenti incoscienti, utili nel caso di interrogatori tanto di un teste, quanto di un imputato o di un pregiudicato; la polizia giudiziaria veniva invece posta nella condizione migliore per collaborare efficacemente con il magistrato.
Nel giro di circa trent’anni la Scuola si dotò di un servizio di segnalamento (di pregiudicati e imputati, a richiesta della questura di Roma e dell’autorità giudiziaria115) e di uno antropologico-biografico, diretto a far conoscere, con obiettivi criteri scientifici, il delinquente e la sua pericolosità. Nel 1925, dopo circa vent’anni di elaborazione, fu messa a punto anche la cosiddetta “cartella biografica del pregiudicato”116. Era la più decisa azione dell’«orientazione delle indagini ai caratteri delle personalità; riforma tutta italiana che gli stranieri non hanno ancora compresa»117. La cartella non avrebbe dovuto costituire un arido elenco di reati, ma mirava a riassumere tutto ciò che poteva servire per conoscere il sospettato, dalla sua condizione di vita, alle sue degenerazioni ereditarie o somatiche, oltre a contenere un’esposizione sistematica e razionale dei suoi precedenti.
Oltre alla cartella biografica, l’altra novità fu rappresentata dall’ideazione, da parte di Ottolenghi, del «ritratto parlante del sopraluogo» [sic]118 (sulla falsariga del “porta ritratto parlante” ideato da Bertillon), applicato per la prima volta nella Scuola di Polizia Scientifica nel 1917119. La stessa accortezza che la polizia di Pubblica Sicurezza doveva riservare alla descrizione degli arrestati andava impiegata dalla polizia giudiziaria per descrivere il luogo del reato, sempre secondo rigorosi criteri scientifici120. I rilievi descrittivi permettevano a chi ne prendeva visione di formarsi un’idea precisa sullo stato degli ambienti, sulla disposizione dei mobili e degli arredi nonché degli eventuali cadaveri rinvenuti121 (ossia del contenente e del contenuto), grazie ad una capacità di osservazione analitica. Il ritratto parlato del sopralluogo doveva costituire il documento più importante del procedimento istruttorio, capace di superare la staticità di un’immagine fotografica e utile ai fini di comprendere sia la dinamica del delitto che la personalità del delinquente122.
Non meno importante fu il contributo per la messa a punto di un metodo grafonomico, che consentiva l’applicazione dei criteri del segnalamento descrittivo-antropometrico alle indagini sulla grafia, un metodo che si affermò definitivamente come ulteriore elemento di accertamento della verità dopo il celeberrimo caso Dreyfus123.
Gli sforzi per formare una polizia scientifica ottennero una sorta di riconoscimento ufficiale con il Codice di procedura penale (d’ora in poi c.p.p.) del 1913, art. 166, dove si dava facoltà, anche agli ufficiali di polizia giudiziaria, oltre che ai periti, di poter eseguire i rilievi descrittivi, elevati in tal modo a metodo ordinario di indagine124. Tale disposizione non aveva precedenti nel codice del 1865, anche se la relativa “giovinezza” dei criteri adottati, in auge da circa un decennio, aveva reso il legislatore del 1913 timido e guardingo: quel possono procedere, se del caso, anche a rilievi tecnici e fotografici, locuzione contenuta nel capoverso dell’articolo, era la simbolica rappresentazione di un’evidente cautela. Si trattava comunque di un sicuro passo in avanti, cui non era estranea l’opera di persuasione di Ottolenghi e dei suoi collaboratori, che seguivano attentamente l’evoluzione legislativa in atto, sia in ambito processuale che penale125. Il confronto tra le impronte rilevate sul luogo o sul corpo del reato e quelle di individui indiziati o sospettati ed il relativo giudizio sull’identità non costituivano piú un’esclusiva funzione peritale ma potevano esser svolti dagli ufficiali di polizia giudiziaria a ciò istruiti. La novità, apparentemente tecnica, aveva tuttavia conseguenze importanti, dal momento che consentiva ai sensi degli articoli 162 e del già citato 166 del c.p.p. del 1913 che l’attività in questione fosse fatta «di propria iniziativa dall’ufficiale di polizia giudiziaria», allo scopo di «fornire all’autorità giudiziaria le cognizioni che possono condurre alla identificazione dei colpevoli».
Si trattava anche di una chiara indicazione rivolta ai magistrati: essi dovevano, per primi, conoscere quali fossero e in che cosa consistessero tali indagini scientifiche per coglierne la portata ed essere pertanto in grado di richiedere e utilizzare l’opera di funzionari ben addestrati. Il cambio di passo richiesto alla polizia finiva inevitabilmente per coinvolgere l’autorità giudiziaria, sia nella fase istruttoria che giudicante. Si sarebbe dovuto perseguire un allineamento di competenze, tanto con riguardo ad aspetti meramente formali (limiti e compiti della polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza in generale) che di contenuto. Se compito della Scuola era preparare i funzionari, spettava ai magistrati evitare che tale patrimonio di conoscenze rimanesse inutilizzato.
Fu tuttavia l’art. 223 del c.p.p. del 1930 (in ragione anche di una coerente evoluzione teorica ma soprattutto di un’accertata valenza pratica, derivata da continua sperimentazione126) a prevedere in maniera esplicita che «agli accertamenti, ai rilievi segnaletici, descrittivi o fotografici e ad ogni altra operazione tecnica relativa alla loro funzione, gli ufficiali di Polizia Giudiziaria procedono direttamente»127.
L’art. 233 non ricorreva più a quella impacciata facoltà concessa dall’abrogato art. 166, ma in modo inequivocabile ammetteva l’importanza delle prove tecnico-scientifiche, attribuendone l’assolvimento alla polizia128. Il metodo scientifico introdotto per formare un nuovo corpo polizia aveva alla fine prodotto un’estensione dell’attività inquirente e una compenetrazione, più che interazione, tra magistratura e polizia stessa129.
Il cerchio si era chiuso. Il sogno vagheggiato a partire dal 1902 aveva trovato finalmente piena cittadinanza nell’ordinamento. E non può tacersi che ciò fosse avvenuto a vantaggio della polizia d’un regime nient’affatto democratico. Le tecniche della scuola divennero infatti l’alibi per utilizzare a fini politici i dati sulla pericolosità dei singoli individui e controllare (per ridurre al silenzio) possibili avversari e nemici del regime130, finendo per tradire lo spirito con cui la scuola era nata. Si può sostenere in fondo che Ottolenghi operò in equilibrio funambolico tra spinte scientifiche eterogenee e climi politici contraddittori, attraversando la transizione dall’Italia liberale a quella fascista, alla perpetua ricerca di sostenitori della creatura di cui andava più fiero: la sua Scuola131.
La creazione della polizia scientifica in Italia rappresenta un frammento, sottovalutato per un certo tempo dalla storiografia e solo recentemente divenuto oggetto di specifici studi, ma tutt’altro che marginale nella prassi giudiziaria, di quella vera e propria invasione di studi, tecniche e metodologie che, nell’età del positivismo imperante, dalle scienze naturali trasmigrò nel penale tra entusiasmi e resistenze. Siamo agli albori, come ognuno sa, della criminologia, della psicologia, delle scienze sociali che promettevano, o minacciavano, di trasformare il giudice in un clinico e la polizia, fosse di pubblica sicurezza o giudiziaria, in un organo specializzato che sempre piú avrebbe dovuto affinare competenze tecniche e sperimentali132. Affonda qui le sue radici la cd. prova scientifica, dal cui contributo ci si attendevano passi decisivi verso la certezza processuale o, almeno, la drastica riduzione dei margini d’errore.
L’irruzione della scienza nel processo finiva per ridimensionarne la dimensione integralmente giuridica. Non era nuova, d’altronde, l’ambizione di incanalare l’arbitrio del giudice (poi ‘edulcorato’ come libero convincimento) entro perimetri prestabiliti. Come, ai tempi dell’aristotelismo scolastico, la prova legale aveva assicurato un meccanismo calcolabile e controllabile di ricerca del verum, cosí tra Otto e Novecento si sperava che la scienza, grazie alla sua oggettività, avrebbe condotto anche la giustizia ad approdi certi e incontrovertibili.
La storia e l’esperienza hanno ridimensionato simili atti di fede. L’epistemologia del Novecento ha messo in seria discussione ogni pretesa di ‘oggettività’ assoluta dei meccanismi cognitivi. Nella storia del processo penale il sogno d’un giudice bocca della scienza è tramontato come era accaduto al montesquieviano giudice bocca della legge. La gran parte del contenzioso giudiziario resta incardinato su elementi indiziari, che implicano la libera valutazione del giudice: in mancanza di prove ‘piene’ tradizionali (confessioni o testimonianze), i riscontri scientifici (la disposizione delle gocce di sangue, la posizione del cadavere, la descrizione degli oggetti rinvenuti durante il sopralluogo, l’indagine psicologica del sospettato, via discorrendo) richiedono una ricomposizione sintetica che non può che affidarsi alla prudentia dell’interprete, quasi a riproporre l’antico adagio quae singula non prosunt collecta iuvant133 .
Vi è forse un uso e un abuso del termine ‘scientifico’ nell’ambito del processo penale, sull’onda entusiastica d’un progresso che, in certe fasi come quella qui esaminata, ha indotto ad attribuire al risultato investigativo una patente di verità assoluta, oltre che una deresponsabilizzazione delle singole scelte e decisioni. L’insistenza con cui, al tempo di Ottolenghi e dei suoi allievi, si richiedeva un’adeguata preparazione ai funzionari di polizia e ai magistrati dimostrava un cambiamento di prospettiva nell’acquisizione e nella valutazione delle prove. Il iudex peritus peritorum non era più il magistrato onnisciente pensato in età medievale, bensí un funzionario di Stato di estrazione pur sempre giuridica, ma sufficientemente attrezzato per esercitare un controllo sulle prove scientifiche; per valutare, respingere, criticare le perizie tecniche; per non restare recettore passivo del verbo degli scienziati ma proporsi credibilmente come decisore ultimo della regolarità formale e sostanziale di tutte le acquisizioni probatorie.
Da un’idea di scientizzazione del processo, che sostituiva nuove prove e ne accontonava altre apparentemente usurate dal tempo (prima tra tutte, la testimonianza), la seconda metà del Novecento si è mossa in direzione d’una processualizzazione del metodo scientifico. I timori circa l’invasività degli strumenti di indagine tecnica si sono intensificati man mano che si è rafforzata l’esigenza di tutela dei diritti fondamentali e della sfera individuale. Il dibattito non si è sopito ed anzi ha trovato in anni recenti nuova linfa tra i processualpenalisti con riguardo al rapporto tra perito e consulente e tra consulente dell’accusa e della difesa 134. Si avverte la preoccupazione di esorcizzare i residui dell’impianto autoritario costruito dal codice Rocco 135 e di affrancarsi da quell’inconscio inquisitorio136 tuttora incombente sul rito penale italiano.
Corresponding author: Loredana Garlati. Università degli Studi Milano Bicocca, Italia. Email: loredana.garlati@unimib.it.