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Li buffoni, Fessa e la nuova malmaritata di Margherita Costa
Versants, vol. 2, núm. 69, pp. 145-161, 2022
Universität Bern

Artículos


DOI: https://doi.org/10.22015/V.RSLR/69.2.10

Sommario: La prima commedia pubblicata in Italia da una donna fu Li buffoni di Margherita Costa (1641). Commedia ridicolosa, l’opera è una parodia della corte Medicea ambientata in nord Africa. Il presente studio considera la protagonista Marmotta, principessa di Fessa e moglie del principe di Marocco, come una rivisitazione innovativa del topos della malmaritata. Essa non è la moglie annoiata e adultera o la giovinetta desiderosa di evitare un’unione sgradita, ma una sposa i cui appetiti amorosi rimangono insoddisfatti perché il marito preferisce la compagnia di nani, gobbi, matti e altri ‘scherz[i] di natura’ del principato. Il saggio legge Li buffoni come una sfida fatta da una scrittrice ai luoghi comuni del mondo teatrale sul desiderio femminile.

Parole: Margherita Costa, «malmaritata», gender, burlesco, commedia.

Nel 1641 gli editori fiorentini Massi e Landi stamparono la prima commedia pubblicata da una donna: Li buffoni della cortigiana, cantante e scrittrice Margherita Costa1. Chiamata da Costa stessa una «burlesca composizione» (Costa 2018: 74), la commedia presenta un mondo parodico e rovesciato in cui predominano le figure grottesche. La storia racconta le pene della principessa Marmotta di Fessa, la quale non riesce a convincere suo marito, il principe Meo di Marocco, a consumare il matrimonio, perché lo sposo è troppo preso da altri spassi: i nani e gobbi della sua corte, le prostitute, le osterie e il bere, e altre forme di divertimento. Con quest’opera Costa crea una sua versione del topos teatrale della donna ‘malmaritata’.

La vita e l’œuvre di Margherita Costa

Nata a Roma, dove avviò la sua professione musicale nelle camere dei grandi palazzi della città, Costa arrivò a Firenze probabilmente negli anni ’30, in data ancora sconosciuta2. Qui stabilì un rapporto con il granduca Ferdinando II e con altri membri della famiglia dei Medici, che le sarà di grande sostegno nelle decadi successive. A Firenze iniziò la sua carriera letteraria con la pubblicazione di nove testi in meno di dieci anni, più un numero di opuscoli e la stesura di un manoscritto successivamente pubblicato nel 16473. Questa produzione prolifica presenta una vasta gamma di generi: quattro raccolte di poesie (La chitarra, Il violino, Lo stipo, La selva di cipressi), un libro di Lettere amorose, il poema epico mitologico Flora feconda, che Costa riscrisse poi in versione drammatica (forse in musica) con lo stesso titolo, una Istoria diplomatica sul viaggio in Germania del gran duca, un libretto manoscritto per un balletto a cavallo (Festa reale) e – ultima sua pubblicazione a Firenze – la commedia Li buffoni. Nel 1644 Costa lasciò Firenze per Roma. Da lì in poi si spostò regolarmente, invitata a cantare a Torino e Parigi, ad esempio, mentre nei primi anni ’50 era attiva a Venezia. In questa seconda metà della sua carriera pubblicò altre cinque opere: un poema epico agiografico (Cecilia martire), due raccolte di poesie (La tromba di Parnaso e La selva di Diana), un libretto boscareccio (Gl’amori della luna) e il balletto a cavallo precedentemente disponibile solo manoscritto. La data e le circostanze della sua morte sono sconosciute.

Lo stile di Costa è notevole per la sua «bizzarria», per usare le parole della scrittrice stressa4. Soprattutto nel periodo in cui visse e scrisse a Firenze, le sue opere sono considerevoli per argomenti e lessico spesso spinti e marinisti5. Le sue poesie e lettere esplorano temi amorosi, in molti casi esplicitamente erotici, e presentano ai lettori donne bramose, curiose e sdegnose. Sebbene Costa sia stata respinta e ignorata attraverso i secoli da alcuni critici per questo motivo, oltre che per il suo stile e i suoi temi barocchi (un periodo, come ben si sa, a lungo considerato di “cattivo gusto”)6, la scrittrice fu lodata dai suoi contemporanei. Accademici, poeti e librettisti come Alessandro Adimari, Ferdinando Saracinelli e Ottavio Tronsarelli la celebrarono, ad esempio, in poesie poi incluse nei suoi primi volumi, mentre Giovanni Mario Crescimbeni affermò nel 1698 che «in tutte [le opere] non solamente sormontò la condizione del donnesco ingegno; ma non pochi rimatori, anche rinomati, suoi coetanei; di maniera che a gran ragione fu universalmente applaudita» (Crescimbeni 1730: II, 202).

Con sole due eccezioni, Costa dedicò le sue pubblicazioni ai vari mecenati che facilitarono le sue imprese letterarie e musicali: figure che includono Ferdinando II (destinatario di quattro testi) e i suoi parenti, i Barberini, la duchessa Maria Cristina a Torino, il cardinale Mazzarino e la regina Anna in Francia e i duchi di Brunswick-Lüneburg, benefattori dell’opera lirica a Venezia. A parte la Istoria, dedicata all’ambasciatore spagnolo, fu solo Li buffoni ad essere indirizzata a un dedicatario che non apparteneva all’élite: Bernardino Ricci, un buffone presso i Medici che si esibiva sotto il nome d’arte ‘il Tedeschino, cavaliere del piacere’. Come si vedrà più sotto, Ricci/Tedeschino non è solo il dedicatorio della commedia, ma anche uno dei suoi protagonisti. Infatti, l’idea di comporre una commedia sul tema della buffoneria probabilmente fu ispirata da una satirica «difesa dell’arte» da lui pubblicata pochi anni prima (Ricci 1995).

La commedia è l’opera di Costa che ha ricevuto finora più attenzione da parte degli studiosi. Oltre ad essere l’unico tra i suoi testi a essere disponibile in un’edizione moderna italiana, è stata tradotta in inglese e analizzata in saggi in più lingue7. Inoltre, nel 2018 è stata riscritta (il nuovo testo è stato poi pubblicato) e messa in scena al Teatro Arena del Sole di Bologna dall’Associazione Arte e Salute, una compagnia composta da attori-pazienti psichiatrici, in collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale8.

Una commedia insolita: genere, ambientazione, personaggi

Li buffoni è una commedia ridicolosa in tre atti, un genere teatrale nato a Roma che combina elementi presi dalla commedia dell’arte e dalla commedia erudita. Messe in scena da attori non professionisti (spesso nei palazzi delle élite o nelle case degli accademici) e scritte in copioni che vennero pubblicati in edizioni popolari, le commedie ridicolose prendevano ispirazione dagli scenari delle compagnie professioniste per le loro trame e il loro plurilinguismo9. Invece che in edizione popolare, il testo di Costa fu pubblicato in-quarto – come lo furono tutte le sue opere tranne il libretto Gl’amori della luna – con un bellissimo frontespizio eseguito da Stefano della Bella, uno degli incisori fiorentini più noti soprattutto per le sue rappresentazioni di scene teatrali. Li buffoni era un prodotto cortigiano, e, mentre mancano ancora informazioni su una possibile mise en scène – la dedica sembrerebbe accennare a una produzione a Carnevale –, l’opera godette del sostegno della corte fiorentina.


Fig. 1:
Stefano della Bella, frontespizio di Margherita Costa, Li buffoni (Firenze, 1641). Per gentile concessione del Metropolitan Museum of Art (www.metmuseum.org), Bequest of Phyllis Massar, 2011.

In effetti, la storia si basa sugli affari (o meglio, i maneggi) di corte. Una corte però burlesca, e governata da personaggi “grotteschi”: nani, gobbi, pazzi, stranieri che parlano una lingua «italianat[a]» con forti accenti e altri «scherz[i] di natura» (Costa 2018: 76). Le “parti ridicole” sono talmente ben rappresentate che Costa ne include un elenco accanto a quello tradizionale delle dramatis personae. L’amministrazione della corte è lasciata a queste figure particolarissime: cariche come Segretario di Stato e Capitano della Guardia sono nelle mani di tali uomini.

Anche se questo principato inusuale è ambientato in Marocco, in realtà il testo è una chiara parodia di Firenze. L’azione si svolge dentro il palazzo e nei giardini del principe Meo, ma c’è poco o niente che alluda al contesto nordafricano. Al contrario, i personaggi menzionano gli Uffizi più volte, mentre l’architettura e il paesaggio rappresentati nel frontespizio di Della Bella sono decisamente toscani. Inoltre, come ha dimostrato Teresa Megale grazie a una ricerca condotta all’Archivio di Stato di Firenze, la maggior parte dei personaggi raffigurati nella commedia, soprattutto quelli burleschi, sono modellati su figure storiche presenti sul libro paga dei Medici (Megale 1988). Queste includono nani veri che intrattenevano il gran duca e i suoi fratelli, cuochi e soldati, e così via, ma anche il principe stesso: “Meo” è Meo Matto, uno squilibrato (e forse buffone) mantenuto dai Medici10. Anche il dedicatario-buffone Ricci viene inserito come il buffone di corte Tedeschino, corteggiatore assurdo e inefficace della principessa Marmotta.

Come sopra notato, la trama della commedia mette in scena il dolore sofferto da Marmotta a causa dell’abbandono del letto coniugale da parte di Meo. Meo si innamora invece della sgradevole prostituta Ancroia, alla quale promette un banchetto (in senso erotico, come la parola al tempo poteva sottintendere) nei giardini del palazzo. Disperata, Marmotta decide di tornare al regno di suo padre, dove è rimasta l’unica erede a causa del rapimento di suo fratello da parte dei corsari anni prima. Intorno le ronza sempre Tedeschino, un buffone pieno di arie ma odiato da tutti gli altri, che è innamorato della principessa. Scoperto il tradimento progettato da suo marito, Marmotta promette di soddisfare i desideri amorosi di Tedeschino, dicendogli di raggiungerla nel palazzo, camuffato con le vesti di Ancroia. Quasi inutile dire che Meo incontra Tedeschino vestito in questa maniera e, credendolo la sua amante, si avvicina con risultati (e pugni) comici. Marmotta ingaggia un altro buffone di corte, lo spagnolo Baldassarre, come ambasciatore presso il regno di suo padre, a cui intende dichiarare il proprio ritorno imminente alla casa natale. Quando mostra al buffone la voglia che ha sul braccio (marchio che serve come contrassegno nelle missioni diplomatiche della famiglia), Baldassare le fa vedere la sua identica macchia, rivelando così di essere il fratello perduto di Marmotta. Contentissimo di questo nuovo e inaspettato cognato, Meo promette di rinunciare a tutti i suoi svaghi e di vivere come marito e moglie con Marmotta. L’unica condizione che Marmotta pone (oltre a trovare un marito per la sua damigella Bertuccia) è che sia il buffone Tedeschino sia la prostituta Ancroia vengano rinchiusi in una gabbia. Gli altri personaggi burleschi ballano intorno a queste due figure, cantando una canzonetta di scherno11. Questa è la scena rappresentata nel frontispizio di Della Bella.

Da entrambi i lati del frontespizio si vedono altre due figure: La Comedia Antica (la vecchietta a sinistra col bastone) e La Buffoneria (la giovane a destra con la chitarra in mano). Il prologo è un contrasto tra questi due generi personificati da due donne che si denigrano l’un l’altra. La Comedia Antica accusa la sua rivale di essere debosciata, indecente, insolente e lo «scherno de’ saggi» (Costa 2018: 86, v. 57). Per non essere da meno, La Buffoneria insulta la sua antenata come obsoleta, pedante, ipocrita, invidiosa e l’«avanzo / […] di quei greci, e di quei romani / Ch’a la tua mala lingua il bando diero» (88, vv. 81-83). La contesa tra le due donne, tra queste due facce della tradizione comica in Italia, si risolve quando La Buffoneria dichiara di essere il genere preferito dai Medici stessi: «Taci, che quivi [alla corte medicea] la Comedia antica / Non ha da farvi tacca o ripresaglia» (92, vv. 114-115). Dopo questa dichiarazione sui gusti dei Medici, alla Comedia Antica non resta che lasciare il palco: «a sì gran nome, e non a’ detti tuoi, / Ceder m’è forza […] / or da l’aspetto / de le Medicee stelle12 altrove io parto» (92, vv.116- 117, 122-123). Oltre a essere un ulteriore esempio della sovrapposizione tra il Marocco e Firenze, l’affermazione del sostegno mediceo per la buffoneria sottolinea l’accettabilità e, perlopiù, l’appetibilità di opere burlesche alla corte fiorentina, anche quando scritte da una donna.

La prima frase della dedica a Bernardino Ricci sottolinea il desiderio di Costa di pubblicare un’opera innovativa: «Il solito è sempre quello, l’insolito è più nuovo; oltre che il far le cose a proposito vien da tutti lodato» (Costa 2018: 74). In realtà, la dichiarazione richiama una simile trovata in una delle prime commedie erudite del secolo precedente, Calandra di Bernardo Dovizi da Bibbiena (1513). Spiegando la decisione di deviare dalle norme teatrali in questa «nova commedia […] in prosa, non in versi; moderna, non antiqua; vulgare, non latina», il prologo (forse opera di Castiglione) insiste sul fatto che «le cose moderne e nove delettano sempre e piacciono piú che le antique e le vecchie, le quale, per longo uso, sogliano sapere di vieto» (Bibbiena 1985: 61). Tale insistenza sulla novità rispetto alle consuetudini è convenzionale di per sé, come si vede ad esempio nell’apertura della Cassaria di Ariosto, dove il prologo promette: «Nova comedia v’appresento, piena / di vari giochi, che né mai latine / né greche lingue recitarno in scena» (vv. 1-3). L’eco fatta da Costa a questa tipica ricerca di novità attraverso la figura di La Buffoneria nel proprio prologo colloca la scrittrice tra i drammaturghi intenti a moder- nizzare le norme teatrali e a rivendicare un nuovo spazio per le loro imprese nel campo. Il paragone con la Calandra è interessante, dato che la figura della malmaritata – soggetto analizzato nella seconda metà del presente saggio - svolge un ruolo centrale anche in quella commedia.

Se Li buffoni è ambientata nel principato di Marocco, ed è sottointesa una parodia della corte fiorentina, un altro luogo ancora è centrale per la trama e la comicità: il regno di Fessa. Il nome si riferisce letteralmente alla città nordafricana di Fez. Allo stesso tempo, però, allude alle sciocchezze (“fesseria”) e, attraverso un crudo disfemismo, al sesso femminile13. È soprattutto con quest’ultimo significato che la commedia gioca. In una scena (I.8) analizzata a lungo qui sotto, Marmotta descrive la natura piacevole di Fessa e delle «fessatine»14 alla sua damigella Bertuccia, mentre in un’altra (III.8) nomina come ambasciatore a Fessa Baldassarre, il quale (ex compagno della prostituta Ancroia) giura di conoscere bene le usanze del luogo.

Utile è considerare la fonte presunta di Costa per la scelta di Fessa: La forsennata principessa, uno dei canovacci stampati da Flaminio Scala. In questa unica tragedia tra gli scenari comici di Scala, il principe di Marocco abbandona Alvira, la principessa di Portogallo che era scappata insieme a lui dal regno del proprio padre, quando, in quella terra, incontra la bella e seducente principessa di Fessa. Modellata sul topos dell’eroina abbandonata che si lamenta nella tradizione letteraria (ad esempio Arianna e Didone) – in questo caso un ruolo forse recitato dalla nota attrice Isabella Andreini - Alvira si dispera e, dopo che suo fratello taglia la testa al suo fidanzato per vendicarla, si uccide (Scala 1976; Giornata XVI). Lo spettacolo si conclude infatti con la morte di tutti i personaggi seri, e il regno è lasciato ai loro servi, buffoni e nemici. Il canovaccio coniuga i temi dell’abbandono e della buffoneria, che si ritrovano poi nella commedia di Costa, la quale combina però le figure delle due principesse: la sua è una donna abbandonata dal compagno malgrado i piaceri amorosi garantiti dalla sua eredità fessatina.

Un’ultima parola sul contesto storico dei Buffoni. Nello stesso periodo della sua pubblicazione (probabilmente poco dopo), Massi e Landi ne stam- parono una seconda versione con lo stesso frontespizio. Se ne trova un’unica copia nel Fondo Magliabechiano (3.1.89) della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Il motivo preciso di questa seconda stampa è finora ignoto, come lo sono anche le identità di chi richiese i cambiamenti e del destinatario della copia in questione. Tuttavia un paragone della mise en page del - le due versioni rivela quanto gli editori provarono a limitare le revisioni, presumibilmente anche per ragioni economiche. Gli interventi spaziano da correzioni di punteggiatura e ortografia alla rimozione di brani interi. Siro Ferrone, nelle note alla sua edizione moderna del testo, suggerisce che le varianti testuali «sono di due tipi: un gruppo di queste segna un passaggio da versi più o meno apertamente osceni a versi anodini; altre sembrano invece unicamente fatte per bilanciare, con un’aggiunta di nuovi versi, le parti cadute» (Ferrone 1985: I, 64). Egli fornisce una lista, anche se in realtà solo parziale15, degli interventi, ma non commenta il fatto che il numero più alto e i cambiamenti più sostanziosi si trovano quasi esclusivamente nel primo atto, e soprattutto nella scena ottava, in cui Marmotta e Bertuccia parlano a lungo di Fessa. Restano invariati tanti altri versi “osceni” nel testo, e rimane nella scena tra le due donne un discorso ancora ricco di allusioni sessuali nella versione rivista. Si vedrà più avanti un esempio dei cambiamenti fatti alla descrizione di Fessa. Tuttavia si può avere fin da subito un’idea delle modifiche apportate al testo nella risposta di Bertuccia a Marmotta, quando afferma che forse sarebbe meglio se alle malmaritate fosse lecito sostituire il marito con un altro. Nella seconda stampa i versi in corsivo vengono tagliati:



Oh quante non contente
Sarebbone le moglie,
[E di nov’esca ciberian le voglie.
Se ben son di parere
Ch’anco senza licenza
Si faccia a’ tempi d’oggi tal mistiere.] (I.8.13-18).

La versione modificata elimina il rischio che le donne vere imitino le loro controparti letterarie-teatrali, le quali – come verrà approfondito sotto – trovano la soddisfazione mancante nel matrimonio tra le braccia di un amante. Il testo lascia così invece le donne sospese nella loro infelicità. In breve, le revisioni (o le censure) puntano all’edulcorazione – parziale – dei desideri sessuali femminili quando vengono espressi da una donna nobile (anche se fictional), ma non da una di ceto basso, come la prostituta Ancroia e la sua serva Filippetta.

Marmotta, malmaritata

Li buffoni si apre in medias res con un litigio tra Meo e Marmotta sulle dinamiche del loro matrimonio. Le prime parole dell’atto sono di Meo, infastidito dalle rimostranze fattegli da sua moglie:



Che canchero o diavolo sarà?
Tutto il giorno co’ barbotti,
Ch’io non vada, ch’io non stia,
Ch’io non faccia, ch’io non dica;
(Quasi che mi scappò)
Che venir vi ti possa
Il male del rovello
O ’l bruscior de l’ortica.
Io l’intendo a mio modo,
Portar voglio i calzoni;
Né v’avete a impacciare,
Se mi piace la zuppa o li buffoni (I.I.1-12).

Se il lettore viene lasciato all’oscuro del motivo preciso della lite, la risposta di Marmotta rivela subito la natura del proprio lamento:



Ancora hai tanto ardir? Non so se sai
Ch’io son di Fessa erede, e che non venni
In Marocco per farti la fantesca?
[…]
Io dico che non voglio
Più durarla così! Voglio esser moglie (vv. 13-15, 20-21).

In breve, Marmotta è malmaritata: desidera fare l’amore con un marito che la sdegna16. Vuole «esser moglie» di fatto e non solo di nome.

In questo è una figura ben diversa dal topos letterario e teatrale della malmaritata: una donna bella e giovane data in sposa dalla famiglia a un uomo spesso molto più vecchio di lei e, di conseguenza, incapace di soddisfare i suoi bisogni amorosi. A causa di quest’incompatibilità ella si permette di prendere un giovane amante con cui condividere la sua passione, spesso grazie all’incoraggiamento della sua serva. La malmaritata diventa, nei confini della tradizione testuale, simbolo di un adulterio giustificabile, una libertà non permessa alla sua controparte storica per la quale un tale ricorso ai piaceri extra-matrimoniali era inammissibile.

Tra le malmaritate più memorabili della tradizione italiana ci sono quelle di Boccaccio, che si trovano soprattutto nella settima giornata del Decameron, dedicata alle beffe ingegnose fatte da esse, «o per amore o per salvamento», quando i mariti le scoprono in flagranza (Boccaccio 2014: 785). Si pensi ad esempio alla ottava novella, i cui protagonisti sono Arriguccio e Sismonda, una «giovane gentil donna male a lui convenientesi» (VII.8.4). Come Marmotta, Sismonda si ritrova trascurata a casa da sola mentre il marito rincorre altri piaceri; invece di disperarsi, la protagonista boccacciana si trova un amante. Quando il marito scopre il tradimento, Sismonda fa mettere una fantesca nel suo lato del letto; tornato a casa, Arriguccio picchia e taglia i capelli a questa, e poi va a prendere i fratelli e la madre di Sismonda per mostrargli la prova della sua vergogna. Essi trovano a letto una Sismonda perfettamente composta ed evidentemente innocente. Sismonda pretende che sia stato lui a tradire lei, e che il marito avrà picchiato una «cattiva femina» a casa della quale sarà andato ubriaco. La novella si conclude con gli insulti e le minacce dei fratelli, diretti non alla sorella, ma al cognato. Quello che principalmente lega i vari mariti ingannati di Boccaccio, oltre all’inadeguatezza coniugale, è la sciocchezza (un difetto ancor più lampante quando paragonato all’astuzia delle mogli). Il lettore incontra «la semplicità del marito» (VII.1.6), un «villan matto» (VII.4.30), uno «sciocco […] e bestiale» (VII.5.52) e così via. Anche lo stolto Arriguccio è lasciato «smemorato» (VII.8.50) delle azioni della coniuge. Come questi, anche il principe Meo è «nato scimonito» (Costa 2018: 74).

Come ben si sa, la tradizione novellistica ebbe un impatto sulle trame delle commedie cinquecentesche (Borsellino 1962: XV-XVIII; Stäuble 2009). Topoi comuni a entrambe includono la figura della malmaritata furba e del marito credulone e inappetibile. Come ha notato Louise George Clubb nel suo saggio fondamentale sui theatregrams (elementi comuni alla composizione teatrale sui quali venivano costruiti gli archi narrativi), la trama legata alla donna e ai suoi desideri diventa quasi immancabile nelle commedie rinascimentali:

The choice of a sexual centre differentiating Renaissance New Comedy from its Roman model (in which a bed-bound action was optional only, and nubile or otherwise marriageable female characters could easily be dispensed with as stage presences) directed the mainstream of the Cinquecento genre toward the figure of the woman desired and desiring, a requisite datum of plot, and with usage, to become the staple giovane innamorata (Clubb 1986: 19)17.

Nel contesto di tale enfasi sulla figura femminile, la malmaritata diventa un theatregram. Nella Fulvia di Bibbiena troviamo «the classic figure of the malmaritata» (Giannetti 2009: 212), una matrona stufa del marito stolto e più vecchio di lei; la sua storia appassionata col giovane Lidio costituisce una trama principale della commedia. Nella Mandragola di Machiavelli, in cui lo sciocco marito Nicia introduce Callimaco nel letto di sua moglie Lucrezia per ingravidarla, scoperto il complotto e vista la differenza tra le capacità amorose dei rispettivi uomini, Lucrezia stessa acconsente alla continuazione dell’intreccio. Nella Lelia degli Ingannati, per dare solo un ultimo esempio, vediamo il caso di una bella giovane promessa dal padre al vecchio lascivo Gherardo, un destino da malmaritata che ella riesce ad evitare solo vestendosi in abiti maschili per seguire il giovane di cui è innamorata.

In contrasto con questi predecessori, nei Buffoni i due coniugi (novelli, a quanto pare) non sono lontani in termini di età o di status, ma di aspettative sessuali. Se Marmotta è l’“innamorata” sofferente, lo è rispetto a un uomo a cui è già sposata. La «bed-bound action» descritta da Clubb prende qui un’altra forma. In senso letterale: nella prima scena la coppia litiga su quello che succede, o non succede, nel loro letto. All’insistenza di Marmotta che Meo venga da lei la notte perché «non vuò dormir sola» (v. I.i,61), egli risponde con una serie di scuse per cui la sua presenza nel letto sarebbe sconsigliabile:



Se tu mi fossi a canto
Forse potrei sognar che una bertuccia
Mi morsicasse il naso, e sbalordito
Darti un pugno sul viso a questa foggia.
[…]
Potrei darti nel ventre e disconciarti
L’original di qualche scimonito.
[…]
V’è peggio. Ora ch’è freddo, io piscio a letto
Ogni notte, Marmotta, non ti burlo.
[…]
Or finalmente solo
Io vuò dormir, che vuoi?
Vuò far quel che mi par, vuò quel che piace (vv. 64-87).

Con tale elenco di motivi assurdi, disegnati per rendersi meno appetibile alla coniuge, Meo rifiuta di compiere il proprio dovere. Marmotta rimane irremovibile, insistendo: «Io non presi marito / Per starmi con Bertuccia a sollazzare; / Lo presi, come fanno l’altre donne, / Per trovarlo pronto a’ miei bisogni» (vv. 104-107) – una dichiarazione insolita sulle aspettative erotiche uxorie.

Il corpus letterario di Costa è pieno di coppie disequilibrate. Altrove però l’incompatibilità è spesso determinata dalla figura femminile, una “bella donna” che sdegna le attenzioni dei suoi ammiratori maschi. Le poche coppie felici (anche se fugacemente) sono quelle in cui il desiderio è ugualmente condiviso tra i generi: «Hanno pari il voler, pari il desire, / Di brame eguali si nudrisce il seno» (Costa 1640: 242). È precisamente questo tipo di passione corrispondente che Marmotta cerca, senza i risultati sperati.

Poiché Meo non cede, la questione del letto matrimoniale rimane centrale. In I.8, la scena su Fessa analizzata più oltre, Marmotta descrive le notti da lei passate sul materasso, irrequieta a causa del desidero insoddisfatto (vv. 41-51). In seguito, spiega a Masino, il segretario di stato, che suo marito «vedovo ha fatto il suo ghiacciato letto» (I.9.32). Se, come Marzia Pieri ha notato, fino al ’700 «il teatro non fa che continuare a riprodurre, anche in età barocca, la radicale separazione fra eros e istituzione matrimoniale vigente nella società circostante» (Pieri 2014: 131), Li buffoni – opera pubblicata da una donna – è un’importante eccezione in cui la protagonista-moglie soffre proprio questa divisione.

Paesaggi contrastanti

Il tradimento che Marmotta contempla in quanto malmaritata non è quello di prendersi un amante come le sue antenate, malgrado i consigli della sua damigella Bertuccia. È invece un tradimento famigliare-politico: lasciare Marocco, annullando così l’accordo forgiato tra i due regni attraverso il matrimonio combinato. La natura politica della decisione di Marmotta è sottolineata dalla sua reazione quando Meo dichiara che «A te tocca a badare / A le cose del regno / E non saper s’io caccio o voglio amare» (vv. 125-7). Davanti alla proposta di prendere in mano lei l’amministrazione dello stato, ella si dispera («Signorsì, a me tocca / Di governar lo stato? / […] / oh povera Marmotta!» [128-32]) e si risolve a tornare a Fessa. I responsabili della corte cercano invano di convincerla a rimanere, di accontentarsi del titolo di moglie, anche se le viene negato il vero vincolo matrimoniale.

I due regni, Marocco e Fessa, svolgono un ruolo importante nella drammatizzazione delle differenze tra i generi e i loro rispettivi desideri. Il contrasto viene esplorato soprattutto nell’Atto I, scena 8, un episodio la cui importanza per la trama e i temi della commedia è evidente nell’essere tra i due più lunghi. La scena è un dialogo tra Marmotta e la sua damigella Bertuccia su questioni matrimoniali, famigliari e sessuali, che presenta l’antefatto della principessa e, di conseguenza, la natura di Fessa.

Dopo aver lamentato in apertura di scena lo stallo matrimoniale in cui si trova, Marmotta paragona l’assenza del marito alla sparizione anni prima di suo fratello. Il contrasto permette a Costa di introdurre il personaggio convenzionale del fratello a lungo perduto, in questo caso rapito dai corsari da bambino. Inoltre, la figura del fratello rappresenta sia il motivo sia la soluzione del maltrattamento di Marmotta. Il padre l’ha data «per vettovaglia» (v. 82) a Meo, per non essere più assalito da alcun ricordo del figlio perduto (sarebbe meglio, ella dice, se alle figlie i padri dessero «un bichier di veleno» [v. 10] anziché un marito). Oltre alla critica verso il padre, Marmotta si chiede se Meo oserebbe «straziarla» (v. 65) in questa maniera, se suo fratello fosse presente a controllare il trattamento riservatole. La domanda presagisce il denouement della commedia, in cui la scoperta del cognato (Baldassarre) provoca la “conversione” del comportamento del marito e il suo piegarsi al dovere matrimoniale.

Marmotta rivela a Bertuccia – e agli spettatori – di aver assistito (non vista e dalla finestra) alla scena in cui Meo aveva fatto le avances alla prostituta: «Infine intesi e vidi, e vidi e intesi / ch’egli Ancroia si gode a buona cera, / Ed io col flusso in man perdo primiera18» (I.8.122-24). Il triangolo richiama simili episodi nella commedia dell’arte che si svolgono davanti a una finestra, attraverso cui le donne «are largely initiated into theatre’s public space, where they are as free to exist without a mediating disguise as they are either to inflict themselves on or absent themselves from the piazza below» (Tylus 1997: 333). Marmotta sceglie di assentarsi invece di reagire sul momento (il suo scatto d’ira verrà dopo, quando vedrà i piatti preparati per il banchetto, che rovescerà per terra, insultando i servi e il marito insieme [III.6-7]). Qui invece l’abisso tra la forza delle sue carte e i risultati deludenti del “gioco” la induce a fare un altro paragone tra due contrari: il regno promettente di Fessa e quello insoddisfacente di Marocco.

Come il nome suggerisce, Fessa è un luogo dominato da donne, e non solo tali, ma «donne bizzarre» che dimostrano «le voglie aperte» (vv. 138, 140). In uno scambio di domande (di Bertuccia) e risposte (di Marmotta), le due interlocutrici discutono vari aspetti della vita a Fessa, inanellando una serie di doppi sensi legati al sesso e al desiderio femminile. Malgrado l’ambiente umido, ad esempio, i palazzi lì rimangono eretti e le strade sono «dritte, polite, e senza mota» (v. 145). Le donne si nutrono di «radiche d’erbe d’ogni sorte» (v. 265) e le pastore non fanno altro che «mugner» e di conseguenza «fan tanto formaggio» (vv. 270-1). Le fessatine si distinguono soprattutto per la libertà con cui seguono i loro desideri. Aprendo «de’pensieri d’amore lo scattolino» a chi lo cerca, «si fa l’amor con tutti a la scoperta. / Ma sai: modestamente» (vv. 177-8, 181), spiega Marmotta con non poca ironia, vista la munificenza con cui, dice, quelle donne ospitano il «forastiere» nelle loro case (v. 139). In altre parole, Costa inventa un genderscape (cioè una città determinata dal genere) basato sul desiderio erotico femminile, che contrasta con quello di Marocco, corrispondente invece ai piaceri maschili (il bere, la caccia, la bisboccia, le prostitute e così via)19. Mentre il regno di Marocco è disordinato, disfunzionale e antiuxorio, Fessa è ben ordinata, funzionale e filoginista.

Lo spettatore che si aspetta una reazione negativa da parte dei mariti fessatini sbaglia. Dato il gran «mercato» erotico-commerciale che esse fanno, i coniugi acconsentono volentieri a seguirle:



Le donne fessatine
Son per le case lor sempre un mercato.
[Son approveccie, e tengon tanto stretto
Che se lor dà ne l’unghie un capitale,
Mio danno se gli scappa.]
Se ’l marito di loro in capo a l’anno
Tirasse ben il conto, ei trovarebbe
Che più una donna ha lor portato in casa
Che mille mercatanti al lor paese.
[Gli uomini se ne stanno, e lascian fare.
Se la donna rinova un bel vestito,
Una bella collana, un bello anello,
Non ha da darne conto al suo marito] (vv. 159-71).

È una dichiarazione del potere – e del riconoscimento – sessuale, economico e famigliare di queste donne, una forza che contrasta con l’isolamento e l’inerzia provati dalle loro controparti marocchine. In breve, a Fessa, di malmaritate, non ce ne sono.

Come detto sopra, la commedia fu emendata, forse censurata. Questa (I.8) è la scena più ritoccata del testo, con numerosi versi cambiati oppure eliminati. È il caso dei versi in corsivo nella citazione di sopra: nella seconda versione furono depennati, e tolte in questa maniera sia l’asserzione della libertà della moglie nei confronti del marito, sia l’allusione alla natura erotica del loro buon commercio. Infatti, oltre a un accenno un po’ troppo esplicito alla penetrazione fatta da Meo a Filippetta quando le promette un regalo che «dentro vi va» (I.2.54), i versi eliminati appartengono tutti a questa scena: ben 36 di Marmotta, e 10 di Bertuccia. Di simile entità i versi mutati: 21 della principessa e 1 della serva. Insieme rappresentano un quarto della scena, qui trasformata per ridurre, in pratica, il numero di doppi sensi erotici – quando pronunciati da una protagonista nobile – e rimuovere la dichiarazione del potere coniugale delle donne. In altre parole, in questa versione l’insoddisfazione femminile rimane, ma la possibilità di un’alternativa viene ridotta.

Una conclusione buffonesca

Se con Li buffoni e la sua città immaginaria di Fessa, in cui prevalgono il desiderio e una certa autorità femminili, Costa sembra prendere una posizione protofemminista riguardo alla querelle des femmes, bisogna ricordare che il regno rimane tuttavia governato da un re, il padre di Marmotta (la madre non viene neanche nominata). Sebbene la principessa intendesse tornare a Fessa, credendosi l’unica erede e futura sovrana, la linea di successione maschile viene invece mantenuta con la ricomparsa del fratello Baldassare, il buffone spagnolo la cui consanguineità con Marmotta, come sappiamo, si rivela attraverso l’identica voglia trovata sulle braccia di entrambi. La tensione tra ruoli di genere più convenzionali e proto-femminismo è in realtà tipica della scrittrice, le cui opere letterarie e teatrali presentano sia donne che insistono sulla propria autonomia sessuale sia donne che, ad esempio, incoraggiano le altre a dedicarsi solo alla rocca e al fuso (Goethals 2017: 52).

In altre parole, se nella dedica Costa promette un’opera «insolita», il ritorno finale “all’ordine” previsto dal genere comico include la posizione sociale-politica della donna. Infatti, la soddisfazione del desiderio della malmaritata Marmotta, interessata a governare Fessa solo come consolazione del suo matrimonio non consumato, avviene grazie alla figura del fratello, il cui ritorno le fa perdere il trono ma ottenere il marito. Come accade spesso nella tradizione novellistica-teatrale, incluso nei casi di Sismonda nel Decameron e di Fulvia nella Calandra, il marito viene rimesso al suo posto rispetto alla moglie grazie all’autorità fraterna che lo minaccia o lo sfida. La mera presenza del cognato spinge Meo a cambiare immediatamente at- teggiamento. Buffone a corte fino al momento in cui il suo vero lignaggio viene rivelato, Baldassare si adatta subito alla nuova gerarchia di potere: le sue prime parole rivolte al cognato-principe sono un comando a soddisfare la moglie («L’aghas lo ch’ella chiere» [III.8.109]). Meo obbedisce, dicendo a Marmotta «comanda pure», e promettendo di voler con lei «passar il giorno e consumare la notte» (vv. 110, 129). In breve, Costa innova il theatregram della malmaritata perché, pur mantenendo la scontentezza iniziale di lei, la sciocchezza del marito e il potere del fratello, costruisce la trama sul desiderio e sul diritto della donna di essere sessualmente appagata dal proprio coniuge. Garantita la fedeltà notturna del marito, Marmotta non pensa più di tornare a Fessa, tanto meno di governarla. La protagonista è più che contenta di restare in Marocco, dove finalmente godrà del tutto il proprio ruolo uxorio.

La conclusione invita a domandarsi come si dovrebbe interpretare la figura di Marmotta. Raffigura l’unica parte seria in una commedia colma di figure burlesche? Essa stessa si presenta come figura tragica (come la sua antenata Alvira nel canovaccio di Scala La forsennata principessa): ovunque nella commedia si dispera, sospira, piange, canta pure un lamento in recitativo (III.4.15-60). Allo stesso tempo, nel prologo Costa asserisce che in questo testo prevale solo la buffoneria. Sebbene non appaia sulla lista di personaggi fisicamente e linguisticamente grotteschi, dovremo identificare come assurda anche la principessa malmaritata, perché si aspetta le attenzioni e la fedeltà del proprio marito? In tal caso, i desideri che ha imparato a Fessa rimarrebbero solo una “fesseria”.

References

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Nota

1 Costa (1641). Il testo è disponibile in un’edizione moderna curata da Siro Ferrone (Costa 1986) e, più recentemente, in una traduzione inglese col testo critico a fronte, per le cure di Sara Díaz e Jessica Goethals (Costa 2018). Le citazioni sono prese da quest’ultima.
2 Per la biografia di Costa si veda Capucci (1984); Costa-Zalessow (2008); Costa (2018: 2-24); Bianchi (1924-1925). La prima monografia sulla sua carriera sarà la mia Margherita Costa, Diva of the Baroque Court, di prossima pubblicazione presso la University of Toronto Press.
3 Sicuramente Costa aveva iniziato a comporre poesie mentre era ancora a Roma; queste vennero pubblicate nella sua prima raccolta, La chitarra, del 1638.
4 Su questo tema nel suo corpus, inclusa la commedia, si veda Goethals (2017); Cox (2008: 209).
5 Sul suo marinismo si veda Robarts (2019).
6 Si veda, per dare un esempio, Minor (2006). Sul contesto seicentesco della scrittura femminile, incluso il ruolo di Costa, si veda Cox (2008: 166-227).
7 Per studi sulla commedia si veda Megale (1988); Strappini (2003: 239-271); Goethals (2020); Coller (2017: 41-53); Aguilar (2017); Salvi (2004).
8 Garella 2018. Lo spettacolo, diretto da Nanni Garella, fu presentato anche a Modena e Catania. Sul testo si veda Goethals (2020: 377-379).
9 Sulla commedia ridicolosa si veda Mariti (1979). Per una discussione più ampia delle questioni di genere nei Buffoni si veda Costa (2018: 47-53); Goethals (2020: 366-370).
10 Si veda anche Megale (1994).
11 Costa pubblicò la commedia con i testi di quattro canzonette da cantare e ballare prima del prologo e tra i tre atti.
12 Nome dato da Galileo ai satelliti di Giove in onore di Cosimo II nel 1610. Interessante è anche una discussione satirica sull’utilità del telescopio come recipiente dell’urina degli ubriachi in un dibattito sulla natura del buffone (III.2). Curiosamente, Galileo possedeva una copia dei Buffoni (Favaro 1887: 66).
13 Sui significati di Fessa, si veda Costa (2018: 37-38); Strappini (2003: 269-270).
14 Costa chiama «fessatine» (I.8.159) e «fessanti» (I.1.40) gli abitanti del regno da lei immaginato.
15 Tutti i cambiamenti sono inclusi nell’edizione bilingue Costa (2018). Per un’analisi di essi si vedano le pp. 67-69.
16 Sara Díaz ha discusso Marmotta come malmaritata del suo intervento al convegno della Renaissance Society of America nel 2014, «Who Wears the Calzoni in the Family? Gendered Anxieties in Margherita Costa’s Li buffoni».
18 Nel gioco di carte della primiera il “flusso” era tra le mani più forti.
19 Su questo punto non concordo con la lettura di Salvi (2004), che vede Marocco – con la sua amministrazione composta da figure burlesche-grottesche – come, fra i due, il regno ordinato.


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