Astratto: Il tema dell’ammissione delle prove in appello rappresenta un tipico terreno di scontro tra l’esigenza di assicurare la ragionevole durata dei processi e la necessità di rispettare, anche in sede di secondo grado, i principi del giusto processo. Il presente lavoro si propone di analizzare le insoddisfacenti soluzioni adottate nel corso del tempo dal legislatore italiano al fine di contemperare questi opposti interessi e di evidenziare l’opportunità di un ripensamento del mezzo di impugnazione, ancora strutturato in chiave inquisitoria nonostante l’impostazione tendenzialmente accusatoria del codice di rito.
Parole chiave: Ammissione delle prove, Appello, Rinnovazione istruttoria, Parità delle parti, Equo processo.
Abstract: The issue of the admission of the evidences in appeal represents a typical battleground between the interest in ensuring the reasonable duration of trials and the opportunity to respect, even in appeal, the fair trial’s principles. The paper aims to analyse the unsatisfactory solutions adopted over the years by the Italian legislator in order to reconcile these opposite needs and to emphasize the importance of a reform of the remedy, still structured in an inquisitorial way despite the accusatory setting of the code of criminal procedure.
Keywords: Admission of evidences, Appeal, Renewal of the trial evidentiary hearing, Equality of arms, Fair trial..
Articolo Originale
L’ammissione della prova in appello tra diritto di difesa e parità delle parti
The admission of the evidence in appeal between right of defence and equality of arms
La giustizia penale è caratterizzata da una costante tensione tra la necessità di assicurare all’accusato il diritto di difendersi nei confronti dell’imputazione elevata a suo carico e la salvaguardia dell’efficienza di un sistema che, senza adeguate contromisure, sarebbe destinato al collasso.
Uno dei settori in cui l’attrito tra questi opposti interessi è senz’altro evidente è quello delle impugnazioni che, seppur finalizzate a garantire l’adozione della decisione più corretta, sono contraddistinte dall’individuazione di inevitabili limitazioni concernenti anche il diritto alla prova, di cui le parti usufruiscono ad ampio raggio in primo grado. Un sistema già “ingolfato” qual è quello italiano, infatti, non sopporterebbe un mezzo di gravame che consentisse di ripetere ex novo tutta l’attività svolta di fronte al primo giudice .
Dinanzi al legislatore si pone quindi da sempre la non semplice sfida di disegnare i confini entro i quali contenere l’attività istruttoria in sede di appello, compito da assolvere senza perdere di vista quei principi - espressi tanto dalle fonti sovrannazionali, quanto dalla Costituzione - che, riguardando il processo tout court, devono essere rispettati in tutti i gradi di cui esso si compone.
Nelle pagine seguenti si tenterà quindi di analizzare se le scelte operate in questo campo dal legislatore italiano siano o meno soddisfacenti.
Tra le due esigenze di cui si è detto poc’anzi, nella disciplina del giudizio di appello è per lungo tempo prevalsa quella di natura efficientistica, considerato il disinteresse mostrato dal legislatore del 1988 nei riguardi di un istituto che ha per gran parte ereditato la normativa del codice di rito del 1930, benché quest’ultimo fosse ispirato a una modellistica di matrice inquisitoria .
La similitudine tra i giudizi di secondo grado contemplati dai due corpus normativi «appare manifest[a] e viene consacrat[a]» proprio dall’art. 603 c.p.p. che, nel disciplinare la rinnovazione istruttoria in appello, ricalca l’art. 520 c.p.p. abr. .
Difatti, al di là del diritto di ottenere l’ammissione a “maglie larghe”, cioè sulla base degli stessi ampi presupposti previsti in primo grado, delle prove scoperte o sopravvenute dopo la pronuncia della decisione impugnata, l’art. 603 c.p.p., fatto salvo il “nuovo” comma 3-bis , dota la corte d’appello del potere di scegliere discrezionalmente se e in che misura riassumere le fonti dichiarative .
Così, sin da subito la dottrina italiana ha avuto modo di evidenziare la «contraddizione» insita in un sistema che ad un primo grado, in cui le prove sono assunte «alla stregua del principio dell’oralità e del contraddittorio nel momento della formazione della prova», giustappone un appello «basato sugli atti del processo», con il conseguente rischio che la sentenza sia riformata «da un giudice davanti al quale non è stata assunta nessuna prova» . Tale incongruenza è stata vieppiù acuita dalla revisione dell’art. 111 Cost., il cui quarto comma stabilisce che il processo penale - espressione idonea a ricomprendere anche il giudizio di seconda istanza - è “illuminato” «dal principio del contraddittorio nella formazione della prova».
Questo attrito tra l’impianto accusatorio del processo e le caratteristiche del rimedio potrebbe in futuro interessare anche l’ordinamento brasiliano, per due ordini di motivi: da un lato, al pari del giudice d’appello italiano, anche quello sudamericano domina la materia probatoria, dato che, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., «no julgamento das apelações poderá o tribunal, câmara ou turma proceder a novo interrogatório do acusado, reinquirir testemunhas ou determinar outras diligências» ; dall’altro, il Brasile ha intrapreso un percorso volto al superamento della logica inquisitoria sottesa ad un codice che, adottato nel 1941, ha recepito «as influências do Código Rocco, de forte inspiração fascista» . Infatti, dopo l’entrata in vigore della Constituição del 1988, che già aveva fatto propria la regola del contraddittorio, la lei 24 dicembre 2019, n. 13.964, ha introdotto, all’interno dell’art. 3º-A c.p.p., il principio - la cui efficacia invero è al momento sospesa - secondo cui «o processo penal terá estrutura acusatória, vedadas a iniciativa do juiz na fase de investigação e a substituição da atuação probatória do órgão de acusação» .
Ebbene, l’ambiguo rapporto tra i primi due gradi di giudizio cui dà luogo la normativa italiana ha posto (e continua a porre) due questioni di grande rilievo: una di carattere epistemologico, legata all’eventualità di una modifica della sentenza di primo grado nell’ambito di un giudizio, quello di appello, dai connotati sostanzialmente opposti; l’altra, che invero è una sottocategoria della prima, attinente più specificamente al diritto di difesa dell’imputato, che in sede di gravame corre il pericolo di una riforma peggiorativa della prima decisione.
È su quest’ultimo profilo che si è primariamente appuntata l’attenzione del legislatore e della giurisprudenza, tanto europea quanto interna.
La più evidente distorsione derivante dall’illustrata conformazione del giudizio d’appello è rappresentata dalla concreta possibilità che l’imputato, prosciolto in primo grado, venga condannato al termine del secondo giudizio a seguito della mera rilettura dei verbali contenuti nel fascicolo dibattimentale.
Il rimedio, inizialmente architettato dal legislatore con la l. 20 febbraio 2006, n. 46, nota anche come “legge Pecorella”, fu radicale: lasciando inalterati gli angusti spazi riservati all’attività istruttoria, la riforma si concentrò sull’appellabilità “oggettiva” delle sentenze, con l’abolizione del potere del pubblico ministero e dell’imputato di appellare le pronunce di proscioglimento .
Al di là del fatto che questo intervento non eliminava completamente la possibilità del ribaltamento della decisione liberatoria , la novella ebbe vita breve, dal momento che la Corte costituzionale ne dichiarò l’illegittimità data l’irragionevole disparità di trattamento che la medesima aveva prodotto tra la posizione dell’accusa, impossibilitata ad appellare le sentenze che la vedevano “soccombente”, cioè quelle assolutorie, e la difesa che, al contrario, rimaneva legittimata ad esperire il gravame avverso la condanna .
Il fallimento della legge del 2006 ha riproposto il problema, stavolta affrontato - sulla base dell’impulso proveniente dalla Corte europea dei diritti dell’uomo - sotto un diverso angolo visuale, quello dell’ammissione delle prove nel giudizio di gravame.
I Giudici di Strasburgo, seppur con i limiti del loro tipico approccio casistico, hanno elaborato alcune garanzie volte a preservare l’equità processuale laddove si tratti di procedere ad un overturning della sentenza di proscioglimento in virtù di una rivalutazione delle affermazioni rese da una fonte dichiarativa nel corso del giudizio di primo grado . È stato in particolare affermato come, in linea di principio , coloro che hanno la responsabilità di decidere sulla colpevolezza o l’innocenza dell’imputato debbano sentire personalmente i testimoni e saggiarne la credibilità, dal momento che «la valutazione dell’attendibilità di un testimone è un’attività complessa che, normalmente, non può essere svolta mediante una semplice lettura del contenuto delle dichiarazioni di quest’ultimo, come riportate nei verbali delle audizioni» .
Data la refrattarietà del giudizio d’appello italiano a consentire lo svolgimento di attività istruttoria , la questione non ha tardato a spostarsi dai tavoli della Corte di Strasburgo a quelli della Corte di cassazione, in seno alla quale sono emersi non pochi contrasti, che hanno richiesto per ben tre volte l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite.
Il fil rouge che unisce queste pronunce è rappresentato dalla valorizzazione del principio, espresso dall’art. 533 c.p.p. in tema di condanna dell’imputato, del “ragionevole dubbio”, alla luce del quale il Giudice di legittimità ha modellato i confini dell’obbligatorietà della rinnovazione istruttoria ai fini della riforma della sentenza di primo grado.
Con la prima decisione, è stato affermato come, allorché il pubblico ministero si dolga dinanzi alla corte d’appello dell’esito assolutorio di primo grado facendo valere l’erronea valutazione di una prova dichiarativa , il canone Bard, ai fini della condanna, richieda di «replic[are] l’andamento del giudizio di primo grado, fondandosi su prove dichiarative direttamente assunte». Ne deriva l’obbligo di disporre la rinnovazione istruttoria, anche d’ufficio ai sensi del terzo comma dell’art. 603, in quanto soltanto il contatto diretto tra il giudice di seconda istanza e la fonte di prova può consentire di fugare ogni dubbio in ordine alla responsabilità dell’imputato e, quindi, di sovvertire il risultato liberatorio del primo giudizio .
Alla medesima conclusione è pervenuta anche la seconda sentenza delle Sezioni Unite che, in tema di ribaltamento dell’assoluzione emessa al termine di un processo celebrato secondo le forme del rito abbreviato, anche non condizionato all’integrazione probatoria, hanno specificato come, ai fini dell’overturning, l’art. 533 c.p.p. imponga comunque il rispetto del principio di immediatezza in sede di appello, malgrado l’accertamento da parte del primo giudice si sia basato sulle “carte” contenute nel fascicolo del p.m. .
Infine, la terza decisione ha escluso l’obbligo di riassumere la prova dichiarativa per convertire la condanna in assoluzione, atteso che l’incertezza in ordine alla colpevolezza dell’imputato ben può emergere anche dalla mera rilettura dei verbali di prove redatti nell’ambito del primo grado di giudizio .
Le conclusioni cui si è giunti con questo trittico di decisioni sono in parte meritevoli di apprezzamento, posto che, in un’ottica di chiaro favor per l’imputato, si è tentato di interpretare l’art. 603 c.p.p. in modo conforme alla giurisprudenza convenzionale . Tuttavia, risolta tale questione, ne è sorta un’altra, altrettanto spinosa, originata dalla combinazione tra l’impostazione inquisitoria del secondo grado di giudizio e il nuovo canale di ammissione delle prove dichiarative aperto a livello pretorio.
Infatti, viene da chiedersi quale sia l’ampiezza dell’obbligo della corte d’appello di rinnovare l’istruzione dibattimentale.
Con la sentenza del 2016, le Sezioni Unite hanno subordinato questo dovere alla circostanza che le dichiarazioni dei testimoni, sulla cui base procedere alla conversione della decisione impugnata, siano «ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado» , alla stessa stregua, del resto, dell’impostazione seguita dalla Corte europea .
Sennonché, la dottrina ha condivisibilmente evidenziato i rischi sottesi ad una valutazione del giudice in ordine al peso rivestito dalla prova nell’economia della vicenda concreta: la verifica circa il carattere determinante dell’apporto di una fonte dichiarativa potrebbe «ritorcersi contro […] l’imparzialità» del decidente, «lasciando presagire la propria intenzione di condannare il prosciolto ogni qual volta si determini per la rinnovazione della prova dichiarativa» . Senza contare come un simile vaglio mal si attaglia ad un controllo preliminare come quello da operare in sede di ammissione delle prove, visto che solo dopo l’assunzione delle stesse può essere svolto con la dovuta consapevolezza .
Così, il legislatore, nell’introdurre l’art. 603 comma 3-bis, ha scelto di non includere tale requisito nella trama della disposizione. Ma anche questa soluzione, come vedremo, è suscettibile di dare adito ad una serie di dubbi.
La l. 23 giugno 2017, n. 103 (“riforma Orlando”), ha inserito nel tessuto dell’art. 603 c.p.p. il comma 3-bis, a mente del quale «nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale».
Già da una prima lettura della disposizione emergono due importanti differenze tra le impostazioni seguite dal legislatore e dalla giurisprudenza: da un lato, il presupposto cui è subordinato l’obbligo di rinnovazione è che l’accusa, nell’atto di impugnazione proposta contro una pronuncia liberatoria, si dolga della valutazione del primo giudice in ordine alle dichiarazioni di una fonte di prova; dall’altro, la riassunzione della prova è «automatic[a]» , cioè non sottoponibile ad alcuna indagine in punto di ammissibilità da parte della corte d’appello che, una volta verificata, ai sensi dell’art. 581 c.p.p., la specificità del motivo con cui il p.m. contesta il modo in cui è stata considerata la testimonianza , è tenuta a disporre il supplemento istruttorio, a prescindere da un’esplicita richiesta in tal senso .
La ratio della prescrizione normativa si pone nello stesso solco garantista della giurisprudenza europea e interna, con l’obiettivo di assicurare il rispetto dei principi del contraddittorio, dell’oralità e dell’immediatezza tutte le volte in cui vi possano essere i margini per la riforma di una sentenza liberatoria.
Tuttavia, il legislatore ha avuto il demerito di considerare la riassunzione della prova dichiarativa in appello soltanto come strumento di tutela dell’imputato, al quale si consente di partecipare nuovamente all’esame incrociato dinanzi al giudice chiamato a rivalutare la sua responsabilità, ignorando colpevolmente le potenzialità persuasive offerte dal metodo dialettico di formazione della prova. In altre parole, poiché l’obbligo di riassunzione della fonte dichiarativa è previsto unicamente in relazione all’appello esperito dall’accusa, quest’ultima è stata dotata di uno strumento estremamente efficace per perorare la propria causa, in assenza di adeguate contromisure in favore dell’imputato .
Difatti, al fine di ottenere la riammissione di altre prove, diverse da quelle su cui si sono concentrati i motivi d’appello del p.m., la difesa deve passare dalle “strettoie” del primo comma e del terzo comma dell’art. 603. D’altronde, benché il nuovo comma 3-bis si esprima in termini di «rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale», le Sezioni Unite hanno specificato come questa formula, lungi dall’aprire le porte ad una riedizione dell’attività istruttoria già svolta in primo grado, non imponga di assumere nuovamente tutte le prove, ben potendo essere escussa la sola «fonte la cui dichiarazione sia oggetto di una specifica censura da parte del pubblico ministero attraverso la richiesta di una nuova valutazione da parte del giudice d’appello». Per il resto - prosegue il Giudice di legittimità - un eventuale ulteriore segmento istruttorio potrà essere disposto dal giudice qualora lo ritenga assolutamente necessario ex art. 603 comma 3 c.p.p. .
L’art. 603 comma 3-bis, quindi, è suscettibile di dar luogo ad un’indebita disparità di trattamento tra il pubblico ministero, dei cui poteri peraltro gode anche la parte civile, e l’imputato.
È piuttosto singolare rilevare come sia la riforma del 2006, sia quella del 2017, pur perseguendo un obiettivo comune - impedire il ribaltamento in appello della sentenza di proscioglimento sulla base degli atti - con strumenti sensibilmente diversi, finiscano per destare i medesimi dubbi sul piano della parità delle parti. Ma se il soggetto che usciva “penalizzato” dopo l’entrata in vigore del primo dei due citati interventi legislativi era il pubblico ministero, la legge Orlando ha dato luogo ad un più grave squilibrio a sfavore dell’imputato, la cui posizione, in sede di impugnazione, dovrebbe invece essere oggetto di una disciplina (quantomeno) analoga a quella dell’accusa, posto che è in gioco la sua libertà personale.
Da questo punto di vista, riecheggiano le critiche mosse dalla dottrina nei confronti della già richiamata sentenza del 2007 del Giudice delle leggi che, proprio in nome del principio di cui all’art. 111, comma 2, Cost., aveva dichiarato l’illegittimità del divieto per la procura di appellare le sentenze di proscioglimento . I commentatori, in particolare, imputarono alla Corte di non aver individuato una base costituzionale, diversa dall’equality of arms, cui ancorare il potere dell’accusa di proporre appello, la rilevanza del quale era stata esclusivamente legata al fatto che all’imputato fosse «consentito l’esercizio di un omologo diritto» . In altre parole, ai giudici della Consulta si contestò di aver omesso di considerare la natura anzitutto difensiva del mezzo di impugnazione, che ha la principale funzione di garantire al condannato un controllo sulla decisione di primo grado .
In quest’ottica, deve essere salutata con favore una recente pronuncia della stessa Corte costituzionale che, richiesta di valutare la compressione - operata dal d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11 - della legittimazione del p.m. di appellare le sentenze di condanna, ne ha affermato la piena legittimità, rilevando come la mancanza di «una contrapposta limitazione, di analogo spessore, dal lato dell’imputato, rientra nella logica della diversa quotazione costituzionale del potere di impugnazione delle due parti necessarie del processo penale: privo di autonoma copertura nell’art. 112 Cost. - e, dunque, più “malleabile”, in funzione della realizzazione di interessi contrapposti - quello della parte pubblica; intimamente collegato, invece, all’art. 24 Cost. - e, dunque, meno disponibile a interventi limitativi - quello dell’imputato» .
Ebbene, il principio dell’inviolabilità del diritto di difesa non può tollerare un così evidente divario tra gli spazi concessi dall’art. 603 comma 3-bis al pubblico ministero per ottenere la rinnovazione istruttoria e quelli, decisamente meno ampi, a disposizione dell’imputato.
Il legislatore, sebbene intervenuto in un’ottica di garanzia, ha infatti fornito all’accusatore «un’arma» contro le sentenze di proscioglimento, capace di esporre l’accusato «alla particolare forza di convincimento tipica del contatto diretto tra il giudice e il dichiarante, contrapponendovi soltanto la lettura (magari soltanto potenziale) di precedenti deposizioni trasfuse nelle carte processuali» . Ciò dovrebbe implicare il diritto della difesa di chiedere e ottenere, ai sensi dell’art. 495 comma 2 c.p.p., l’ammissione della prova contraria , facoltà che invece è esclusa dall’attuale conformazione dell’art. 603, così come interpretato dalla Corte di cassazione.
Oltre a pregiudicare la posizione dell’imputato nei giudizi di appello promossi nei confronti di decisioni assolutorie, l’art. 603 comma 3-bis, nel riferirsi all’«appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento», esclude dal proprio perimetro di applicazione le ipotesi di impugnazione promossa dall’imputato avverso una sentenza di condanna, come confermato dalle Sezioni Unite con l’ultima delle tre pronunce sopra ricordate .
Ne deriva un quadro profondamente problematico, in cui la difesa viene a trovarsi in una posizione deteriore rispetto alla controparte non soltanto nel processo in cui si discuta della riforma del proscioglimento, ma anche della condanna, poiché la normativa di nuovo conio determina un sistematico mismatch tra le chances dei due soggetti necessari del processo di ottenere la modifica della sentenza che li vede - per utilizzare una pur criticata ma efficace espressione della Corte costituzionale - rispettivamente “soccombenti”.
La dottrina ha sin da subito colto questo “effetto collaterale” della riforma, che attribuisce alla procura un vero e proprio «diritto potestativo» alla riassunzione delle prove orali erroneamente valutate in primo grado, di modo che la corte d’appello possa avere un contatto diretto con il dichiarante, del quale deve saggiare la credibilità. Al contrario, l’imputato rimane dotato della esclusiva facoltà di sollecitare i giudici a utilizzare i poteri istruttori conferiti loro dall’art. 603 . In altri termini, ci si chiede per quale ragione il condannato non possa beneficiare dello stesso strumentario a disposizione dell’accusa ai fini della riforma delle pronunce di proscioglimento.
Questa controindicazione della prescrizione introdotta nel 2017 rischia di rendere vani gli sforzi del nostro ordinamento per adeguarsi ai dicta della Corte di Strasburgo, il cui compito è esattamente quello di assicurare che ciascuna parte abbia avuto una ragionevole possibilità di far valere la propria posizione in condizioni tali da non porla in una situazione di netto svantaggio rispetto “all’avversario” .
La Corte di cassazione è conscia del pericolo che si nasconde dietro l’art. 603 comma 3-bis, tanto è vero che si sforza di circoscriverne la portata: richiesta dal procuratore generale se la previsione debba essere interpretata nel senso che la corte di appello, investita del gravame avverso una sentenza di assoluzione della parte pubblica fondato sulla valutazione di prove dichiarative, sia o meno obbligata a rinnovare l’istruttoria, ha dato una risposta negativa: il giudice di seconda istanza è tenuto «a sindacare se i motivi stessi siano ammissibili, perché formulati in ossequio ai criteri indicati dall’art. 581 c.p.p., e se le prove indicate siano decisive». Inoltre, la decisione sulla riassunzione della prova non deve necessariamente essere presa «in limine litis ma anche all’esito della discussione e consentito, comunque, il contraddittorio delle parti» .
Questa consapevolezza, tuttavia, non esclude il verificarsi di situazioni patologiche, in cui l’imputato venga a trovarsi in una posizione di subalternità rispetto al p.m., cui ben può dar luogo l’infelice formulazione della disposizione esaminata.
Nei paragrafi precedenti si è tentato di dimostrare come l’innesto di una prescrizione normativa, volta a garantire la formazione della prova nel contraddittorio tra le parti in vista del ribaltamento della sentenza di proscioglimento, nel tessuto di un appello a trazione chiaramente inquisitoria, sia suscettibile di incidere negativamente sull’equilibrio generale del processo.
Serve allora un cambio di rotta, nel senso di rendere il giudizio di seconda istanza maggiormente conforme ai principi costituzionali in materia di giusto processo e, soprattutto, di farne uno strumento che abbia primariamente la funzione di tutelare l’imputato, a maggior ragione laddove ne sia stata dichiarata la colpevolezza in primo grado.
Del resto, com’è stato autorevolmente osservato, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo emerge «that appeal represents an instrument prevailingly in favour of the defence», cui viene attribuita «a further chance […] to overturn the negative outcome of the trial (or to mitigate its effects)» . Senza contare che, da un confronto tra le principali fonti sovranazionali in materia - segnatamente l’art. 2 del Protocollo n. 7 allegato alla CEDU, l’art. 14 par. 5 PIDCP, nonché, per quanto interessa l’ordinamento brasiliano, l’art. 8 par. 2 lett. h CADU -, si ricava chiaramente la maggiore attenzione da dedicare, nel campo delle impugnazioni, al controllo circa la correttezza delle decisioni di condanna.
Sotto questo profilo, prendendo spunto dalla double jeopardy clause statunitense - che impedisce all’accusa di impugnare la sentenza di proscioglimento -, la dottrina brasiliana non ha mancato di criticare il paradigma della bilateralità dei mezzi di impugnazione, sul presupposto, per un verso, che «o direito ao recurso, como norma fundamental, tutela unicamente o imputado» raggiunto da una sentenza di condanna e, per l’altro, che il principio del ne bis in idem impedisce lo svolgimento «de um novo julgamento de mérito após uma sentença absolutória» .
In effetti, al netto delle resistenze della Corte costituzionale, l’idea di “ristrutturare” l’appello in chiave prettamente difensiva pare essere convenzionalmente plausibile: una riforma dell’istituto orientata a salvaguardare la libertà dell’imputato - condannato o raggiunto da una sentenza di proscioglimento non pienamente liberatoria -, con facoltà di ottenere la riassunzione delle prove che si ritengono essere state erroneamente valutate dal primo giudice, garantirebbe il rispetto dei principi espressi dall’art. 111 Cost. anche in sede di seconda istanza. Una siffatta apertura, di per sé idonea rappresentare un pericolo per la tenuta complessiva del sistema, necessiterebbe di un contrappeso, individuabile nell’introduzione di un “filtro” in entrata per impedire la trattazione di gravami meramente pretestuosi e finalizzati a ritardare l’esecuzione della sentenza .
Sfortunatamente, il legislatore italiano non appare ancora pronto ad intraprendere una riflessione tesa al ripensamento del rimedio in esame, preferendo continuare a muoversi lungo la strada tracciata nel 1988. Anzi, in un’ottica di efficienza, si sta sempre più orientando nel senso di un ulteriore impoverimento delle garanzie, con un’«erosione progressiva di spazi di effettività alla piena realizzazione del controllo di merito» .
Difatti, le più recenti novità sono rappresentate, in primo luogo, dal disegno di legge di riforma della giustizia penale C. 2435, approdato alla Camera lo scorso marzo, che in materia di appello prevede, quale principale modifica, l’introduzione della regola del giudice monocratico per un ampio novero di fattispecie criminose ; in secondo luogo, dal d.l. 9 novembre 2020, n. 149 (c.d. “Ristori bis”) - emanato nell’ambito dei provvedimenti tesi ad affrontare la crisi pandemica -, il cui art. 23 prevede che fino al 31 gennaio 2021 i processi di secondo grado si svolgeranno, di regola, senza la partecipazione delle parti . Tali scelte, benché assunte in un periodo emergenziale, «non lasciano certamente intravedere un futuro luminoso per il giudizio di appello», ma «anzi rivelano la tendenza ad una sua trasfigurazione, come se il controllo di merito fosse un ostacolo nel percorso verso la celere formazione della res iudicata» .
Manca, in definitiva, una visione sistematica, capace di ovviare a problemi avvertiti ormai da troppo tempo .